domenica 31 dicembre 2023

Intelligenza matematica e sviluppo cognitivo del bambino, da zero a dieci anni.


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Lo psicologo svizzero Jean Piaget ha elaborato un quadro assai convincente del modo in cui i concetti matematici si evolvono e si radicano nella mente del fanciullo, nei suoi primi anni di formazione. L'estensione di questo modello allo sviluppo di ogni altra forma cognitiva (come l'intende Piaget) risulta piuttosto precaria, ed è dubbia l'opportunità di applicarlo a culture troppo lontane da quelle europee, in cui Piaget fece le sue osservazioni; nondimeno la descrizione dello sviluppo che ne discende è persuasiva.
Secondo l'idea di base di Piaget, tutto ciò che sappiamo del mondo e gli stessi itinerari lungo i quali perveniamo a tale conoscenza derivano, almeno nelle prime fasi, dalle nostre azioni fisiche sulle cose: dal fatto di afferrare, toccare e maneggiare gli oggetti. I bambini che hanno meno di due anni toccano gli oggetti, li tengono in mano e imparano a riconoscerli dopo esserne stati separati; in tal modo sviluppano un attaccamento personale alle cose, ma soltanto dopo i diciotto mesi circa comincia una fase essenziale del loro sviluppo psicologico; si accorgono che una cosa è la stessa quando si sposta altrove o quando la rivedono in un momento successivo, e quindi cominciano a comprendere che le cose hanno un qualche tipo di esistenza indipendente dalle loro azioni su di esse. Ora possono pensarle come oggetti a pieno titolo, e confrontarle con altri oggetti. Così i bambini acquistano la capacità di raggruppare insieme cose simili: tutti gli animali dotati di pelliccia, o tutte le automobili, possono essere riuniti in una collezione. Questa capacità di raggruppare dimostra che si è pervenuti al concetto di insieme, o classe di oggetti simili; da questo si può passare all'idea che alcune collezioni sono più grandi o più piccole di altre. All'inizio la valutazione sarà basata più che altro su impressioni: un bambino a cui vengano mostrati due gruppi di cioccolatini può essere indotto a scegliere quello che ne comprende di meno, se è disposto in modo da coprire un'area maggiore o da sembrare "più grande" per qualche altro aspetto che salta subito all'occhio. A questo stadio si manifestano soltanto una nozione generale di quantità e una capacità di distinguere numeri piccoli; non c'è alcuna nozione di una sequenza uniforme di grandezze determinata dall'addizione ripetuta di un'unica quantità. Questa capacità si sviluppa , agli inizi, come capacità soprattutto linguistica di imparare a memoria i numeri. Soltanto verso i quattro o cinque anni di età l'apprendimento meccanico dei numeri comincia ad essere collegato alla precedente identificazione di collezioni e insiemi di oggetti; allora il bambino comincia a capire che la successione dei numeri può essere trasferita mentalmente facendola corrispondere a una disposizione di oggetti in modo che l'ultimo numero contato nella sequenza dia il numero totale degli oggetti (1). Inoltre queste operazioni non dipendono da altre proprietà delle cose contate. Verso i sei o sette anni di età, possono entrare in gioco nozioni più elaborate: il bambino è in grado di contare due collezioni diverse e, a differenza dei compagni più piccoli, è in grado di confrontarle e di identificare con sicurezza quella che contiene un maggiore numero di oggetti, senza farsi fuorviare dalle loro dimensioni. Questo procedimento rappresenta una novità, perché significa che nella mente si sono formate due immagini che possono essere confrontate anche se le collezioni reali non sono più sotto gli occhi, l'una accanto all'altra. 
In seguito a questo passo, operazioni più complicate possono essere eseguite, trasferite ad altre situazioni o impiegate in riferimento a collezioni di oggetti reali. In questa fase vengono gettate le basi del ragionamento matematico: questo ha avuto origine dalla manipolazione di oggetti consueti, ma il processo è stato gradualmente interiorizzato nella mente, cosicché è possibile ricordarlo o riprodurlo, e non reagire soltanto quando è presente.
Dopo questa fase, in cui ci si impadronisce di alcune operazioni concrete sulle cose e le si interiorizza, alla semplice esperienza delle proprietà delle collezioni di oggetti si affianca una crescente consapevolezza di certe verità necessarie riguardanti la natura della realtà. Si apprende che, se si toglie un elemento da ciascuna di due collezioni uguali, esse rimangono uguali; che due collezioni abbiano lo stesso numero di elementi oppure no; che l'ordine in cui le cose vengono contate non influenza il totale che si ottiene. 
Raggiunta l'età di nove o dieci anni, sembra che questa consapevolezza divenga trasferibile a nozioni meno concrete. Si vede qui una fonte esplicita di intuizione matematica negli oggetti materiali del mondo e nelle loro interrelazioni. Gradualmente, negli anni della prima adolescenza, diviene possibile effettuare insiemi di operazioni mentali su rappresentazioni delle cose; queste vengono sostituite da simboli, e su tali collezioni di simboli può operare la mente. La precedente gamma di verità necessarie su operazioni come la sottrazione e l'addizione diventa applicabile ai simboli che rappresentano grandezze. Diviene dunque possibile una disciplina come l'algebra, dove un simbolo come la lettera x può rappresentare qualunque numero che possa essere sommato a entrambi i membri di un'equazione, proprio come numeri uguali di monete possono essere aggiunti a collezioni uguali. Questo passo rappresenta il cuore di tutta la matematica successiva. In seguito, alla mente sarà possibile inventare nuove regole per manipolare simboli che non sono connessi ad alcun insieme empirico di operazioni eseguibili con oggetti reali. A questo stadio, l'elaborazione mentale delle rappresentazioni simboliche di oggetti concreti ha spiccato il volo come una libellula, lasciandosi alle spalle la crisalide dell'esperienza passata; non è più in alcun modo limitata dall'esperienza delle manipolazioni concrete, ma soltanto dalla capacità dell'immaginazione di trovare insiemi di regole per la manipolazione dei simboli. L'unico requisito che si impone a queste invenzioni è che siano "coerenti" nel senso voluto dai formalisti.
Questo è, molto in breve, il quadro delineato da Piaget per lo sviluppo mentale dell'intelligenza matematica: essa trae origine dalle attività del bambino con gli oggetti del mondo circostante, che egli mescola, separa e confronta. Viene scoperta e quindi interiorizzata nella mente la nozione di quantità, che diventa così un mezzo per rappresentare le cose in forma simbolica; questi simboli vengono poi manipolati in modo analogo alle cose stesse; in seguito le regole per la loro elaborazione divengono le caratteristiche essenziali dell'attività, sostituendosi alle cose stesse.

