venerdì 29 maggio 2009

Large Hadron Collider (LHC,Cern): si riparte in giugno con 450 GeV di energia per fascio.


(...) I fasci verranno fatti ripartire il mese prossimo (giugno 2009),inizialmente a basso regime, ossia a 450 GeV (gigaelettronvolt) per fascio. Questo per assicurarsi sull'integrità e la perfetta funzionalità di nuove parti e connessioni.
[Una parentesi: dei 53 magneti che si guastarono nel 2008, 37 sono stati sostituiti con dei nuovi magneti, e 16 sono stati riparati]
In un paio di giorni circa, le energie verranno portate a 2 TeV (teraelettronvolt) per fascio; in seguito il regime verrà portato al livello operazionale (target prefissato) di 5 TeV per fascio.
Il team di ricercatori dell'ATLAS inizierà con lo studio delle collisioni nel mese di luglio '09, e i primi dati importanti si potranno raccogliere ed analizzare soltanto ad ottobre '09. Da ottobre in avanti, il Large Hadron Collider continuerà ad essere attivo ininterrottamente per ben 11 mesi.
Ryszard Stroynowski, il coordinatore del progetto "Liquid Argon" Calorimetro, un apparato posto all'interno di ATLAS, non si aspetta comunque nessuna importante scoperta ne per la fine di quest'anno, e neppure per l'anno prossimo (2010). I risultanti più importanti e significativi, sono infatti attesi per il 2011. (...)

mercoledì 27 maggio 2009

Quando l'organismo fa a meno dei linfonodi


In caso di mancanza dei linfonodi l'attivazione delle cellule T può avvenire anche nel fegato.
Secondo un modello accreditato finora, i linfonodi rappresenterebbero nel nostro organismo i siti in cui viene organizzata la risposta immunitaria.
Questa concezione viene ora messo in dubbio da un articolo pubblicato sulla rivista online ad accesso libero "PLoS Biology", sulla base di un risultato ottenuto nella sperimentazione sui topi: i linfonodi infatti non sarebbero essenziali per il reclutamento dei linfociti T per rispondere alla minaccia rappresentata da una ferita della pelle. Questo inaspettato risultato implica inoltre l'esistenza nel fegato di un sito alternativo per l'attivazione dei linfociti T.
I topi che non hanno linfonodi a causa di una mutazione genetica nota come ipoplasia linfonodale sono fortemente immuno-compromessi e hanno perciò molta difficoltà a combattere infezioni e tumori. In questo nuovo lavoro di Melanie Greter, Janin Hofmann e Burkhard Becher dell'Istituto di immunologia sperimentale dell'Università di Zurigo hanno riscontrato come l'immunodeficienza associata all'ipoplasia linfonodale non sia dovuta alla mancanza dei linfonodi ma a una lesione genetica nelle stesse cellule immunitarie. La ricerca ha mostrato infatti come nei topi la funzionalità dei linfociti T rimanga inalterata in assenza di linfonodi, mentre restano fortemente deficitarie l'attivazione delle cellule B e la produzione di anticorpi.
Il fatto che le risposte delle cellule T possano essere attivate al di fuori dei linfonodi è molto sorprendente: significa infatti che tali cellule possono incontrare altrove gli antigeni per essere attivate.
Tracciando la migrazione di particelle fluorescenti dal sito dell'invasione antigenica, ovvero il punto in cui è stata praticata una ferita, si è scoperto che il fegato può fungere da struttura sostitutiva per l'attivazione dei linfociti T.
Durante lo sviluppo embrionale il fegato è il primo organo a fornire all'organismo sangue e cellule immunitarie. Sembra così che il fegato possa continuare la sua funzione di organo immunitario anche durante l'età adulta, almeno nei topi. Il lavoro suggerisce anche una spiegazione per una circostanza rimasta finora enigmatica: i pazienti trapiantati di fegato talvolta ereditano il repertorio immunitario e le allergie del donatore, quasi che con il fegato venga trapiantata anche l'informazione immunitaria dell'organismo.
Il risultato pone anche la questione se il fegato, come organo immunitario, possa rappresentare ciò che resta di un'epoca filogeneticamente precedente alla comparsa dei linfonodi negli uccelli e nei mammiferi. I vertebrati a sangue freddo hanno linfociti T e B ma non hanno i linfonodi, per questo si ritiene che questi ultimi rappresentino una tappa evolutiva fondamentale per lo sviluppo di migliori anticorpi. D'altra parte, i linfociti T non hanno cambiato di molto la loro funzione nel corso dell'evoluzione, e il lavoro dei ricercatori di Zurigo fornisce una solida evidenza scientifica in favore della versatilità di questo tipo di cellule. (fc)

martedì 26 maggio 2009

“X-shooter”, uno spettrografo in grado di raccogliere e analizzare l’intero spettro della luce proveniente dai corpi celesti più lontani.

Il Very Large Telescope può ora contare su X-shooter, uno spettrografo innovativo che analizza l'intero spettro delle sorgenti luminose, anche quelle più lontane.
Il Very Large Telescope (VLT), il telescopio europeo situato sulle Ande cilene, si è arricchito del suo primo strumento di seconda generazione. Si tratta di “X-shooter”, uno spettrografo in grado di raccogliere e analizzare l’intero spettro della luce proveniente dai corpi celesti più lontani, dall’ultravioletto all’infrarosso. Questo strumento è stato costruito in soli cinque anni grazie alla collaborazione di ricercatori di 11 istituti in Danimarca, Francia, Italia, Olanda, insieme all’Eso (European Southern Observatory).
Il nuovo apparecchio filtra e divide la luce in tre percorsi ottici: uno ultravioletto, l’altro visibile e il terzo infrarosso, e analizza simultaneamente questi spettri. Questa analisi permette di raccogliere informazioni sulla formazione e lo sviluppo delle stelle e delle galassie. “Finora erano necessari più strumenti installati su telescopi differenti e osservazioni multiple per coprire un intervallo di lunghezze d’onda così ampio, con grossi problemi dovuti al confronto dei dati che potevano essere stati presi in tempi diversi e con differenti condizioni atmosferiche”, ha sottolineato Sandro D’Odorico, coordinatore del team europeo che ha costruito l’apparecchio. X-shooter, invece, elimina questi inconvenienti, garantendo qualità e completezza dell’informazione con un tempo di osservazione minore. “X-shooter”, è stato istallato sul VLT a fine 2008 e ha iniziato le sue osservazioni lo scorso 14 marzo, registrando diversi spettri completi di stelle, di quasar e galassie distanti, delle nebulose associate alla stella Eta Carinae e alla Supernova 1987 A. La comunità astronomica internazionale potrà utilizzare “X-shooter” a partire dal prossimo ottobre e sono già oltre 150 le richieste di osservazioni pervenute all’Eso. “Ci attendiamo un salto di qualità nella comprensione di una grande varietà di fenomeni, dalla formazione delle nane brune fino ai meccanismi che hanno prodotto le galassie più massicce dell’universo primordiale e ai lampi di raggi gamma”, osserva invece Sofia Randich, dell’Inaf-Osservatorio di Astrofisica di Arcetri. Con “X-shooter”, infatti, sarà possibile indagare la radiazione delle sorgenti cosmiche di cui non si conosce la natura. I ricercatori italiani, grazie al significativo contributo dell'Inaf (Istituto nazionale di Astrofisica) e gli osservatori di Brera, Trieste, Palermo e Catania alla realizzazione del progetto, potranno presto sperimentarne le capacità in 46 notti di osservazione. (t.g.)

