sabato 31 maggio 2008

Tumore al seno e terapia genetica su misura


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Eseguire un test genetico per arrivare ad una terapia su misura è il futuro della cura del tumore al seno. Non tutti i tumori sono uguali, anche se si parla di una certa neoplasia, in questo caso del carcinoma mammario, ci possono essere differenze sostanziali fra paziente e paziente, di conseguenza il tipo di risposta ad una data terapia può essere differente. In occasione dell'ASCO 2008 (American Society of Clinical Oncology), Luca Gianni, direttore del Centro di oncologia medica dell'Istituto nazionale tumori di Milano, ha evidenziato l'importanza delle "terapie anti-cancro" personalizzate, un obiettivo non limitata unicamente al tumore al seno ma a tutte le neoplasie.
Luca Gianni spiega che individuare le terapie più adatte ad ogni singolo caso sarà sempre più importante per migliorare la qualità della vita dei pazienti, si potranno ottimizzare i dosaggi e la durata della cura ma non solo, indirettamente, si potrà ottenere un notevole risparmio. In occasione del congresso dell'American Society of Clinical Oncology, che per il secondo anno consecutivo si è tenuto Chicago (Illinois - USA), i ricercatori italiani hanno presentato, con il supporto della fondazione Misericordia, uno studio sulla possibilità di predire tramite biopsia il vantaggio di dare alle donne con un tumore al seno un anticorpo monoclonale, come il trastuzumab, abbinato alla chemioterapia.
La scelta della terapia migliore per la cura del tumore al seno deve prendere in considerazione anche la possibilità di recidiva. Attualmente, negli Stati Uniti, test che hanno questo obiettivo vengono già fatti, si tratta dell'Oncotype e il MammaPrint. Purtroppo, in Italia non si effettuano, a parte in alcuni casi isolati, perché non sono rimborsabili dal Servizio Sanitario Nazionale. Per quanto riguarda l'Oncotype, il costo può arrivare addirittura a 3 mila euro ed è disponibile solo in laboratori privati.
Vediamo come funzionano i due test genetici per la cura del tumore al seno
L'Oncotype, attraverso l'analisi di 21 geni, è in grado di stabilire se una donna che ha già avuto un tumore al seno è a rischio di recidive. Riesce in pratica a stabilire se può ammalarsi di nuovo entro dieci anni. Attualmente, negli USA questo test viene prescritto annualmente a ben 25 mila pazienti colpite da tumore al seno Her2 positivo.
Il test fornisce un risultato compreso tra 0 e 100, più basso è il punteggio minori sono le probabilità che il tumore al seno possa ricomparire. Grazie al test Oncotype si possono identificare quelle donne che non hanno bisogno della chemioterapia, pazienti che potranno seguire semplicemente una terapia ormonale.
Negli USA l'Oncotype è un test genetico approvato dalla FDA, per questo motivo è rimborsato, al contrario, in Europa non è stato ancora riconosciuto e di conseguenza è a carico del paziente.
Il secondo test, battezzato MammaPrint, è stato invece sviluppato in Europa. In questo caso vengono analizzati 70 geni e l'obiettivo è sempre quello di misurare il rischio di recidiva. Per effettuare l'analisi basta un campione di tessuto canceroso appena prelevato di dimensioni paragonabili a quella necessaria per il tradizionale esame istologico.
Il MammaPrint è indicato per quelle pazienti colpite da carcinoma della mammella di I e II grado, ovvero con tumore al di sotto dei 5 cm e senza coinvolgimento dei linfonodi. Come l'Oncotype, il MammaPrint permette di conoscere le probabilità di recidiva della neoplasia fino a 10 anni di distanza, inoltre, stima le aspettative di vita. Un esito positivo del test garantisce assenza di ritorno del tumore nel 97 per cento dei casi e sopravvivenza nell'87 per cento dei casi.
Attualmente il MammaPrint si può fare presso il Centro di Genomica Funzionale dell'Ospedale Vittorio Emanuele di Catania, un traguardo reso possibile grazie alla collaborazione con il Centro Nazionale delle Ricerche (CNR) e di due aziende, la STMicroelectronics e la Wyeth Lederle.
Grazie a questi test, si possono individuare quelle pazienti che non hanno bisogno di inutili cicli di chemioterapia. Un vantaggio non solo per le donne, in quanto si migliora notevolmente la qualità della vita, ma anche per la collettività, visto che non si sprecano dei soldi per cure "inutili".