Note:
(1) Ciò vale per la situazione che si ha nella lingua italiana e in altre lingue indoeuropee, ma non altrove. In Giappone, per esempio, i numeri usati per contare non sono gli stessi che si impiegano per descrivere il numero totale degli oggetti di un insieme che si sta contando. È come se si potesse contare fino a dodici, ma la parola da usare per descrivere un insieme di dodici cose fosse sempre "dozzina". 

Bibliografia: 
J.D. Barrow, "La luna nel pozzo cosmico", Adelphi, Milano, 1994 (pp. 280-284). 

sabato 22 ottobre 2022

Spazio e tempo come esperienza: perché la discontinuità?

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Il tentativo d'incominciare a vedere lo spazio e il tempo in modo nuovo, non è un compito facile. È estremamente difficile immaginare un tempo statico, un tempo che non scorre. Non è facile afferrare il tempo dello spazio-tempo, il continuum in cui gli eventi non accadono ma, semplicemente, sono. Ci sentiamo frustrati quando cerchiamo di fare l'esperienza dell'affermazione della fisica moderna, secondo la quale lo spazio e il tempo sono accoppiati; non possiamo fare l'esperienza dell'uno senza fare l'esperienza dell'altro, e non possiamo conoscere lo spazio e il tempo singolarmente. È così ovvio che noi ne facciamo l'esperienza singolarmente!
Sorge così un paradosso: se il tempo e lo spazio sono veramente uniti esperienzialmente, perché abbiamo la sensazione persistente del tempo che fluisce senza avere una simile sensazione dello spazio che fluisce? Abbiamo, dei due, sensazioni chiaramente dissimili. Il tempo fluisce esperienzialmente, ma vediamo lo spazio localizzato e statico. Non esiste, semplicemente, un senso psicologico di uno spazio che fluisce. Lo spazio resta fermo; il tempo no. Se queste qualità della natura sono veramente unite come ci assicura la fisica moderna, allora perché sono qualitativamente così dissociate nella nostra esperienza? Forse le nostre sensazioni dello spazio e del tempo differiscono in qualità per una buona ragione, una ragione che, nel linguaggio della biologia evolutiva, è la migliore di tutte: la sopravvivenza. È probabile che nella storia della nostra evoluzione noi abbiamo sviluppato modi di giudicare lo spazio e il tempo che hanno contribuito alla nostra sopravvivenza. 
Forse nel corso della nostra evoluzione noi abbiamo sviluppato molti modi di sentire e di giudicare lo spazio e il tempo. Quali sarebbero sopravvissuti fino ad oggi? I modi che favorivano la sopravvivenza dell'organismo individuale attraverso la perpetuazione, per mezzo della procreazione, del suo corredo genetico. Questi tipi di percezione sensoriale sono risultati più durevoli per la semplice ragione che avevano maggior valore per la sopravvivenza. E se un modo particolare di giudicare lo spazio e di giudicare il tempo aiutava un organismo a sopravvivere e a procreare, questo metodo di giudicare lo spazio e il tempo è sopravvissuto insieme all'organismo, impresso nel suo programma genetico. Erano abilità pro-sopravvivenza, preziose come un occhio o un orecchio, o la capacità di volare o di correre velocemente. Davano un vantaggio nella lotta per la sopravvivenza.
Consideriamo che un'esperienza psicologica risultante dalla sensazione del tempo che scorre sia il senso dell'urgenza... il tempo si muove, le cose sono imminenti, sta per accadere qualcosa. In un tempo che scorre noi anticipiamo l'accadere degli eventi. In questo flusso di eventi io agisco per garantirmi la sopravvivenza, mi comporto in certi modi per restare vivo. Un senso d'urgenza promuove la preparazione... per cacciare, per raccogliere, per piantare e per sfuggire a eventuali predatori. La possibilità di uccidere questo bisonte per mangiare e dunque per sopravvivere passerà se non agisco ora; se non fuggo in questo preciso istante, sarò il pasto di un leone affamato. Sembra quindi verosimile che la sopravvivenza fisica dei nostri antenati fosse favorita da un senso dello scorrere del tempo e dell'urgenza (anche se il tempo, incluso nella cultura, nel mito e nelle tradizioni dei primitivi non ha durata in natura). Non è chiaro che una sensazione del tempo singolarmente statica avrebbe potuto presentare per la sopravvivenza un vantaggio altrettanto grande. 