lunedì 18 maggio 2009

Cervello, individuati pattern decodifica informazioni emotive


Le diverse informazioni emotive sarebbero rappresentatate nel cervello con differenti pattern spaziali di attivazione corticale, rilevabili alla risonanza magnetica funzionale (fMRI) con metodi innovativi di analisi dei dati. Lo hanno dimostrato i ricercatori dell'Università di Ginevra in uno studio pubblicato oggi su Current Biology (T Ethofer et al., Decoding of Emotional Information in Voice-Sensitive Cortices, Curr Biol, May 14, 2009).
La capacità di interpretare correttamente i segnali emotivi preovenienti dalle altre persone è cruciale ai fini di una interazione sociale efficace.
I precedenti studi di neuroimmagine avevano mostrato che le aree uditive sensibili alla voce umana si attivano maggiormente in risposta a un ampio spettro di emozioni espresse vocalmente, rispetto a una prosodia emotivamente neutra; ma questa attivazione potenziata era stata dimostrata senza tenere conto delle specifiche categorie emozionali, rendendo perciò impossibile distinguere le diverse emozioni vocali attraverso le analisi convenzionali dei dati.
Nel nuovo studio i ricercatori sono invece riusciti, mediante analisi multivariata dei dati fMRI applicata al pattern spaziale complessivo di attivazione cerebrale, a distinguere quattro diversi “colori emotivi” con i quali venivano lette delle pseudoparole ai soggetti sperimentali: rabbia, tristezza, sollievo, gioia.
I ricercatori svizzeri spiegano che ciò è stato possibile in quanto i metodi tradizionali di analisi hanno sempre elaborato separatamente singoli “punti” del cervello, mentre loro hanno analizzato il pattern complessivo di attivazione: “in un puzzle composto da tessere bianche o nere, guardando i singoli pezzi è pressoché impossibile dire se questi andranno a comporre la figura di una zebra o di una scacchiera, mentre lo è mettendo insieme tutti i pezzi del mosaico”, semplificano con una metafora i ricercatori.

Siamo prossimi a un avanzamento tecnologico che ci consentirà di potenziare il cervello umano oltre l'immaginabile.

Siamo prossimi a un avanzamento tecnologico che ci consentirà di potenziare il cervello umano oltre l'immaginabile. Lo sostiene Andy Coghlan sul New Scientist, riportando quanto emerso nel meeting Neuroscience in Context, che si è chiuso ieri a Berlino (A Coghlan, Will designer brains divide humanity? NewSci, May 13, 2009).
A Berlino filosofi, neurologi, antropologi, tecnologi provenienti da tutto il mondo si sono francamente confrontati su questi temi e sulle ripercussioni etiche di questa nuova fase di sviluppo dell'umana specie.
Lambros Malafouris del britannico McDonald Institute for Archaeological Research di Cambridge ritiene che questa non è che una nuova fase del processo della storia umana, perché gli uomini hanno sempre cercato di potenziare le capacità del proprio cervello.
Andreas Roepstorff della danese Aarhus University, toccando il tema della plasticità cerebrale, ha mostrato immagini di risonanza magnetica che mostrano che le aree del cervello che controllano la respirazione sono più ampie nei soggetti che praticano meditazione.
Merlin Donald della canadese Queens University di Kingston, ha parlato della attuale maggiore fluidità mentale e capacità di sintonizzarsi con le esperienze delle altre persone tramite le nuove tecnologie in termini di “superplasticità”, legata a una cognizione distribuita, radicata in un enorme sistema culturale.
Il futurologo Ray Kurzweil ha focalizzato il suo intervento sui contributi diretti che la tecnologia porterà al potenziamento del cervello umano, principalmente con protesi neurali e ingegneria genetica, verso un futuro orientato al cyborg che avrà un punto di svolta (“singolarità”) nell'anno 2045.
Andy Clark, filosofo della University of Edinburgh, sostiene fortemente l'idea di un futuro in cui tutti gli esseri umani avranno la possibilità di interfacciarsi con i computer, per migliorare le capacità di immagazzinamento e di recupero delle memorie.
Dieter Birnbacher, filosofo della University of Dusseldorf, ha sottolineato i rischi per la dignità umana che la possibilità di un automiglioramento basato esclusivamente sulla tecnologia porta in seno e si chiede: che cosa sarà considerato “normale”, che differenza c'è rispetto al doping sportivo, chi ci assicura che tali cambiamenti non si tradurranno in una divisione della specie in potenziati e non, con conseguenti discriminazioni e stigma sociale?
John Dupré della britannica University of Exeter condivide sostanzialmente le preoccupazioni di Birnbacher, prefigurandosi un mondo diviso in due specie umane completamente differenti, e invita a prendere in considerazione alternative di potenziamento non tecnologiche, quali cultura, educazione e arricchimento degli stimoli ambientali: studi recenti hanno ad esempio dimostrato che le cure materne sono in grado di modificare la stessa espressione genica del bambino.
Questi rischi potranno essere evitati? Chris Gosden, archeologo della University of Oxford, pensa di sì, se gli strumenti di potenziamento riusciranno ad avere la diffusione delle attuali nuove tecnologie di comunicazione quali telefoni cellulari e computer.
Coghlan chiude il resoconto del meeting di Berlino ricordando che gli impianti cerebrali sono già disponibili e venogono applicati attualmente a persone con gravi disabilità: ad esempio, interfacce uomo macchina già consentono a pazienti paralizzati di muovere il cursore sul monitor di un computer, usare la posta elettronica, comandare l'impianto elettrico e la televisione; Andrew Schwartz sta sviluppando alla University of Pittsburgh microchip da impiantare nel cervello per mettere in grado i soggetti di muovere braccia meccaniche o di parlare attraverso sistemi computerizzati mediante comunicazioni wireless. Lo stesso esercito USA sta da tempo lavorando a progetti di potenziamento dei militari che fanno tesoro delle recenti scoperte delle neuroscienze, attraverso la Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA), alla quale vengono destinate ingenti risorse governative.

giovedì 14 maggio 2009

Come trasformare il rumore acustico in energia utilizzabile.

"Rumore Bianco": è un segnale del tutto casuale. Nessuna informazione sul suo andamento in un qualunque intervallo di tempo, fornisce informazioni sul valore che assumerà nell'istante successivo.