Fausto Intilla - www.oloscience.com

venerdì 30 maggio 2008

Il volo dei fotoni


Fonte:

Un gruppo di ricercatori del Laboratorio Europeo di Spettroscopie Non lineari (LENS) dell'Università di Firenze e dell'INFM-BEC hanno creato un nuovo materiale ottico nel quale la luce si muove nello stesso modo di un uccello in ricerca di cibo.
I ricercatori Pierre Barthelemy, Jacopo Bertolotti e Diederik S. Wiersma hanno denominato questa nuova classe di materiali "vetri di Lévy", in analogia con i cosiddetti "voli di Lévy", un processo di trasporto che si ritiene essere di fondamentale importanza in natura perché riesce a descrivere dei fenomeni apparentemente scollegati come l'andamento della borsa, la distribuzione degli spostamenti umani, il comportamento di terremoti, e, ad esempio, il percorso che animali seguono per cercare cibo.

In particolare gli uccelli. Provate a ricordare come fanno, per esempio quando perlustrano il terreno di un parco cittadino. Beccano in una zona ristretta, un po' di volte; poi fanno qualche passo e beccano nuovamente in una zona vicina; infine, si spostano nettamente, raggiungendo un'area più lontana, dalla quale riprendono le due procedure iniziali. Se tale strategia è analizzata in dettaglio, si scopre che risulta essere la migliore per raggiungere l'obbiettivo di recuperare la maggior quantità di cibo nel tempo minore. Una movimentazione casuale, beccando qua e là in continuazione, porta a casa risultati inferiori.Il gruppo di Firenze ha utilizzato questi criteri lavorando sulle emissioni luminose. Al posto di passeri e piccioni, in questo caso dobbiamo pensare a come i fotoni di luce interagiscono con un materiale. Lo colpiscono, si muovono all'interno della su superficie in tutte le direzioni e poi una parte riemerge. E' un movimento del tutto casuale. I ricercatori fiorentini sono invece riusciti a ottenerre materiali nei quali i fotoni assumono quell'andamento di cui si è detto. E' un modo che consente, quindi, una gestione più efficace delle emissioni luminose. Una possibile applicazione è quella dei pannelli solari. Dei fotoni che "volano" alla Levy possono ottimizzare la resa energetica.

Fausto Intilla - www.oloscience.com

giovedì 22 maggio 2008

Saremo riconosciuti dallo scorrere del sangue

Fonte:
Fujitsu ha ideato un sistema basato sullo scorrimento del sangue nelle vene di una mano che - dice - non può essere ingannato.
Il problema principale dei controlli biometrici attuali è che possono essere falsificati. Il mondo è pieno di gente che dimostra, con ricerche universitarie o più semplicemente nei telefilm, come ingannare un rilevatore di impronte digitali tramite una semplice fotografia o la riproduzione tridimensionale del dito.
Altri sistemi, invece, come il riconoscimento facciale, stanno migliorando ma la loro adozione è piuttosto lenta e vi sono perplessità sulla percentuale di falsi positivi e negativi. In questo incerto panorama, Fujitsu propone PalmSecure, un sistema basato sullo schema disegnato dalle vene della mano.
In pratica - spiega l'azienda - "viene scattata un'istantanea del sangue che si muove attraverso le vene. Molti altri sistemi di identificazione biometrica possono essere ingannati perché non richiedono l'uso di corpi viventi. Con il nostro prodotto si osserva il movimento dell'emoglobina deossidata che si sposta nelle vene".
Quindi per poter essere riconosciuti occorre proprio la mano originale, che sia attaccata al resto del corpo e con il sangue che la attraversa. Una riproduzione o una mano mozzata da scenario fanta-horror non andrebbero bene.
Dal punto di vista tecnico, un segnale (nella regione dell'infrarosso vicino) viene emesso da un sensore e colpisce la mano; il sangue venoso assorbe la luce e ciò che viene riemesso rappresenta lo schema disegnato dalle vene. Si tratta quindi sempre di un'immagine ma, a differenza di quelle delle impronte digitali non è statica: si tratta dell'immagine del sangue in movimento.
I tentativi di ingannare questo sistema eseguiti nelle università giapponesi, ha detto Fujitsu, sono falliti. Inoltre non c'è pericolo che lo schema delle vene vari nel tempo: a meno di seri incidenti, resta identico per tutta la vita.
Secondo gli ideatori, la scansione delle vene sarebbe preferibile a quella della retina in quanto non espone ai sensori una parte sensibile come l'occhio, e anche a ogni altro sistema perché non richiede contatto fisico, riducendo quindi al minimo la possibilità di scambiarsi batteri e microrganismi vari.
Di questa tecnologia, in realtà, si era iniziato a parlare già nel 2005: nel settembre di quell'anno avrebbero dovuto apparire sul mercato i primi sensori Palm vein insieme al software necessario, sia in versione Oem (integrati in portatili e Pc) sia con connessione Usb.
Per tre anni poi la vicenda è stata accantonata, per tornare alla luce in questi giorni grazie al rinnovato interesse delle agenzie statunitensi per la sicurezza nazionale, non completamente soddisfatte degli altri metodi.