È possibile che anche la sensazione di uno spazio statico abbia favorito la sopravvivenza. Uno spazio statico, immobile, offriva lo sfondo per agire. Anzi, ci è difficile immaginare lo spazio in qualunque altro modo. Se percepissimo lo spazio in un modo in cui sembri fluire e non sia statico, il risultato sarebbe un grande caos! Un fatto che appare evidente a chiunque soffra di vertigini; per una tale persona lo spazio si rifiuta di stare fermo e ruota continuamente. Uno spazio sempre in movimento sarebbe stato sicuramente pericoloso per i nostri predecessori come lo è per noi, perché in esso è difficile agire con precisione e sicurezza. La sopravvivenza sembra quasi impossibile in un mondo in continuo movimento.
Quindi, se noi dovessimo designare un tipo di percezione temporale e spaziale per i nostri antenati, con lo scopo di aiutarli nell'ascesa evolutiva, probabilmente avremmo scelto quello che è pervenuto sino a noi: la percezione di un tempo fluente e di uno spazio statico. Vista in un contesto evolutivo, la nostra lotta/difficoltà nell'apprendere ciò che significa la moderna definizione fisica dello spazio-tempo, può rispecchiare la nostra eredità biologica. La nostra visione dello spazio e del tempo non è questione d'intelligenza, di capire le cose. Se avessimo percepito lo spazio e il tempo in modo diverso da quello in cui li percepiamo, probabilmente non saremmo sopravvissuti come specie. 
Il nostro modo di fare l'esperienza dello spazio e del tempo, quindi, ha verosimilmente facilitato la nostra ascesa evolutiva. Forse dobbiamo ad esso la nostra stessa esistenza. Ma questa modalità di percezione non garantisce che percepiamo esattamente il mondo intorno a noi. Non abbiamo la certezza di percepire "correttamente" lo spazio e il tempo, ma solo in modo "naturale"; ovvero, la nostra percezione rispecchia la nostra natura! Quando lottiamo per comprendere le stranezze dei nuovi concetti dello spazio-tempo stabiliti dalla fisica moderna, dobbiamo considerare che è nella nostra natura non riuscire a comprenderli! Qualcosa, dentro di noi, resiste a queste nuove idee.
Una reazione comune tra coloro che incontrano per la prima volta la definizione di spazio-tempo imposta dalla fisica moderna, è quella di "sentirsi sconfitti". "Non sono abbastanza intelligente per capire; questi sono concetti che possono comprendere solo i fisici e i matematici". Questa sensazione, che è quasi istintiva, senza dubbio non è appropriata,  perché ancora non vi è la prova che la capacità di concettualizzare l'idea moderna dello spazio-tempo, abbia a che fare con l'intelligenza! Queste idee sono radicate nella parte non razionale ed intuitiva del nostro essere più saldamente che nel nostro io verbale e razionale. Anzi, l'intellettualizzazione può essere un impedimento a comprendere lo spazio-tempo, tanto queste idee sono lontane dal senso comune e dalla logica. 
Questo è un punto cruciale. Vi sono coloro che respingono le moderne idee fisiche dello spazio-tempo in base all'assunto che possano essere comprese soltanto e unicamente dagli scienziati. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. La quintessenza di queste idee è antica. Le espressioni centrali della Relatività Ristretta erano state elaborate descrittivamente nelle culture orientali millenni prima delle scoperte di Einstein. Intere culture, vivono in tranquillità ed efficienza con l'idea di un tempo che non fluisce. Forse, senza eccezione, le culture che hanno abbracciato più facilmente queste idee lo hanno fatto affidandosi non alla matematica, ma all'intuizione e ai modi non razionali del pensiero.
La moderna nozione dello spazio-tempo non è necessariamente velata dall'indecifrabile gergo della matematica e della fisica. Il linguaggio della scienza non è necessario per apprezzare il significato essenziale delle nuove definizioni dello spazio e del tempo. Non soltanto ciò è evidente in base alla documentazione culturale, bensì è evidente dalle stesse affermazioni di Einstein, il quale dichiarava di essere stato condotto inizialmente alle sue descrizioni non solo ed esclusivamente dal ragionamento logico, bensì da una certezza interiore della bellezza e dell'armonia che stanno nel cuore delle sue teorie. Einstein descriveva l'intuizione, non il ragionamento lineare. È questa qualità della mente che ha permesso a intere culture di comprendere lo spazio-tempo, prima dell'era moderna.