Il rumore è, indubbiamente, quella cosa che cerchiamo di chiudere fuori casa con i doppi vetri. Tuttavia, rumore è per i fisici qualunque tipo di vibrazione, dell'aria come di un campo elettrico, che sia sufficientemente disordinata e imprevedibile da non poter essere considerata un segnale.
Rumore è il fruscio elettromagnetico che proviene da tutte le direzioni dello spazio indistintamente, e che testimonia di un Universo neonato e assai turbolento; rumore è il sottofondo di vibrazioni registrate dai sismografi posti in tutto il mondo: si tratta in questo caso di rumore sismico, a frequenze così basse che l'orecchio non può udirlo. Rumore è anche la vibrazione delle molecole a qualunque temperatura superiore allo zero assoluto: si parla in questo caso di rumore termico. E poi c'è il rumore della sopraelevata vicino casa, quello che, come si diceva all'inizio, si sente benissimo e perciò dà parecchia noia.
Sta di fatto che laddove c'è una vibrazione c'è anche energia. Anzi, per certi versi il rumore è il nipote di tutte le energie, nel senso che qualunque sia la fonte energetica primaria e qualunque sia il processo che questa alimenta, una quota significativa dell'energia iniziale verrà infine dispersa sotto una forma che potremmo facilmente definire rumore (termico, acustico, elettronico ecc. a seconda del processo fisico). Rumore, dunque, se ne trova un po' ovunque. Per questo gli scienziati studiano da alcuni anni un modo per estrarre dal rumore l'energia che contiene. Non solo perché è una sfida stimolante, ma perchè anche questa fonte potrebbe contribuire al futuro mix energetico.
Si tratta di un compito non facile, per via dell'estrema irregolarità del rumore stesso. Tuttavia, al Laboratorio NiPS dell'Università di Perugia sono specializzati proprio in questo tipo di studi, e hanno scoperto che particolari oscillatori non lineari sono in grado di estrarre enrgia dal rumore con una buona efficienza. Ne parliamo con Luca Gammaitoni, che appunto dirige il NiPS, e Leonardo Alfonsi, direttore festival di Perugia che ha anche realizzato una mostra sul rumore.

Il battito cardiaco stimola la formazione delle cellule del sangue.

Lo stress meccanico provocato dal battito cardiaco nell’embrione favorisce la produzione delle cellule del sangue. Due studi su Cell e Nature.
Il battito cardiaco stimola la formazione delle cellule del sangue. Ecco perché il cuore comincia a battere tanto precocemente nell’embrione, prima che i tessuti abbiano bisogno di essere irrorati. A sostenerlo sono due studi pubblicati online rispettivamente su Cell e Nature, condotti dai ricercatori del Children’s Hospital Boston, del Brigham and Women’s Hospital e dell'Harvard Stem Cell Institute (Usa).
Nella prima delle due ricerche sono stati studiati gli embrioni di pesce zebra che, essendo trasparenti, permettono l’osservazione diretta dello sviluppo. Secondo i risultati, le sostanze che modulano il flusso sanguigno hanno un forte impatto sull’espressione del gene Runx1, principale regolatore della maturazione del sangue. A confermare l’ipotesi è stata l’osservazione dello sviluppo di embrioni che non presentavano battito cardiaco precoce né circolazione sanguigna e che quindi possedevano un corredo di cellule staminali emopoietiche fortemente ridotto.
Nel secondo lavoro sono stati studiati gli effetti della stimolazione meccanica sulle cellule staminali sanguigne negli embrioni di topo in cultura. I ricercatori hanno scoperto che la pressione indotta sulla superficie delle pareti dell’aorta determina una maggiore espressione dei geni regolatori della formazione del sangue, incluso l’Runx1. Lo stress meccanico stimola anche la formazione dei precursori delle cellule del sangue (linfociti, globuli rossi,...). In effetti, prima della comparsa del battito, l'espressione dei geni regolatori e il numero delle cellule emopoietiche erano fortemente ridotti; aumentavano se sottoposti a stimolazione meccanica.
I risultati degli studi, secondo gli autori, potrebbero portare a nuovi trattamenti per pazienti che soffrono di malattie ematiche o che devono sottoporsi a un trapianto di midollo. “Queste osservazioni rivelano un ruolo inaspettato delle forze biomeccaniche nello sviluppo embrionale”, ha commentato Guillermo García-Cardeña, del Brigham and Women's Hospital: “Il nostro lavoro mostra un legame importante tra la formazione del sistema cardiovascolare e di quello ematopoietico”. (e.r.)

L'esperienza conta

FONTE

Gli studiosi hanno analizzato i meccanismi cerebrali che influiscono sulle decisioni mediate dall'esperienza.
I ricercatori del Biotechnology and Biological Sciences Research Council (BBSRC) hanno trovato evidenza scientifica di un dato che il senso comune ha già dato per acquisito: la passata esperienza costituisce un valido aiuto quando occorre prendere una decisione sulla base di un'informazione incerta o confusa.
In sostanza, in quest'ultimo studio i ricercatori hanno dimostrato come l'apprendimento indotto dall'esperienza cambi realmente i circuiti cerebrali in modo da permettere di categorizzare velocemente ciò che percepiamo e di prendere una decisione altrettanto rapidamente.
Secondo quanto riportato sulla rivista “Neuron” da Zoe Kourtzi e colleghi dell'Università di Birmingham, l'esperienza passata ristruttura effettivamente il nostro cervello in modo che esso possa rispondere in modo appropriato in qualunque contesto.
Nello scegliere lo svolgimento dell'azione che con più probabilità avrà successo, il cervello deve interpretare ciò che vede, o in generale percepisce, attribuendo un significato a una informazione intrinsecamente incerta. Tale capacità è cruciale, per esempio, quando dobbiamo rispondere con un'azione a stimoli visivi che sono tra loro molto simili. È ciò che succede quando si cerca di riconoscere un volto amico in una folla.
Gli studiosi hanno analizzato i meccanismi messi in atto dal cervello che influiscono sulle decisioni mediate dall'esperienza misurando i segnali cerebrali di un gruppo di volontari che svolgevano un test in cui occorreva imparare a discriminare tra schemi visivi simili assegnandoli a differenti categorie.
I soggetti sottoposti al test dovevano classificare alcuni schemi visivi sulla base di due diverse regole, concepite in modo da produrre categorizzazioni tendenzialmente diverse tra loro."Il nostro utilizzo dell'imaging in combinazione con tecniche matematiche ci permette di ottenere preziose informazioni sui segnali cerebrali che indicavano le scelte adottate dai partecipanti", ha spiegato Kourtzi. "Ciò che abbiamo mostrato, è che le precedenti esperienze possono allenare i circuiti cerebrali che ci permettono di riconoscere le categorie percepite invece che semplicemente le somiglianze fisiche tra schemi visivi. Sulla base di ciò che abbiamo trovato, proponiamo un modello in cui l'informazione appresa sulle categorie è effettivamente preservata nei circuiti cerebrali nelle aree occipitali del cervello. Da queste, l'informazione viene trasferita alle aree frontali che la trasformano in decisioni flessibili e azioni appropriate che dipendono dalle richieste del compito.” (fc)