Fausto Intilla - www.oloscience.com

Fusione fredda di nuovo alla ribalta


Fonte:
Ce l'hanno fatta: il primo esperimento pubblico di Yoshiaki Arata di Condensed Matter Nuclear Science, meglio nota come fusione fredda è stato un successo. Poche ore fa all'Università di Osaka è stata dimostrata, di fronte a un pubblico qualificato, la realizzazione di quello che viene definito ormai "Arata Phenomena". La prova è stata compiuta facendo diffondere Deuterio gassoso su una matrice a struttura nanometrica di 7 grammi composta per 35% di palladio e per il 65% di ossido di zirconio alla pressione di 50 atmosfere, la metà della pressione di una idropulitrice per autolavaggio. Il calore, prodotto fin dall'inizio, e cioè in concomitanza dell'immissione del Deuterio, ha azionato un motore termico che si è messo in moto cominciando a girare. Dopo circa un'ora e mezzo l'esperimento è stato volutamente fermato per effettuare le misure della presenza di Elio-4 a testimonianza dell'avvenuta fusione. Non sono state evidenziate emissioni di origine nucleare pericolose ( l'elio-4 è inerte). L'energia riscontrata è stata circa di 100.000 Joule, equivalente grosso modo a quella necessaria per riscaldare di 25 gradi un litro di acqua ( si tenga presente la modesta quantità della matrice nanometrica, 7 grammi). Quanto all'Elio, la quantità è assolutamente confrontabile e compatibile con l'energia prodotta, ed è la firma inequivocabile dell'avvenuta fusione nucleare. Al di là delle quantità misurate, si apre ora un capitolo nuovo nella comprensione dei comportamenti e delle reazioni che hanno luogo nella materia condensata, comportamenti che sembrano differire dai modelli fin qui seguiti dalla fisica nucleare classica.
A partire da oggi inizia un'altra fase, altrettanto delicata, legata principalmente a due fatti: la ripetizione dell'esperimento con una quantità maggiore di Palladio-Zirconio per ottenere quantitativi maggiori di energia; l'estrazione dalla matrice dell'elio senza danneggiarla e poterla così riutilizzare.
Yoshiaki Arata, 85 anni, professore emerito giapponese (uno dei padri del nucleare avanzato nipponico e delle ricerche anche sulla fusione calda), forte nazionalista (in pubblico parla solo giapponese), decorato dall'Imperatore, ha vinto la sua battaglia ventennale da samurai.Non ha smesso per un attimo di crederci, da quando Fleishmann e Pons annunciarono nel 1989 la sospetta fusione "in bottiglia" di molecole di deuterio (idrogeno più un neutrone di troppo) dentro un catodo di palladio. Molecole leggere, sospinte per via elettrochimica (un moderato flusso di elettroni nel fluido, dall'anodo al catodo) dentro le strutture esagonali del palladio, fino a intrappolarsi in massa, collidere, premere l'una sull'altra, fino a pressioni spontanee di milioni di atmosfere, quindi spaccare i propri nuclei, emettere calore, tramutarsi infine in Elio-4. Una fusione nucleare in piena regola, ma ottenuta senza mostruosi toroidi ad altissima energia (tipo Iter), come nelle stelle. Bensì dentro una modesta bottiglia, con un po' di acqua pesante (deuterio, lo si trova in natura) e con un particolare metallo raro. E la corrente elettrica di casa. Senza radiazioni e con la produzione finale di un gas inerte, l'elio, utile per gonfiare i palloncini.Troppo bello per essere vero. Fleishmann e Pons nel 1989 misero a rumore l'intera comunità scientifica mondiale ma non riuscirono mai a riprodurre stabilmente, se non per casi fortuiti, quel risultato straordinario, che avrebbe cambiato per sempre la storia dell'energia, del clima e forse della civiltà umana. E loro, insieme ai seguaci, furono così tacciati di truffa, di cialtronaggine, di ascientificità, fino all'emarginazione completa dalla comunità scientifica mondiale.Ma il samurai Arata tenne duro. Anche perché la sua tecnica di supercompressione del deuterio già negli anni 50 lo aveva incuriosito su certe strane anomalie incontrate con i metalli, che ora forse capiva. E decise di investire le sue ricerche su una strada diversa, per la fusione a bassa energia, da quella elettrochimica. Semplicemente spingendo, a forza di varie atmosfere, il deuterio dentro nanoparticelle di palladio, fino ad ottenere lo stesso iper-affollamento, la stessa vertiginosa crescita di pressione, la fusione e il calore. Oggi ha mostrato pubblicamente a Osaka il suo reattore in funzione, che, con soli pochi grammi di palladio ha mosso un motore a pistoni Stirling. Un reattore in parte realizzato anche con le idee di Francesco Celani e del suo gruppo di Frascati-Infn, il secondo laboratorio al mondo attivo sulla pista aperta da Arata (e il secondo gruppo di samurai). Nei prossimi giorni Arata ci proverà non con 7 ma con 60 grammi di palladio e conta di avere centinaia di watt termici di guadagno. Abbastanza da illuminare una casa, per mesi, forse con una bomboletta pressurizzata da un compressore da frigo. Ma la notizia più importante di oggi, di fronte alla platea dei maggiori giornalisti scientifici giapponesi (e alcuni venuti dagli Usa), è aver inequivocabilmente mostrato la produzione, dentro gli esagoni di palladio, di consistenti quantità di elio 4, la firma dell'avvenuta fusione nucleare e della trasmutazione del deuterio. Al punto che gli astanti hanno coniato il termine di "Arata Phenomenon". Che lui ha gentilmente accettato, con un inchino, appunto, da samurai.
Fausto Intilla - www.oloscience.com