Bibliografia:
- "Spazio, tempo e medicina", di Larry Dossey, ed. mediterranee, Roma, 1983. 

venerdì 16 settembre 2022

Bere con Socrate... con la potenza dei grandi numeri!

 

Esiste una vecchia stima di due numeri molto grandi che conduce a una conclusione capace di stupire persino chi è abituato alle sorprese della probabilità. Secondo voi, se si riempie un bicchiere di acqua di mare, quante delle molecole da cui è composta l'acqua nel bicchiere saranno state usate da Socrate, da Aristotele o dal suo allievo Alessandro Magno per sciacquarsi la bocca? In realtà, come vedremo, non importa quale bocca illustre scegliamo. Lì per lì si potrebbe pensare che la risposta sia zero: non vi è la benché minima probabilità che riutilizziamo anche solo uno degli atomi di quegli illustri personaggi, immagino direte. Ma, ahimè, vi sbagliate di grosso. La massa totale di acqua degli oceani terrestri è 10^18 tonnellate, che equivale a 10^24 grammi. Poiché una molecola di acqua ha una massa di circa 3 x 10^-23 grammi, ci sono circa 3 x 10^46 molecole di acqua negli oceani. Ignoriamo pure gli altri componenti dell'acqua marina, come i sali. Vedremo che queste semplificazioni e le cifre tonde che stiamo usando sono giustificate dai numeri molto grandi coinvolti nell'operazione.
Chiediamoci dunque quante molecole ci sono in un bicchiere di acqua. Un tipico bicchiere pieno d'acqua ha una massa di 250 grammi, quindi contiene approssimativamente 8,3 x 10^24 molecole. Vediamo pertanto che gli oceani contengono approssimativamente (3 x 10^46)/(8,3 x 10^24) = 3,6 x 10^21 bicchieri di acqua; molto meno del numero di molecole presenti in un bicchiere di acqua. Ciò significa che, se gli oceani fossero completamente rimescolati e oggi riempissimo con la loro acqua un bicchiere a caso, potremmo aspettarci che contenga approssimativamente (8,3 x 10^24)/(3,6 x 10^21) = 2300 delle molecole con cui Socrate soleva sciacquarsi la bocca nel 400 a.C. Fatto ancora più incredibile, è probabile che ognuno di noi sia composto da un considerevole numero degli atomi e delle molecole di cui era composto il corpo di Socrate. Tale è la potenza durevole dei grandi numeri.

domenica 4 settembre 2022

Un diamante è per sempre... con il taglio ottimale.

 