mercoledì 13 maggio 2009

Deuterio ultradenso prodotto in laboratorio

FONTE

Secondo gli studiosi, si tratterebbe di un "metallo invertito" con i nuclei di deuterio che si muvono nel campo degli elettroni stazionari.
Un campione di deuterio ultradenso - un cubo di 10 centimetri di lato peserebbe 130 tonnellate - è stato prodotto da un gruppo di ricerca del Dipartimento di chimica dell'Università di Goteborg, in Svezia, guidato da Leif Holmlid.
Secondo le attuali conoscenze, si tratta di una forma di materia coinvolta nei processi che portano alla formazione delle stelle, e potrebbe essere presente all'interno dei pianeti giganti come Giove.
Il deuterio ultra-denso, denominato D(-1) è stato osservato in quest'ultimo studio, pubblicato sulla rivista "International Journal of Mass Spectrometry", utilizzando la tecnica di esplosione coulombiana indotta da un laser ultrapotente e misurando l'energia cinetica e la massa dei prodotti della reazione. Il valore dell'energia cinetica, in particolare, ha permesso di risalire alla distanza interatomica D-D, stimata in 2,3 ± 0,1 picometri (millesimi di miliardesimi di metro) in buon accordo con il valore di 2,5 picometri ottenuto per via teorica.
Secondo gli studiosi, si tratterebbe di un "metallo invertito" con i nuclei di deuterio che si muvono nel campo degli elettroni stazionari.
Non si tratta però di una semplice esercitazione di laboratorio: gli autori prefigurano infatti importanti applicaizoni pratiche in campo energetico.
“Un importante obiettivo della nostra ricerca è che un simile materiale possa essere utilizzato come combustibile molto efficiente negli esperimenti di fusione nucleare a confinamento inerziale innescata da laser ultrapotenti”, ha commentato Leif Holmlid.
Tale tipo di tecnologia è stata testata finora su deuterio criogenico noto anche come “ghiaccio di deuterio”, con scarsi risultati. Nella pratica infatti, è risultato molto difficile comprimere il deuterio a livelli sufficienti a raggiungere le alte temperature richieste per innecascare il processo di fusione nucleare.
Quello ora ottenuto è uno stato della materia un milione di volte più denso del deuterio criogenico, una circostanza, questa, che potrebbe rendere sufficientemente agevole superare tale difficoltà utilizzando impulsi laser di potenza elevata.
Sulle possibilità di sfruttamento tecnologico della scoperta gli autori sembrano molto ottimisti. “Se si riuscisse a produrre grandi quantità di questo materiale, il processo di fusione potrebbe diventare la sorgente energetica del futuro, e molto prima di quanto ritenuto finora”, ha concluso Holmlid.
Inoltre, gli stessi studiosi sono fiduciosi di poter progettare il processo di fusione del deuterio in modo che i prodotti finali siano esclusivamente elio e idrogeno, evitando così di ottenere trizio radioattivo, come si intende fare in alcuni modelli ipotizzati finora. (fc)

martedì 12 maggio 2009

Vaccini anti-HERV per eliminare l'HIV

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Nelle cellule infettate da HIV si risvegliano i retrovirus endogeni HERV il cui genoma è integrato con quello dell'ospite. HIV ed HERV sono riconosciuti da differenti linfociti-T.
Un nuovo potenziale obiettivo molecolare, che permetterebbe di combattere l'infezione da HIV, è stato identificato dai ricercatori dell'Università della California a San Francisco e dell'Università di Toronto.I risultati della ricerca sono riportati da un articolo pubblicato on line sulla rivista "PLoS Pathogens" e dimostrano che l'infezione da HIV sarebbe in grado di riattivare genomi di antichi virus, i retrovirus endogeni umani o HERV, che sono divenuti parte del genoma di tutte le cellule umane. Da questa scoperta potrebbe partire lo studio di nuovi vaccini che, avendo come obiettivo gli HERV, possano uccidere indirettamente le cellule infettate dall'HIV.I ricercatori hanno osservato che quando il metabolismo della cellula infettata da HIV viene forzato al fine di riprodurre il virus, cade la funzionalità di alcune reazioni biochimiche di contenimento dell'espressione del genoma "fossile" di queste antiche infezioni virali. Si è così scoperto che i linfociti T che riconoscono gli HERV sono differenti da quelli che riconoscono l'HIV.
Brad Jones, uno degli autori dello studio, ha spiegato "Il sistema immunitario fatica a tenere sotto controllo l'HIV, e questo determina una progressione della malattia. Per contro, l'infezione da citomegalovirus (CMV) viene in genere controllata per tutta la durata della vita. Le cellule T specifiche contro Gli Herv hanno molto più in comune con le cellule T che uccidono il CMV di quanto che non con quelle che attaccano l'HIV. Questa è una scoperta incoraggiante che suggerisce che i linfociti T HERV-specifici potrebbero essere più efficaci dei linfociti T HIV-specifici nel controllare il virus".Keith E. Garrison, altro autore della ricerca, ha poi spiegato che "Un significativo limite di un vaccino che abbia come obiettivo l'HIV, è che di esso esistono moltissime varianti, e che è in continua mutazione. Se possiamo trovare un'altra via perché il sistema immunitario colpisca le cellule infettate dall'HIV, possiamo superare questo problema nella messa a punto di un vaccino. Gli HERV sono un buon obiettivo da sondare".

Tre proteine per riprogrammare le cellule in fibre cardiache


L'iterazione tra Gata4, Tbx5 e Baf60c permette la ri-differenziazione di cellule mesodermiche in cellule cardiache, aprendo le porte a nuove terapie per gli infartuati.
Il mix di proteine in grado di innescare il processo per riprogrammare qualsiasi cellula in cardiomiociti (cellule cardiache) è stato scoperto da due ricercatori del Gladstone Institute of Cardiovascular Disease di San Francisco, Jan Takeuchi e Benoit Bruneau, che ne dan l'annuncio tramite un articolo su Nature.La scoperta apre le porte ad una nuova terapia basata sulla riprogrammazione cellulare, sperando che superi i deludenti risultati finora ottenuti con le staminaliNel corso della ricerca sono state identificate tre proteine, due fattori di trascrizione (Gata4 e Tbx5) e la proteina cardiaca Baf60c, che insieme hanno portato alla mutazione di cellule del mesoderma di un topo in cellule cardiache. Se il meccanismo si dimostrasse efficace anche nell'uomo in teoria sarebbe possibile riprogrammare qualsiasi cellula riparare il muscolo più importante del corpo, che di norma ha una ridottissima capacità rigenerativa.