Gli USA temono i processori “maligni”


Fonte:
di Luca Colantuoni - Mercoledì 21 Maggio 2008 alle 17:12

Come abbiamo scritto in un precedente articolo, modificando opportunamente un chip, è possibile aggirare le difese di sicurezza di un PC, senza essere scoperti.
Per evitare che possa verificarsi un simile evento, il Dipartimento del Difesa (DoD) degli Stati Uniti ha istituito il programma DARPA Trust in IC.
I chip realizzati nelle fabbriche dell’estremo oriente (in Cina o Taiwan), non sono presenti solo in prodotti consumer, ma anche in componenti utilizzati nella tecnologia militare USA. Esistono diversi modi per inserire nei chip porte logiche “cavalli di troia”.

La struttura di un processore potrebbe, per esempio, essere alterata sostituendo una delle maschere usate durante il processo fotolitografico. Oppure gli hacker potrebbero infiltrarsi nei computer sui quali sono memorizzati i progetti dei chip e modificare i progetti originali. Addirittura, sarebbe possibile modificare i chip anche dopo la fabbricazione, usando cannoni ionici come il Duoplasmatron.
Il progetto di ricerca Trust in IC ha, come scopo finale, lo sviluppo di nuovi strumenti di analisi e controllo per l’individuazione di circuiti integrati compromessi. Le tre aziende che partecipano al progetto, Raytheon, Luna Innovations e Xradia, tenteranno di scoprire componenti “maligni”, nascosti intenzionalmente in un insieme di chip dai ricercatori del Lincoln Laboratory del MIT.
Il DoD adotterà la tecnica che permetterà di scoprire almeno il 90% dei finti circuiti, riducendo al minimo il numero dei falsi positivi.
Anche se le tre società non hanno rivelato dettagli sui metodi di analisi, sembra che Xradia utilizzerà una sorta di tomografia a raggi X per ispezionare ogni singolo layer del chip, mentre Luna Innovations effettuerà un’analisi sistematica dei componenti per individuare quelli che non contribuiscono al funzionamento complessivo del chip.
I primi risultati del test saranno pronti per la fine del mese e, in caso di riscontri positivi, le tecniche continueranno a essere migliorate fino alla fine del programma Trust in IC, prevista per il 2010.
Fausto Intilla - www.oloscience.com

L'evoluzione della mente


Fonte:
a cura di Maurizio Melis

E' stata la Selezione Naturale a forgiare le nostre abilità cognitive? C'è una branca della psicologia, la psicologia evoluzionistica, che parte esattamente da questo presupposto: la mente dell'uomo, le sue peculiari predisposizioni e la sua organizzazione, sono frutto degli stessi meccanismi evolutivi descritti per la prima volta da Darwin. In questa luce, la psicologia evoluzionistica rilegge domande come: l'aggressività è un prodotto del nostro passato di scimmie cacciatrici? La propensione maschile per la "poligamia" ha delle basi biologiche? L'innamoramento si può spiegare meramente in termini biochimici?
Il fatto è che l'Uomo ha dovuto affrontare per millenni una quantità di problemi: sopravvivere evitando di essere ucciso dai predatori, costruire utensili, riconoscere i propri simili, comunicare con loro, trovare un partner adatto per procreare, allevare i figli, e infine gestire i rapporti sociali, che sono divenuti gradualmente sempre più complessi. Tutte attività che richiedono abilità cogitive specifiche. E chi le possedeva in maggior misura ha avuto maggior successo nel generare una discendenza. Per esempio, possiamo supporre che un individio dotato di migliori strutture cerebrali deputate al linguaggio, e quindi favorito nella comunicazione con i propri simili, abbia potuto rafforzare la propria posizione sociale in seno al gruppo, generando una prole più numerosa a cui ha trasmesso la propria abilità.
Vi sono, cioè, tutti gli ingredienti necessari perchè un processo evolutivo basato sulla selezione naturale possa operare. C'è cioè un ambiente che determina delle pressioni selettive, e il successo riproduttivo dipende dal grado di adattamento a queste pressioni, che è determinato da una base genetica.
E il contesto culturale? Mauro Adenzato, ricercatore all'Università di Torino e psicologo evoluzionista, precisa che cercare di spiegare l'evoluzione della mente senza considerare il contesto culturale è come cercare di calcolare l'area di un rettangolo conoscenso solo la base e non l'altezza. E' infatti evidente che il contesto culturale è, per le abilità congitive, parte integrante del concetto stesso di ambiente: l'individuo con buone potenzialità linguistiche, se si trova inserito in un gruppo sociale non linguistico, non potrà infatti trarne alcun vantaggio. Insomma, la dotazione genetica è una condizione necessaria ma non sufficiente. E' infatti l'ambiente che permette alle potenziali abilità di manifestarsi, trasformandole in un vantaggio concreto.
Un esempio interessante in questo senso è il pianto del bambino. Il neonato è "programmato" per lanciare un messaggio in caso di pericolo o disagio, appunto, attraverso il pianto. Possiede cioè un corredo genetico che include questa strategia. Tuttavia "lo sviluppo del bambino e la formazione della sua personalità - spiega Adenzato - saranno fortemente influenzati dalla risposta materna al pianto: cioè a seconda che la madre sia accudente, o che invece tenda a svalutare il messaggio di allarme lanciato dal bambino".
Il comportamento dell'individuo adulto, quindi, sarà il risultato dei meccanismi psicologici innati, che riceve per via genetica, e della sua specifica interazione con l'ambiente. E' su questi meccanismi psicologici, che si trovano alla base dell'infrastruttura cognitiva umana, e su come sono stati selezionati in milioni di anni, che si concentra l'attenzione degli psicologi evoluzionisti.