I diamanti sono pezzi di carbonio davvero straordinari. Sono il materiale più duro che si trovi in natura, eppure le loro proprietà più fulgide sono quelle ottiche, date dall'elevato indice di rifrazione di 2,4, molto maggiore di quello dell'acqua (1,3) o del vetro (1,5). Ciò significa che i raggi luminosi sono deviati (o "rifratti") di un angolo molto grande quando passano attraverso il diamante. Particolare ancora più importante, la luce che colpisce il diamante superando l'angolo critico di soli 24° rispetto alla verticale alla superficie, verrà completamente riflessa e non passerà affatto attraverso la gemma. Per la luce che viaggia dall'aria all'acqua, l'angolo limite oltre il quale essa non attraversa più il mezzo è di 48° rispetto alla verticale, nel vetro di circa 42°.
I diamanti si comportano in maniera estrema anche per quanto riguarda lo spettro ottico. Come chiarì per la prima volta Isaac Newton con i suoi famosi esperimenti con il prisma, la comune luce bianca è in realtà composta da uno spettro di onde luminose rosse, arancioni, gialle, verdi, blu, indaco e violetto, che viaggiano a velocità diversa (le rosse sono le più lente, le viola le più veloci) attraverso il diamante e sono rifratte secondo angoli diversi quando la luce bianca passa attraverso un mezzo trasparente. Nei diamanti vi è grande differenza tra la maggiore e minore rifrazione dei colori: è definita "dispersione" ed è responsabile dello straordinario "fuoco" di colori cangianti che si verifica quando i raggi luminosi passano attraverso un diamante tagliato a brillante. Nessun'altra gemma ha un tale potere di dispersione. Il difficile, per l'intagliatore, è tagliare il diamante in maniera che emani i raggi più belli e colorati possibile quando riflette la luce davanti all'occhio dell'osservatore.
I diamanti vengono lavorati da migliaia di anni, ma un uomo in particolare ha contribuito a farci capire quale sia il modo migliore di tagliarli, e la sua ragion d'essere. Marcel Tolkowsky nacque ad Anversa nel 1899 da un'influente famiglia di intagliatori e mercanti di diamanti. Era un ragazzo molto intelligente e, dopo essersi diplomato in Belgio, fu mandato all'Imperial College di Londra a studiare ingegneria. Nel 1919, mentre era ancora all'università, pubblicò un libro notevole intitolato "Diamond Design", che dimostrava per la prima volta come lo studio della riflessione e della rifrazione della luce all'interno del diamante, consentisse di capire come esso andasse tagliato e di ottenere quindi la massima lucentezza e il massimo "fuoco". L'elegante analisi fatta da Tolkowsky della traiettoria seguita dai raggi luminosi all'interno del diamante lo indusse a proporre un nuovo tipo di taglio: il taglio "a brillante" o "ideale"; che è ormai il preferito per i diamanti rotondi. Egli studiò le traiettorie dei raggi che colpivano la superficie superiore piana della pietra e calcolò secondo quale angolo dovesse essere inclinata la parte inferiore rispetto a tali traiettorie, per riflettere completamente la luce alla prima e alla seconda riflessione interna. Se la parte inferiore fosse stata inclinata in un certo modo, quasi tutta la luce sarebbe ritornata direttamente nel punto di incidenza della faccia superiore, producendo la maggiore lucentezza possibile.


Tolkowsky rifletté poi sull'equilibrio ottimale tra lucentezza riflessa e dispersione della luce, e sulle migliori forme per le varie facce. La sua analisi, che si avvaleva della semplice matematica dei raggi luminosi, portò alla ricetta per il bel "taglio a brillante" dalle cinquantotto faccette: una serie di proporzioni e angoli specifici nella gamma necessaria a produrre i più spettacolari effetti visivi quando la pietra viene mossa leggermente davanti agli occhi dell'osservatore. Ma, come si evince dalla figura sottostante, nella "ricetta" c'é più geometria di quanto non appaia a prima vista:


La figura mostra la classica forma che raccomandava Tolkowsky per il taglio ideale, i cui angoli vengono scelti nella ristretta gamma che ottimizza il "fuoco" e la lucentezza. Le proporzioni che riguardano specifiche parti del diamante (con i relativi nomi) sono espresse come percentuali del diametro della cintura, che è quello massimo. 

Bibliografia:
- John D. Barrow, "100 cose che non sapevi di non sapere sulla matematica e le arti", Mondadori, Milano, 2016 (pp.64-66). 

venerdì 29 ottobre 2021

Ornella Aprile: Il bambino interiore.

Un articolo di: Ornella Aprile
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Sicuramente ognuno di noi ha provato il desiderio di fare una carezza ad un bimbo magari incontrato in un parco. Lo abbiamo percepito come piccolo, innocente, forse impaurito e, soprattutto, bisognoso d'amore. Ci è sembrato naturale prendercene cura anche solo avvicinandoci per un semplice gesto d'affetto. Eppure non esprimiamo lo stesso interesse e lo stesso amore al nostro bambino interiore, uno dei personaggi principali della nostra interiorità. È una nostra componente psichica molto importante e spesso assolutamente sconosciuta o trascurata. Si tratta di un vero bambino simile ad ogni bimbo in carne ed ossa, ha le stesse esigenze e caratteristiche e prova le stesse emozioni solo che è nascosto nella nostra coscienza e vive nel corpo del se stesso adulto. Anche se anagraficamente siamo cresciuti e da noi stessi e da tutti siamo considerati adulti, abbiamo conservato una parte  che è rimasta infantile ed ha bisogno di attenzione e premure. Spesso sentiamo dire "sei rimasto bambino", " fai i capricci come un bimbetto" e "ma quando cresci?". Queste frasi dovrebbero farci riflettere e ricordare che dentro di noi permane un bambino che talvolta ci suggerisce comportamenti idonei all'infanzia per richiamare la nostra attenzione. 