Riprodotta la Sma di laboratorio nelle cellule staminali

FONTE

Grazie alle cellule staminali e" possibile riuscire a riprodurre una malattia in laboratorio, studiarne i vari aspetti e ipotizzare possibili terapie. E" quello che ha fatto un gruppo di ricercatori delle universita" del Wisconsin-Madison e del Missouri-Columbia in uno studio pubblicato sulla rivista Nature. Gli scienziati hanno riprogrammato in staminali pluripotenti le cellule prelevate dalla pelle di un bimbo colpito da atrofia muscolare spinale (Sma), malattia genetica neurodegenerativa. In laboratorio le cellule si comportano esattamente come nell"organismo colpito dalla patologia, dando l"opportunita" ai ricercatori di osservare il corso della malattia. Un"opportunita" del tutto nuova, resa possibile da un"altra scoperta, questa volta giapponese, che poco meno di un anno fa ha permesso di riprogrammare le cellule adulte in simil-embrionali. ""Prima si poteva lavorare su queste malattie - ha spiegato Clive Svendsen, uno degli autori dello studio - analizzando i tessuti prelevati dai pazienti dopo la morte.
In pratica, era come quando la polizia arriva sulla scena del crimine o di un incidente a fatti gia" avvenuti. Ora, con le cellule riprogrammate, si puo" replicare la malattia in laboratorio e osservare i primissimi passaggi all"origine di tutto il processo"". Oltre alle cellule del piccolo paziente, i ricercatori hanno prelevato quelle della madre sana. Le cellule sono state fatte crescere con successo e poi, grazie a una nuova tecnica, "trasformate" in "motoneuroni", che controllano i muscoli e che sono colpiti "a morte" nelle persone con Sma. Inizialmente, i due campioni cellulari non hanno mostrato differenze, ma dopo un mese solo i "motoneuroni" ottenuti dalle cellule del bimbo malato sono scomparsi. ""Proprio come accade nell"organismo che fa i conti con la Sma"", ha sottolineato Svendsen. Il prossimo passo sara" ora capire che cosa uccide i "motoneuroni" e perche" queste cellule soltanto sono il bersaglio della malattia. Sara" possibile cosi" sviluppare terapie per una patologia al momento senza cure. Lo stesso meccanismo, inoltre, potra" essere applicato ad altre malattie genetiche come la Corea di Huntington.
Federico Cesareo

Un gene estraneo che bypassa difetti mitocondriali


Protegge la "centrale energetica" della cellula dall'eccesso di radicali liberi che si formano quando le loro vie metaboliche normali sono boccate.
La scoperta apre nuove prospettive terapeuticheDotandoli di un gene presente in un'altra classe di animali, è possibile eliminare i sintomi di parkinsonismo nei moscerini della frutta appositamente alterati per manifestare la malattia. Il gene agisce a livello dei mitocondri proteggendoli da un eccesso di radicali liberi che si formano quando alcune loro vie metaboliche sono inceppate. La scoperta è stata fatta da ricercatori dell'Università di Tampere diretti da Howard Jacobs, che ne danno notizia in un articolo pubblicato sulla rivista "Cell Metabolism".Il nuovo gene chiave, AOX (alternative oxidase) agisce come una via alternativa rispetto al blocco della fosforilazione ossidativa (OXPHOS) della catena respiratoria nei mitocondri."Questo è il primo organismo completo su cui è stata testata l'idea che si possa prendere un gene che codifica un solo polipeptide e bypassare OXPHOS quando è bloccato", ha detto Jacobs, sottolineando che la via metabolica OXPHOS comprende decine di componenti e centinaia di proteine.
I difetti nell'OXPHOS mitocondriale sono associati a diversi disordini, spesso incurabili. E' però possibile che questa strategia testata sulla drosofila possa essere di beneficio anche nei mammiferi, esseri umani inclusi, che al pari degli artropodi nel corso dell'evoluzione hanno perso il gene AOX. La maggior parte delle piante, diversi animali (come anellidi, molluschi e urocordati) e i funghi possiedono invece una catena respiratoria alternativa basata su AOX che in particolari condizioni fisiologiche si sostituisce al sistema OXPHOS. In uno studio precedente, Jacobs e colleghi avevano verificato in cellule umane l'ipotesi che AOX potesse aggirare le conseguenze dell'inibizione di OXPHOS inserendovi il gene prelevato dall'ascidia Ciona intestinalis. La proteina codificata dal gene AOX trovava effettivamente la propria strada verso i mitocondri e rendeva la cellula resistente all'acidosi metabolica allo stress ossidativo e alla morte cellulare altrimenti innescata dal trattamento con inibitori di OXOPHOS come antimicina e cianuro. Ora i ricercatori hanno mostrato che lo stesso vale nell'animale in vivo e che l'attività di AOX di Ciona in tutto l'organismo apparentemente non provoca disturbi ai moscerini, che anzi risultano parzialmente resistenti al cianuro e all'antimicina. In un ceppo mutante di moscerini portatori di una variante del gene dj-1b - che li rende un modello della malattia di Parkinson legata al gene DJ1 - AOX ha anche eliminato i difetti di movimento e l'eccesso di produzione di specie reattive dell'ossigeno da parte dei mitocondri.

Quando l'universo "congelò"

Un nuovo modello che ipotizza una transizione di fase cosmologica avvenuta 11,5 miliardi di anni fa potrebbe render conto della sfuggente energia oscura.
11,5 miliardi di anni fa, quando aveva un quarto delle dimensioni attuali, l'universo avrebbe subito un improvviso "congelamento", di fatto una transizione di fase, che potrebbe spiegare l'origine dell'energia oscura. Lo afferma un nuovo modello cosmologico proposto da Sourish Dutta della Vanderbilt University, e Stephen Hsu dell'Università dell'Oregon, che lo illustrano in una articolo pubblicato sulle "Physical Review D"."Uno degli aspetti decisamente insoddisfacenti delle spiegazioni attualmente esistenti della materia oscura è che sono difficili da testare" dicono gli autori. "Noi abbiamo progettato un modello che può interagire con la materia normale e ha quindi conseguenze osservabili."Il modello associa l'energia oscura alla cosiddetta energia del vuoto e, come altre teorie, ipotizza che sia lo stesso spazio la fonte dell'energia repulsiva che fa espandere l'universo. Un tempo si riteneva che l'energia dello spazio vuoto fosse in media pari a zero, ma per la meccanica quantistica lo spazio vuoto è ricolmo di coppie di particelle "virtuali" che spontaneamente vengono e sfuggono dall'esistenza troppo rapidamente per essere rivelate. Questa attività, osservano i ricercatori, si propone come possibile origine dell'energia oscura, dato che entrambe sono uniformemente diffuse nell'universo. In contrasto con le teorie che reintroducono la costante cosmologica di Einstein per dar conto dell'espansione sempre più rapida dell'universo, la nuova teoria appartiene a quelle che attribuiscono l'energia oscura a un nuovo tipo di campo, noto come "quintessenza", che si affiancherebbe a quelli elettromagnetico e gravitazionale, ma la cui intensità sarebbe uguale in tutto l'universo. Inoltre, questo campo avrebbe un'azione antigravitazionale. Una delle conseguenza dell'ipotetica interazione della quintessenza con la materia normale è che ciò renderebbe probabile che il campo sia passato attraverso una transizione dei fase quando, circa 2,2 miliari di anni dopo il Big Bang l'universo si era sufficientemente raffreddato. Secondo i calcoli dei ricercatori la densità di energia del campo di quintessenza sarebbe rimasto a un livello decisamente elevato fino al momento della transizione di fase, per poi crollare improvvisamente ai più bassi livelli attuali. Nella transizione di fase sarebbe stata rilasciata una frazione di energia oscura sotto forma di radiazione oscura e questo rilascio, non rilevabile dagli strumenti attuali, sarebbe tuttavia identificabile dai suoi effetti, e in particolare dal rallentamento secondo uno schema caratteristico nell'accelerazione dell'espansione dell'universo che esso dovrebbe aver prodotto in quella remota epoca. I ricercatori osservano che i dati che verranno raccolti nei prossimi 10 anni dalle campagne di osservazione da poco iniziate, volte a misurare la brillantezza delle supernove più distanti, dovrebbero permettere di rilevare il rallentamento previsto dal modello. Inoltre, acceleratori come il Large Hadron Collider (LHC) di Ginevra, dovrebbero essere in grado di produrre energie sufficienti a eccitare il campo di quintessenza e quindi a produrre nuove particelle esotiche. (gg)