Fausto Intilla - www.oloscience.com

martedì 13 maggio 2008

Kevin Warwick: Intervista con il cyborg


Scienziato controverso, Kevin Warwick, professore di cibernetica all'Università di Reading (UK), conduce ricerche nel campo della robotica e delle interfacce uomo macchina. Recentemente è stato ospite del Fest di Trieste, dove ha raccontato gli esperimenti di cui è stato protagonista.
Ascolta l'intervista a Kevin Warwick
Qui potete anche ascoltare l'intervento integrale che ha tenuto a Trieste. Il titolo della conferenza era "Metà uomini, metà macchine".
Le ricerche di Warwick sull'intelligenza artificiale lo hanno portato a progettare robot dotati di sensibilità non lontane da quelle che a noi umani conferiscono i nostri cinque sensi, e a realizzare piccoli robot mobili, pilotati da una rete di cellule nervose (prelevate dal cervello di ratti).Ma l'aspetto più controverso dei suoi studi riguarda l'ibridazione uomo-macchina. Warwick, infatti, è convinto la prossima forma di vita a dominare sul nostro pianeta potrebbe essere una specie a metà fra l'essere umano e le macchine. E che l'umanità sarà divisa fra coloro che accetteranno di ibridarsi con le macchine, e gli altri: una sottospecie dalle potenzialità limitate. In due occasioni, Warwick si è sottoposto in prima persona a esperimenti di ibridazione con le macchine, facendosi impiantare nel braccio dei dispositivi elettronici.Il primo, nel 1991, gli permise di comunicare la sua presenza alle apparecchiature elettroniche del suo laboratorio. Warwick ritiene che chip di questo tipo, che sfruttano una tecnologia che sta a metà fra quella dei Gps e quella delle radiotrasmittenti (vedi qui), potrebbero essere impiantati a tutti, per permettere di localizzare in ogni istante le persone. Lo scienziato sa bene che l'idea suscita timori, ma risponde citando l'utilità di apparecchi di questo tipo nei casi, per esempio, di persone scomparse.In un secondo esperimento, nel 2002, si fece impiantare nel braccio un microchip che gli permise di comandare a distanza strumenti elettronici di diverso tipo. Fra questi, un braccio meccanico che lo scienziato riuscì a muovere collegandosi a internet: Warwick infatti si trovava alla Columbia University di New York, mentre il dispositivo meccanico era a Londra. In quell'occasione, sua moglie si fece impiantare un dispositivo analogo: i loro sistemi nervosi entrarono così in comunicazione e i due furono in grado di scambiarsi semplici messaggi (per esempio, lui sentiva quando lei muoveva il braccio).La prossima tappa, che Warwick vorrebbe realizzare entro i prossimo 6-7 anni, è la comunicazione telepatica, da attuare attraverso impianti collocati direttamente nel cervello. Lo scienziato ritiene che in questo modo sarà possibile scambiarsi anche informazioni complesse quali immagini e sensazioni.
Ascolta l'intervista a Kevin Warwick
Fausto Intilla - www.oloscience.com

domenica 11 maggio 2008

La Sindrome degli Antenati - Video documentario sulle teorie di Anne Ancelin Schutzenberger