Durante il percorso di crescita una parte di noi si ferma all'età puerile e anche negli adulti più responsabili, maturi e consapevoli in momenti particolari e non immaginabili il bambino interiore si manifesta nei modi meno prevedibili. Non è la personificazione dei nostri ricordi né di riproposizioni di esperienze passate ma un elemento dinamico della nostra psiche che agisce nel momento presente anche se noi, completamente presi dalla nostra mente, non ne avvertiamo la presenza. Ogni uomo nasce con una propria energia che lo contraddistingue e che esprime durante tutta la vita nelle tappe successive della crescita. Il bambino interiore è espressione della nostra energia, in lui sono presenti la nostra creatività, la spontaneità, l'entusiasmo, la passione, la vitalità ed ogni aspetto potenziante delle nostre esperienze. I più piccoli dimostrano un'energia praticamente inesauribile anche dopo giornate particolarmente impegnative e stancanti perché sono direttamente connessi al loro potenziale. Sono consapevoli dei loro bisogni e sanno esprimerli anche con modalità che per gli adulti rappresentano capricci o dimostrano un carattere ostinato. 

Spesso critichiamo la testardaggine dei nostri piccoli, ci mostriamo stupiti dalla sicurezza che esprimono nella scelta di un gioco, della loro spontaneità nel confessare paure o nel pretendere attenzione, del desiderio di crescere e fare nuove esperienze! Negli stessi bambini è presente il bambino interiore, di fascia d'età inferiore e questa presenza è esteriorizzata quando per esempio imitano i comportamenti dei fratellini più piccoli di cui magari adottano il linguaggio pur essendo perfettamente capaci di usare i moduli linguistici  dei loro coetanei o degli adulti, fanno capricci o piangono improvvisamente. Ovviamente i genitori o i maestri non devono giudicare questi atteggiamenti come regressioni ma anzi cercare di capirne il significato profondo per superare disagi occulti. Gli adulti impegnati in un percorso di evoluzione e crescita interiore dimostrano più pazienza e capacità di comprensione verso i propri figli e si impegnano costantemente per non soffocarne l'emotività. Le esperienze, soprattutto negative neonatali, come per esempio una nascita traumatica e sofferta, ed infantili, episodi di maltrattamenti o incomprensioni familiari, bullismo o emarginazione, fallimenti scolastici o delusioni, incidono sullo sviluppo della personalità dell'individuo e ne condizionano comportamenti e scelte che devono essere accolte senza giudizio da noi stessi e dagli altri per evitare che diventino motivo di profondi disagi nell'adulto. 

Il bambino interiore va percepito, ascoltato, compreso e supportato proprio come faremmo con un bimbo reale. Trascurarlo può determinare l'inconsapevole negazione di una parte di sé che non permette un armonico sviluppo della nostra personalità. Non dobbiamo dimenticare che il bambino interiore è l'insieme di una serie di energie inespresse durante l'infanzia, è il potenziale che può essere rimasto bloccato e vuole con ogni mezzo diventare evidente. Col trascorrere degli anni è facile perdere la connessione col nostro bambino interiore e ciò è spesso causa di abbassamento del livello della propria autostima e difficoltà relazionali, perdita progressiva di interesse per quelle che erano le nostre passioni e scarsa creatività. Non mi soffermo su problematiche patologiche su cui si deve intervenire col supporto di professionisti in grado di aiutare i pazienti a superare momenti di crisi che possono trasformarsi in manifestazioni psicosomatiche importanti e pericolose. 

Tutti noi dovremmo riconoscere il nostro bambino interiore, imparare ad ascoltarlo, a capirne i bisogni, a prendercene cura come faremmo con un figlio perché solo con una costante connessione con lui riusciremo a guarire le ferite emozionali della nostra infanzia per essere adulti sereni ed equilibrati. 
Jung definiva il nostro bambino interiore come bambino divino e specificava che esso rappresenta la nostra vera essenza per cui connetterci con lui ci consente di esprimere le nostre potenzialità e di realizzare i nostri desideri più importanti. Varie teorie ed interpretazioni sono state formulate ma tutti gli studiosi sono concordi nella necessità di liberare il nostro bambino interiore per riscoprire la nostra parte più vera e manifestare la versione migliore e più autentica di noi stessi. Magari ricordiamoci del sorriso con cui un bambino reale ha reagito ad una nostra carezza e riserviamo la stessa dolce premura a quel piccolo cucciolo indifeso, impaurito, insicuro e bisognoso d'amore che abita nel profondo della nostra psiche. Curando lui cureremo noi stessi, dimostrandogli amore proveremo amore e rispetto per noi stessi adulti, potremo offrire il nostro amore agli altri in piena libertà di coscienza e non per dipendenza affettiva e impareremo a vivere nella frequenza più elevata che ci appaga, ci fa sentire soddisfatti di noi stessi e meritevoli di amore e serenità.