Acido folico come prevenzione delle nascite premature

La supplementazione è associata una diminuzione del 70 per cento delle nascite premature spontanee tra 20 e 28 settimane e a una riduzione del 50 per cento di quelle tra 28 e 32 settimane.
L'assunzione di acido folico per almeno un anno prima del concepimento è associata a una riduzione del rischio di nascita prematura, secondo uno studio riportato sulla rivista PLoS Medicine.
Sebbene la maggior parte delle gravidanze duri 40 settimane, nei paesi occidentali circa il 12 per cento delle nascite si conclude prima di 37 settimane. I bambini nati pretermine hanno minori probabilità di sopravvivenza rispetto a quelli nati a termine e possono più frequentemente andare incontro a difficoltà di apprendimento o ritardi nello sviluppo. Attualmente non si conoscono metodi di prevenzione della nascita prematura, ma già alcuni studi in passato avevano evidenziato come l'assunzione di minori quantità di acido folico fosse correlata a una minore durata della gravidanza.
In quest'ultimo studio, Radek Bukowski e colleghi dell'Università del Texas hanno verificato questa ipotesi analizzando i dati raccolti su una corte di circa 35.000 donne in gravidanza.
I risultati hanno mostrato che la supplementazione con acido folico a partire almeno da un anno prima del concepimento era associata una diminuzione del 70 per cento delle nascite premature spontanee tra 20 e 28 settimane (con riduzione della prevalenza dallo 0,27 per cento allo 0,04 per cento) e a una riduzione del 50 per cento di quelle tra 28 e 32 settimane (dallo 0,38 per cento allo 0,18 per cento).
L'indicazione emersa dalle ricerca dovrebbe comunque essere confermata da un trial randomizzato e controllato, tenuto conto che si è trattato di una analisi secondaria effettuata su uno screening per la sindrome di Down, e che mancano dati precisi sulla compliance delle partecipanti. (fc)

Caccia al batterio che fa più elettricità

FONTE

Sviluppare bio-batterie che rappresentino una reale fonte di energia, selezionando gli organismi più efficienti per ogni tipo di biomassa. Un progetto dell’Università di Firenze.
Una “batterioteca” dove catalogare i migliori ceppi di batteri elettrogenici - in grado, cioè, di produrre energia elettrica da diversi tipi di materiale organico - per usarli poi nelle future celle Mfc (Microbial fuel cell), vere e proprie batterie biologiche, attualmente in fase di sperimentazione avanzata (vedi Galileo). Questo è solo uno degli obiettivi del gruppo di ricerca di Renato Fani, docente di ingegneria genetica dell’Università di Firenze, che sta cercando nuove strategie di recupero dei rifiuti e di produzione di energia da fonti alternative.
L’ateneo toscano, assieme al Centro per lo studio delle relazioni tra pianta e suolo (Cra-Rps) di Roma, sono i primi in Italia ad aver sviluppato un progetto di ricerca in questo settore, presentato lo scorso 8 maggio al Polo scientifico e tecnologico di Firenze in occasione del simposio “Bio-elettricità microbica”. Per la prima volta nel nostro paese si è utilizzato un approccio multidisciplinare e altamente tecnologico per esplorare tutti gli aspetti legati alla produzione di energia elettrica con Mfc (la caratterizzazione delle biomasse, la messa a punto dei sistemi a celle e dei materiali che accumulano ioni, lo studio della diversità funzionale della comunità batterica coinvolta nel processo, la selezione dei ceppi più efficienti e la loro applicazione), con il preciso intento trasformare un rifiuto in una vera e propria risorsa.
“In seguito alla scoperta che le proprietà elettrigeniche non sono esclusive di poche specie batteriche ma molto più diffuse di quanto si pensasse, si è voluto applicare la tecnologia delle Mfc direttamente al suolo, principale fonte di biodiversità del pianeta”, racconta Fani a Galileo: “Lo scopo era di esplorarne le proprietà elettrogeniche e compararle a quelle delle biomasse industriali, per individuare poi i principali organismi responsabili del fenomeno nel substrato”.
Per farlo i ricercatori hanno messo a punto due Mfc, in cui l’anodo conteneva 50 grammi di matrice (suolo in un caso, biomassa industriale nell’altro) sospesa in acqua distillata. L’anodo è stato collegato al catodo attraverso una membrana che consente il passaggio degli ioni. Per chiudere il circuito sono stati utilizzati elettrodi di grafite collegati tra loro da una resistenza esterna.
Il passaggio di corrente tra i due poli è stato misurato per circa tre settimane. Al termine dell’esperimento, le matrici sono state rimosse e analizzate per trovare eventuali correlazioni tra produzione di corrente elettrica e cambiamenti nella composizione della frazione organica o della diversità delle colonie di batteri.
I risultati hanno evidenziato una significativa tensione ai capi dei due elettrodi (oltre i 400 milliVolt per i rifiuti organici industriali e oltre i 200 milliVolt per il suolo) che ha portato sia alla produzione di elettricità che alla selezione delle specie batteriche più efficienti, come Pseudomonas aeruginosa. È stata osservata una la stretta connessione tra tipo di sostanza organica e produzione di energia elettrica.
“L’energia ottenuta è n grado di accendere piccoli led e lampadine ma, per quanto riguarda l’efficienza di queste celle, le ricerche non hanno ancora fornito dati certi” commenta Fani: “Da un punto di vista scientifico questo progetto si propone come una novità a livello nazionale e tra i pochi a livello europeo. Sebbene esistano alcuni gruppi che hanno messo a punto con successo delle celle a microbatteri, il loro utilizzo come reale fonte di energia elettrica non è mai stato esplorato. Il progetto si propone invece di fornire le basi per una futura applicazione delle Mfc come possibile fonte di energia alternativa”. (p.f.)

lunedì 11 maggio 2009

Scoperte nuove variazioni genetiche che regolano la pressione arteriosa nell’essere umano.