Partendo dal concetto Junghiano di Inconscio Collettivo, e passando poi attraverso quelli un po' più "scientifici" studiati ed elaborati da due illustri ricercatori e scienziati che rispondono ai nomi di Rupert Sheldrake e Richard Dawkins (ovvero al concetto di Campo morfico o morfogenetico - Sheldrake, e al concetto di Trasmissione dei memi - Dawkins),si arriva a comprendere nel modo più chiaro e assoluto possibile, che tutto è in correlazione con tutto. Oltre alle teorie di Dawkins, Sheldrake e Jung, a supporto del concetto di “non-frammentabilità psichica” dell’Universo a noi noto, vi è anche una legge fisica che assai di rado viene associata all’idea di una “Psiche Universale”,perenne ed indistruttibile, ma che a mio avviso presenta delle strette affinità con quest’ultima; questa legge prende il nome di: Principio di Non-Località. Sulla base di tale Principio, estremamente affascinanti sono stati in seguito i modelli teorici sviluppati dal fisico americano David Bohm, che egli ha riunito giungendo all’ideazione di un’unica teoria denominata: “Teoria dell’Olomovimento” (dalla quale è nato il concetto di “Universo Olografico”). Da un punto di vista prettamente fisico, gli esperimenti Alain Aspect hanno confermato la validità del Principio di Non-Località, e per certi aspetti quindi, anche le teorie di D.Bohm sul concetto di Olomovimento.Ora, l’ennesima conferma di questa “non-frammentabilità” dell’Universo psicofisico in cui viviamo, ci giunge dal mondo della psicologia transpersonale-generazionale, grazie al lavoro dell’ormai nota psicologa francese Anne Ancelin Schützenberger, ideatrice della teoria da lei stessa denominata: “Sindrome degli Antenati”. A sostegno di tale teoria, l’autrice nel corso degli anni è riuscita a reperire,esaminare ed accumulare parecchi casi di “vita familiare” (tra le varie famiglie da lei osservate), in cui determinate situazioni o “fatti insoliti-particolari” si ripetevano continuamente nel tempo, di generazione in generazione. Dai tempi di William James sino ad oggi, quindi, tutti gli sforzi che abbiamo compiuto nel tentativo di comprendere una “buona fetta” della Realtà Ultima delle cose, sembrerebbero convergere interamente verso un’unica direzione: quella in cui sia il Piano Fisico che quello Psichico, tendono a manifestarsi come un unicumm, dove è proprio la loro reciproca interazione, a spiegare ogni cosa, a rendere evidente ciò che per secoli abbiamo sempre cercato di ignorare nel buon nome del metodo scientifico.Un video documentario sulla teoria della Sindrome degli Antenati, è disponibile in tre parti sul sito http://www.youtube.com/ (i filmati sono stati tratti dalla trasmissione Voyager, andata in onda sull’emittente RAI qualche giorno fa).
Fausto Intilla - www.oloscience.com

domenica 4 maggio 2008

La Cia collauda gli insetti robot


Fonte:

Vanessa Alarcon li ha visti per la prima volta il mese scorso, nel corso di una manifestazione contro la guerra a Lafayette Square. “Ho sentito qualcuno esclamare: “Santo cielo, guardate là”". Così ricorda la studentessa di New York all’ultimo anno di università. “Ho alzato lo sguardo e mi sono chiesta che cosa fossero… sembravano libellule o elicotteri in miniatura. Di certo, però, non erano insetti”. Bernard Crane, avvocato di Washington, era anche lui tra la folla. “Mai visto nulla del genere in vita mia. Erano troppo grandi per essere libellule”.
Questi sono soltanto alcuni tra i tanti avvistamenti avvenuti nel corso di recenti avvenimenti politici a Washington e New York. In molti sospettano che si possa trattare di droni (veicoli aerei telecomandati, Ndt) a forma di insetto, strumenti hi-tech di sorveglianza messi forse a punto dal Dipartimento per la Sicurezza Interna. Altri, invece, pensano che dopo tutto non sono altro che libellule, un’antica specie di insetti che perfino i biologi concordano essere molto somiglianti tanto a robot che a piccole creature.
Nessuna agenzia ammette di aver messo a punto droni spia delle dimensioni di un insetto, ma molteplici agenzie governative ed enti privati degli Stati Uniti effettivamente hanno ammesso che ci stanno provando. Alcune società di ricerca sovvenzionate con fondi federali stanno perfino allevando insetti vivi nei quali sono stati inseriti chip elettronici. Gli insetti robot - in inglese “robobug” - avrebbero la possibilità di seguire i sospetti, di guidare sul bersaglio i missili o di perlustrare le macerie degli edifici crollati alla ricerca di sopravvissuti.
A onor del vero, la Cia aveva messo a punto una libellula spia già negli anni Sessanta, e perfino gli scettici ammettono che un’agenzia potrebbe realmente essere riuscita in gran segreto a rendere una cosa del genere operativa e funzionale. Velivoli robot sono usati dall’esercito sin dalla Seconda guerra mondiale. Dai documenti del Dipartimento della Difesa emerge che sono oggi in uso un centinaio di modelli diversi, alcuni piccoli come uccellini, altri delle dimensioni di un piccolo aereo.
Nonostante tutto, però, passare dalle dimensioni di un uccellino a quelle di un insetto non è soltanto questione di dimensioni più minuscole. È soltanto in tempi molto recenti che gli scienziati sono infatti pervenuti a comprendere fino in fondo in che modo gli insetti riescano a volare, un’impresa biomeccanica che, nonostante tutti quanti ne siamo testimoni oculari, per decenni è stata ritenuta “teoricamente impossibile”.
Risale soltanto a un mese fa la scoperta, effettuata da alcuni ricercatori della Cornell University di come le libellule regolino il movimento delle loro ali anteriori e posteriori per risparmiare energia quando si librano in volo. Problema che gli esperti di robotica non riescono invece a risolvere in quanto i loro velivoli (almeno quelli conosciuti) tendono a consumare molta energia e necessitano quindi di batterie molto grandi e pesanti. La Cia è stata tra le prime ad affrontare il problema.