Ornella Aprile, 29 ottobre 2021 

giovedì 21 ottobre 2021

Uscire dagli schemi per essere felici

 

di Ornella Aprile
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Ho letto più volte la celebre frase di Einstein "Non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l'ha generato." Queste parole di disarmante semplicità e logica ineccepibile ci portano a riflettere su quanto sia opportuno imparare ad uscire dagli schemi e superare la paura del cambiamento, che non si percepisce come opportunità di crescita ma come situazione pericolosa. È difficile lasciare la propria confort zone perché non se avverte la reale potenzialità negativa e limitante ma se ne coglie l'aspetto esteriore tranquillizzante di stabilità che nasconde però la stagnazione della coscienza. Già nel secolo scorso il celebre pensatore armeno Gurdjieff aveva ripetuto continuamente che l'uomo vive nella meccanicità, cioè nella più totale mancanza di consapevolezza e nella negazione di ogni sforzo di autoriflessione ed auto-osservazione. Ciò determina un comportamento umano simile a quello di una macchina in cui, schiacciando un bottone si ottiene un risultato programmato e quindi assolutamente prevedibile. Ovviamente, soprattutto a livello pubblicitario, si può approfittare di questa condizione di prevedibilità richiamando la nostra attenzione tramite codici fortemente seduttivi, spesso ricorrendo a messaggi visivi di carattere sessuale. L'essere umano mette in atto una serie di automatismi che non sente come tali ma che ne limitano la creatività e la spontaneità. Quando si impara a guidare un'auto è necessario pensare a quali azioni si debbano compiere ma dopo aver appreso le tecniche si compiono azioni assolutamente automatiche che però non si identificano con la qualità del risultato. Un eccellente pianista infatti non suona pensando a come gestire opportunamente i movimenti delle sue mani sulla tastiera ma esprime un ottimo livello di creatività e di capacità di differenziare i suoni esprimendo il suo gusto personale piuttosto che solo la sua competenza tecnica. 

Se vogliamo risolvere problemi o più semplicemente liberarci da comportamenti automatici ripetitivi, che nel tempo possono causare disagi soprattutto a livello psicologico, dobbiamo uscire dagli schemi, ignorare la paura dell'ignoto e sentire il desiderio di percorrere nuove strade che ci permettano di sperimentare nuove esperienze. Prima di tutto è importante vivere nel presente, l'unico tempo dell'universo, evitare di focalizzarci sul passato e soprattutto su ricordi di esperienze traumatiche che puntualmente proiettiamo nel futuro realizzando inconsapevolmente previsioni auto-sabotanti che in moltissimi casi si realizzano. Bisogna accogliere senza giudizio le novità che si presentano, provare interesse per persone o circostanze sconosciute, evitare ogni comportamento suscitato da pigrizia soprattutto mentale, allenare il coraggio affrontando tutto ciò che temiamo, in sintesi fare il contrario di ciò che ripetiamo da anni. Seguendo la linea della novità riusciremo a diventare flessibili, quindi abbandoneremo la rigidità che diventa paralizzante e riusciremo ad allontanare tutte le convinzioni limitanti di solito stratificatesi a livello inconscio dai primi anni di vita, ascoltando e facendo nostri i pensieri delle persone che ci sono vicine, i suggerimenti degli insegnanti o più semplicemente pensieri comuni che accettiamo passivamente. Non dobbiamo mai dimenticare che la quercia stabile e robusta può essere sradicata da un vento impetuoso che invece fa flettere il debole giunco senza riuscire a spezzarlo. 

Spesso commettiamo l'errore di pensare alla nostra mente come ad un contenitore in cui sono raccolte tutte le istruzioni di comportamento depositate nella memoria nel tempo e condizionate dal contesto in cui viviamo. Con questa convinzione ci sentiamo capaci di reagire nel modo opportuno di fronte ad un qualsiasi evento. Attiviamo così una specie di pilota automatico e, quando dobbiamo affrontare un problema, non ci fermiamo a ragionare ma cerchiamo la soluzione tra quelle che abbiamo già sperimentato, non analizzando i dettagli e la peculiarità della situazione. Anticipiamo gli esiti impedendo alla mente possibilità di evoluzione e crescita. Oltretutto finiamo col convincerci che la realtà non si può cambiare e deve essere accettata senza alcun tentativo di migliorarla. Il nostro sforzo deve invece essere rivolto al superamento dell'abitudine, all'ampliamento delle nostre possibilità di soluzione dei problemi per evitare di formulare teorie catastrofiche che sentiamo sul punto di avverarsi perché pensiamo di essere sfortunati o incapaci. Questi comportamenti causano un malessere fisico e psicologico e noi avveriamo frustrazione e debolezza. 