Scoperte nuove variazioni genetiche che regolano la pressione arteriosa nell’essere umano. Un passo avanti nello studio dei disturbi legati all’ipertensione.
Predisposti all’ipertensione arteriosa? Colpa di una decina di mutazioni geniche. Due studi indipendenti, presentati all’ultimo meeting della American Society of Hypertension e pubblicati su Nature Genetics (qui e qui i link), hanno permesso di individuare i tratti del genoma umano responsabili della regolazione della pressione sanguigna. Le due ricerche, effettuate su campioni rispettivamente di 29mila e 130mila individui provenienti da varie parti del mondo, hanno permesso di individuare i geni direttamente associati alle variazioni nella pressione arteriosa fra individuo e individuo.
È noto che piccole differenze nella pressione sanguigna determinano un incremento del rischio di ictus fino al 34 per cento, e del rischio di problemi coronarici fino al 21 per cento. Gli studi, condotti dai consorzi di ricerca Global Blood Pressure Genetics e Charge, composti da ricercatori statunitensi ed europei, fra cui anche molti italiani, hanno individuato undici mutazioni di otto geni associate alle variazioni nella pressione arteriosa, quattro delle quali sono legate a quella di tipo sistolico, sei a quella di tipo diastolico e una all’ipertensione. La tecnica utilizzata utilizzata è la Large scale genome-wide association, e consiste nella scansione del genoma di un gran numero di individui affetti dal disturbo, per trovare le varianti nei geni più frequenti.
La mutazione di un gene in particolare, ATP2B1, appare correlata sia alla pressione sia all'ipertensione. Il gene codifica per una proteina che pompa il calcio fuori dalle cellule. Ciascuna variante trovata, ad ogni modo, è comune nella popolazione e causa solo un piccolo cambiamento nella pressione. Sarebbero, piuttosto, più mutazioni combinate a causare la pressione alta. (s.s.)

Verso i materiali superidrofobici

FONTE

Microrobot che camminano sull'acqua e superfici autopulenti: le caratteristiche che li renderanno possibili in uno studio su Pnas.
Piccoli robot che camminano sull'acqua come gli insetti? Il piano della cucina, i muri o i tessuti della poltrona che si puliscono da soli? Due fenomeni che Xiao Cheng Zeng, docente di chimica all'Università di Lincoln in Nebraska (Usa), ritene possibili nel prossimo futuro, e che si basano su una stessa caratteristica: la super idrofobia. Grazie alle capacità di calcolo del super computer del Riken Institut, in Giappone, il ricercatore è infatti riuscito a riprodurre le condizioni che conferiscono alle superfici la particolare proprietà di far “rotolare” via le gocce d'acqua.
In natura questo fenomeno si osserva sulle setole dei bruchi o sui fiori del loto, e consente ai gerridi (gli insetti che spesso si vedono scivolare sugli stagni) di pattinare sull'acqua. Come gli autori dello studio riportano su Pnas, i bruchi o gli insetti pattinatori ottengono la super idrofobia attraverso un'organizzazione della superficie “a due livelli”: una base cerosa su cui si trovano microscopiche strutture simili a peli, spesso ricoperti a loro volta da “peli” più piccoli. Questi dislivelli diminuiscono la parte della superficie a contatto con la goccia d'acqua. Il risultato è che la goccia rotola invece che scivolare, come avverrebbe su una superficie semplicemente idrofoba. La differenza pratica? Sulla superficie super idrofoba, la goccia, “rotolando”, ingloba lo sporco e lo trascina con sé, mentre su quella idrofoba la goccia aderisce.
Decine di migliaia di simulazioni (gocce di varie dimensioni e che si muovono a diverse velocità su più materiali) hanno portato i ricercatori a stabilire l'altezza ottimale dei livelli di “peli” e la distanza che deve esistere tra queste strutture perché le superfici siano super idrofobe. (a.d.)

Nanocristalli a emissione continua

Il risultato potrebbe aprire la strada alla realizzazione di laser meno costosi e molto più versatili, a dispositivi di illuminazione a LED molto più potenti e a marcatori biologici per il tracciamento di farmaci.
Per più di un decennio, molti tentativi di realizzare sorgenti luminose a emissione continua da singole molecole si sono rivelati infruttuosi, ma ora i ricercatori dell'Università di Rochester in collaborazione con i colleghi della Eastman Kodak Company sono riusciti a ottenere un nanocristallo che sembra superare tutte le difficoltà incontrate in passato.
Il risultato, descritto sulla versione online della rivista “Nature”, potrebbe aprire la strada alla realizzazione di laser meno costosi e molto più versatili, a dispositivi di illuminazione a LED molto più potenti e a marcatori biologici in grado di rivelare dove e quando un farmaco sta interagendo con una cellula, con incredibile precisione.
In molte molecole – così come nei nanocristalli, ovvero nei cristalli di dimensioni dell'ordine del miliardesimo di metro - si verificano eventi casuali in cui può essere assorbito un fotone che però non viene riemesso: l' energia in eccesso viene infatti trasformata “in calore” (o più correttamente, in modi rotazionali e vibrazionali della molecola stessa). Questi periodi “bui” si alternano con periodi in cui la molecola può emettere radiazione normalmente, il che dà luogo a un effetto di intermittenza dell'emissione.
In quest'ultimo studio, Todd Krauss e colleghi hanno preso in considerazione nanocristalli di diversa composizione nell'ambito di una ricerca per individuare nuovi tipi di materiali optoelettronici a basso costo simili a LED. Uno di questi non mostrava segni di intermittenza, anche dopo osservazioni della durata di alcune ore (quando si verificano, le intermittenze sono su scale temporali che variano dai millisecondi ai minuti).
Dopo un'approfondita analisi, Krauss e colleghi sono giunti alla conclusione che il mancato fenomeno è dovuto alla particolare struttura del nanocristallo. Normalmente, questo tipo di materiali ha un nucleo di materiale semiconduttore avvolto in uno strato protettivo di un altro semiconduttore, separato dal primo da una brusca discontinuità.
Il nuovo nanocristallo, invece, ha un gradiente continuo, da un nucleo di cadmio e selenio fino allo strato esterno di zinco e selenio: tale caratteristica sopprime i processi fisici che impediscono l'emissione dei fotoni, con il risultato che il loro flusso è costante quanto quello dei fotoni emessi.
I ricercatori ora sperano che l'applicazione di questi nanocristalli possa portare a laser incredibilmente economici e facili da produrre: semplicemente variando le dimensioni del nanocristallo, per esempio, sarebbe possibile modulare il colore del laser. (fc)