L’insectothopter, messo a punto dall’ufficio Ricerche e Sviluppo della Cia trenta anni fa, era in tutto e per tutto simile a una libellula e conteneva un minuscolo motore a benzina in grado di azionare quattro ali. Era in grado di volare, ma alla fine fu considerato un insuccesso perché non era riusciva ad affrontare i venti di traverso. Che il Dipartimento della Difesa sia impegnato a cercare di mettere a punto una cosa del genere pare però pressoché assodato. Alcuni ricercatori stanno inserendo alcuni chip nelle pupe delle falene - lo stadio intermedio tra il bruco e la farfalla adulta in grado di volare - per far sì che si schiudano “falene cyborg” perfettamente sane.
Ma c’è anche chi prendendo ispirazione dalla Cia, sta cercando di costruire velivoli in grado di volare con carburanti chimici piuttosto che a batteria. L’Entomopter, ancora nelle fasi iniziali di sviluppo presso i laboratori del Georgia Institute of Technology, simile a un aereo giocattolo più che a un insetto, trasforma il combustibile liquido in gas bollente, che aziona quattro ali che battono e attrezzature varie.
Anche se un giorno tutte le difficoltà e gli ostacoli tecnici dovessero essere superati, i micro-velivoli dalle dimensioni di un insetto saranno sempre un investimento rischioso. “Possono essere ingoiati da un uccello, rimanere impigliati in una ragnatela. Per quanto intelligente possa essere se un uccello arriva a 30miglia orarie non c’è modo di evitarlo. Insomma non sono utilizzabili per operazioni di spionaggio”.
Ma allora, che cosa hanno visto Crane, Alarcon e qualche altro manifestante presente alla marcia di Washington? E che cosa vide nel 2004, durante la Convention Nazionale Repubblicana di New York, un osservatore - forse un manifestante paranoico che marciava per la pace - che descrisse su Internet una “libellula nera immobile nell’aria a una trentina di metri d’altezza, nel bel mezzo della Settima strada, che pareva fissarci”?
Con ogni probabilità, secondo Jerry Louton, entomologo del Museo Nazionale di Storia Naturale, hanno visto delle vere libellule, se si tiene conto che Washington ospita alcune specie di grandi dimensioni e decorazioni spettacolari, che possono lasciare sbalorditi. Ma in realtà ci sarebbero anche alcuni dettagli che secondo lui non quadrano affatto. Tre distinte persone presenti alla dimostrazione di Washington hanno descritto una fila di sfere, dalle dimensioni di piccole bacche, attaccate alla coda delle grandi libellule - un’attrezzatura che Louton non riesce a spiegarsi. Oltre tutto hanno anche riferito di aver visto almeno tre libellule far manovra all’unisono e “le libellule non volano mai in gruppo”.
Mara Verheyden-Hilliard di Partnership for Civil Justice ha detto che il suo gruppo sta svolgendo indagini sulle dichiarazioni dei testimoni e ha presentato una richiesta formale di informazioni con il Freedom of Information Act inoltrata a svariate agenzie federali. Secondo lei, se simili dispositivi dovessero essere usati per spiare gli attivisti politici si tratterebbe di una “significativa violazione dei diritti civili della popolazione”.

Fausto Intilla - www.oloscience.com