Per liberarci da tali condizionamenti depotenzianti l'unica strategia opportuna e verificata consiste nel cambiare le nostre convinzioni, comportarci da persone realizzate e soddisfatte di se stesse, sicure di poter cogliere tutte le opportunità che ogni giorno si presentano ad ognuno di noi, eliminare il giudizio, soprattutto verso noi stessi, amarci e rispettarci pur accettando i difetti comuni a tutti gli esseri umani e, soprattutto sentire una profonda gratitudine per il dono della vita che abbiamo ricevuto. Il benessere si raggiunge quindi esprimendo la libertà della nostra coscienza, non lasciandoci soggiogare da pensieri negativi spesso ossessivi e quindi cambiando la mentalità che ha causato i nostri problemi. Abbandonare gli schemi può provocare disorientamento, crollo delle proprie certezze e paura ma, se si agisce in piena consapevolezza, si può apprezzare un modus vivendi assolutamente più interessante e spontaneo, si impara a dimostrare la migliore versione di se stessi, si avverte un potenziamento della propria autostima e il desiderio di scegliere in autonomia ed assoluta libertà.

Ornella Aprile, 21.10.2021

sabato 31 ottobre 2020

Sars-Cov-2: virus apparentemente più aggressivo nelle sue nuove varianti.

 

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Sono cinque le varianti del nuovo coronavirus identificate in Italia. Per definirle mutazioni vere e proprie servono più dati statistici, ma al momento si può dire che non solo il virus non è affatto meno aggressivo di quanto lo fosse all'inizio dell'anno, ma che grazie alle nuove varianti riesce a replicarsi in modo più efficace. E' quanto emerge dai dati finora a disposizione della Task force coronavirus attiva presso il centro di biotecnologie avanzate Ceinge di Napoli, finanziato dalla Regione Campania.

"Dai dati finora a nostra disposizione, basati su 246 genomi sequenziati da pazienti con Covid-19, emerge che esistono cinque varianti di virus", ha detto all'ANSA il genetista Massimo Zollo, dell'Università Federico II di Napoli, responsabile scientifico della task force Covid attiva presso il centro di biotecnologie avanzate Ceinge e finanziata dalla Regione Campania.

"Sappiamo che le varianti, identificate con le sigle 19A, 19B, 20A, 20B e 20C, sono presenti in tutta Italia, ma adesso si tratta di capire quale sia la loro incidenza nelle regioni". Dopo il lockdown, le più frequenti risultano essere 20A e 20 B. Molte sequenze sono state finora prodotte in Lombardia, ed è emerso che in Campania le varianti 20A e 20B sono presenti nella stessa quantità . Stanno arrivando dati anche da Abruzzo, Lazio e Puglia, ma per capire se le cinque varianti stanno circolando in tutta Italia c'è ancora molto lavoro da fare: "Dobbiamo continuare a tipizzare il virus in tutto il Paese, per capire se ci sono realtà particolari a livello regionale, oppure se è una tendenza che sta avvenendo in tutta Italia", ha detto Zollo. Questo trend è presente anche in Europa, in Paesi quali Spagna, Germania, e Regno Unito, con prevalenza di alcune varianti verso altre.

Di sicuro, ha osservato l'esperto, "il virus SarsCoV2 è cattivo come lo era nel marzo scorso, e le nuove varianti sembrerebbero renderlo ancora più aggressivo. Sono mutazioni distribuite in tutto il genoma, ma al momento si nota che le mutazioni non incidono nell'interazione fra la proteina Spike e il recettore Ace", ossia fra la proteina che e' il principale grimaldello con cui il virus riesce a penetrare nelle cellule e il recettore che costituisce la serratura molecolare utilizzata dalla proteina.

"Quello che al momento è possibile dire -, secondo Zollo -, è che da un punto di vista statistico, più aumenta il numero delle persone con l'infezione, più sono probabili nuove mutazioni: al momento è solo una probabilità statistica".

Si stanno osservando intanto anche altre mutazioni, come quella del gene Orf 3A, che regola la risposta infiammatoria nelle cellule, e quelle dei geni Nsp2 e Nsp6 (proteine non strutturali del virus) in Orf1a: la prima favorisce il metabolismo cellulare con la funzionalità del virus nelle cellule; la seconda favorisce la formazione delle vescicole che il virus utilizza per replicarsi.

"Tutto questo però non è sufficiente per dire che il virus SarsCoV2 è mutato", ha detto Zollo. "Al momento vediamo differenze tra le sequenze del virus in 5 isotipi, ma per arrivare a delle conclusioni è indispensabile avere più sequenze. Fino ad allora - ha concluso - non si può escludere che possano essere solo delle varianti, magari frutto di importazioni da altri Paesi".