domenica 10 maggio 2009

Il Random Laser

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La luce monocromatica è dovuta a pochi fotoni che rimangono a lungo nel materiale.
Random Laser: Una sorgente che emette luce simile a un laser ma in tutte le direzioni può produrre lampi di luce monocromatica pura come quella di un laser ordinario.
A metà strada circa fra una lampadina e un laser, esiste un tipo di sorgente luminosa insolito e singolare chiamato "random laser". Esso emette luce simile a un laser, ma in tutte le direzioni. Ora un team di ricercatori dell'European Laboratory for Nonlinear Spectroscopy (LENS) e dell'Istituto Nazionale di Fisica della Materia (INFM) ritiene di aver svelato uno dei misteri di queste sorgenti, scoprendo perché esse possono emettere lampi di luce monocromatica pura come quelli di un laser ordinario. Gli esperimenti e le simulazioni al computer, descritti in un articolo pubblicato sulla rivista "Physical Review Letters", mostrano che ogni impulso puro comincia con un singolo fotone "fortunato" che riesce a rimbalzare avanti e indietro per centinaia di volte prima di sfuggire. In un normale laser, la luce rimbalza all'interno di una cavità riflettente che contiene un materiale amplificante, come un cristallo. A ogni passaggio attraverso il materiale, i fotoni ne reclutano altri e poi attraversano uno specchio parzialmente trasmettente per produrre un fascio. Se il cristallo viene sostituito con della polvere di particelle, si ottiene un random laser. I fotoni si diffondono attraverso la polvere e, quando la luce esce, contiene di solito un range di lunghezze d'onda molto maggiore di quello di un normale laser. Ma se l'amplificazione è abbastanza forte, un random laser può produrre una luce estremamente monocromatica a diverse lunghezze d'onda che dominano le emissioni di background. Diederik Wiersma e colleghi hanno studiato il fenomeno, scoprendo che mentre la maggior parte dei fotoni emerge dalla cavità dopo poche decine di rimbalzi, pochi fotoni compiono anche 100-1000 rimbalzi prima di fuoriuscire, accumulando un enorme numero di compagni con la loro identica lunghezza d'onda, e questo spiega i sottilissimi picchi nello spettro. Sushil Mujumdar, Marilena Ricci, Renato Torre, Diederik S. Wiersma, Amplified Extended Modes in Random Lasers. Phys. Rev. Lett. 93, 053903 (30 luglio 2004).

sabato 9 maggio 2009

Creata la "scatola" più piccola del mondo. È costituita da molecole di DNA e ha dimensioni nanometriche.

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Un gruppo di ricercatori danesi e germanici è riuscito a creare la prima "scatola" al mondo di dimensioni nanometriche (le sue dimensioni sono infatti di 42 × 36 × 36 nm). Per realizzarla hanno utilizzato la tecnica degli origami. Il segreto della tecnica dei micro-origami è quello di fabbricare i cardini a partire da una coppia di strati di materiale con spaziature atomiche leggermente differenti. La mancata corrispondenza strutturale provoca una tensione che piega il cardine e, in questo caso, solleva il coperchio della scatola.
La scatola è costituita da molecole di DNA e può facilmente trasportare diversi tipi di micro-dosi di sostanze o elementi chimico-biologici (come ad esempio un unico virione o ribosoma). La stessa,potrebbe anche essere usata come un contenitore per il trasporto di farmaci o di un nuovo tipo di biosensori, dicono gli scienziati.
La tecnica del DNA-origami è stata sviluppata da Paul Rothemund (ricercatore presso il Caltech di Pasadena,CA,USA) nel 2006, ed è stata originariamente utilizzata per la costruzione di strutture di DNA in 2D. Origami è una parola giapponese che sta a significare: "piegatura della carta"; e la tecnica utilizzata su scala nanometrica, consiste appunto nel dispiegare, appiattire e infine ripiegare su se stessi, dei filamenti di DNA (che alla fine ti tale processo appaiono come delle "micro-lamine molecolari"). Questo viene fatto con l'aggiunta di più di 200 piccole sequenze di DNA sintetico del tipo: "staple strands".
Il gruppo di ricercatori ha ora esteso questa tecnica, sviluppando un software in grado di piegare qualsiasi nanostruttura in 2D, e recentemente anche in 3D (come nel caso della nano-scatola in questione).

venerdì 8 maggio 2009

Vernice antimicrobica ad ampio spettro

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Le nuove vernici addizionate di Cl-TMPM risultano esser efficaci contro batteri, virus, muffe e funghi, e l'effetto dura anche un anno, caratteristiche superiori alle vernici in commercio.
Dalla rivista dell'American Chemical Society, "Applied Materials & Interfaces", si apprende che un'equipe di scienziati della University of South Dakota, Stati Uniti, ha inventato una nuova molecola, il Cl-TMPM, che uccide i germi e puo' essere aggiunta alle marche commerciali di pittura. Sarà quindi possibile dipingere le pareti di casa con una vernice in grado di uccidere batteri, funghi, virus e altri organismi dannosi per la salute.Il Cl-TMPM si presenta come un olio incolore, a temperatura ambiente, che può esser sospeso in un'emulsione di lattice ed acqua per esser poi addizionato alla vernice.Gli esperimenti condotti con la vernice modificata han dimostrato che lo Stafilococco aureus viene ucciso in 10 minuti dal contatto con la miscela, mentre per l'E.coli ne sono sufficienti 5, e perfino i super-batteri come l'Mrsa si sono dimostrati sensibili alla sostanza.Attualmente sono già disponibili in commercio vernici antimicrobiche, ma sono efficaci contro un ristretto spettro di microrganismi mentre il Cl-TMPM e' risultato inattaccabile da batteri, virus, muffa e funghi e l'effetto si è protratto per un anno, un tempo molto lungo.Di questa vernice saranno quindi importanti le applicazioni in ambito ospedaliero e nei luoghi pubblici come gli uffici.

giovedì 7 maggio 2009

Se cambia colore, sta per rompersi

Messi a punto materiali che cambiano colore se sottoposti a stress troppo intensi, segnalando quando stanno per spezzarsi. Lo studio su Nature.
Un materiale che cambia colore quando sta per rompersi: rosso se viene stirato, porpora se viene compresso. Lo hanno messo a punto gli ingegneri dell’Università dell’Illinois di Urbana-Champaign (Usa), che lo presentano questa settimana su Nature.
Alla base vi è una nuova famiglia di polimeri, la cui peculiarità è quella di inglobare una classe di molecole organiche - chiamate meccanofori - in grado di rispondere a determinati stimoli meccanici esterni modificando la propria struttura e di segnalare l’eccessivo carico di tensione. In questo caso cambiando colore.
Applicazioni possibili? Nelle componenti di ponti, o nei paracaduti e nelle corde degli scalatori. Insomma, ovunque sia utile prevenire una rottura di un oggetto o di un dispositivo causata da stress meccanico. “Potremmo inserire, direttamente nei materiali, alcuni meccanofori che rispondono allo stress con funzioni differenti” ha spiegato Nancy Sottos, docente di scienza dei materiali e a capo dello studio, “non solo segnalando l'imminente rottura, ma anche rafforzando il materiale. Utilizzati, per esempio, nelle componenti degli aeroplani, potrebbero segnalare o rallentare il processo che porta alla rottura”.
In un lavoro precedente, Sottos e collaboratori avevano mostrato - sempre su Nature - la reazione su polimeri sollecitati mediante ultrasuoni (vedi Galileo). Nel nuovo studio, la ricercatrice ha riprodotto le stesse caratteristiche su un polimero solido. Per dimostrare le risposte meccano-chimiche il team ha preparato due differenti polimeri: una gomma tesa fino alla rottura ha mostrato un intenso colore rosso prima di separarsi in due parti, mentre la compressione esercitata su una guaina ha virato al porpora. (a.d.)