mercoledì 29 febbraio 2012

Eccezionale risultato: due molecole comunicano attraverso un singolo fotone.

Fonte: Sci-x
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Scienziati realizzano una dei più elementari e più vecchi esperimenti di idee nella fisica moderna, ossia l’eccitazione di una singola molecola con un singolo fotone. Questo apre la strada a ulteriori studi e ricerche, in cui singoli fotoni agiscono come portatori di informazione quantistica, che deve essere processata da emettitori singoli.
Fino dagli albori della fisica moderna, noi sappiamo che, benché gli eventi nella nostra vita di ogni giorno possano essere descritti dalla fisica classica, l’interazione tra luce e materia è regolata, nel profondo, dalle leggi della meccanica quantistica. Nonostante questa saggia conoscenza secolare, accedere veramente alle situazioni quantomeccaniche rimane impresa non banale, affascinante e degna di nota, anche in laboratorio. Recentemente, l'interesse in questo settore è stato potenziato al di là della curiosità accademica, in virtù delle potenzialità per forme nuove e più efficienti di elaborazione dell’informazione. In una delle proposte più di base, un singolo atomo o una singola molecola agiscono come un bit quantistico, che elabora i segnali che sono stati loro recapitati tramite singoli fotoni .
Negli ultimi venti anni gli scienziati hanno dimostrato che singole molecole possono essere rivelate e che singoli fotoni possono essere generati. Tuttavia, l’eccitazione di una molecola con un fotone era rimasta irraggiungibile, perché la probabilità che una molecola veda e assorba un fotone è molto bassa. Risultato è che, solitamente, bisogna mandare miliardi di fotoni al secondo su una molecola, per ottenere da questa un segnale. Un modo comune per aggirare questa difficoltà nella fisica atomica è stata quella di costruire una cavità attorno all'atomo, in modo che un fotone rimanga intrappolato per tempi sufficienti lunghi, da permettere di avere una probabilità favorevole di interazione.
Gli scienziati dell’ETH di Zurigo e dell’Istituto Max Planck per la Scienza della Luce di Erlangen hanno ora dimostrato che si può anche far interagire un fotone in volo con una singola molecola.
Tra le molte sfide sul modo di eseguire un tale esperimento, c’è la realizzazione di una sorgente adatta di singoli fotoni, che abbiano frequenza e larghezza di banda giuste. Benchè laser di colori e specifiche differenti si possano trovare abbastanza facilmente in commercio, sorgenti di singoli fotoni non sono disponibili sul mercato. E così un team di scienziati guidati dal professor Vahid Sandoghdar ne ha costruita una propria. Per far questo, hanno sfruttato il fatto che quando un atomo o molecola assorbe un fotone compie una transizione ad uno stato eccitato. Dopo pochi nanosecondi, questo status decade, ritornando alla sua condizione iniziale e viene emesso esattamente un fotone.
Nel loro esperimento, il gruppo ha usato due campioni contenenti molecole fluorescenti inglobate in cristalli organici e li hanno raffreddati a circa 1,5 gradi Kelvin (-272° C). Molecole singole in ciascun campione sono state rivelate da una combinazione di selezione spettrale e spaziale. Per generare singoli fotoni, una singola molecola è stato eccitata nel campione di sorgente. Quando lo stato eccitato della molecola è decaduto, i fotoni emessi sono stati raccolti e ben focalizzato sul campione ‘obiettivo’, a distanza di pochi metri. Per garantire che una molecola in quel campione ‘veda’ i fotoni in arrivo, il team ha dovuto assicurarsi che avessero la stessa frequenza. Inoltre, i singoli fotoni, preziosi, dovevano interagire con la molecola bersaglio, in modo efficiente.
Una molecola ha la dimensione di circa un nanometro, ma la focalizzazione di un fascio di luce non può essere inferiore a poche centinaia di nanometri. Questo, di solito, significa che la maggior parte della luce che arriva gira intorno alla molecola, ossia senza che luce e molecola si ‘vedano’ reciprocamente. Tuttavia, se i fotoni che arrivano sono in risonanza con la transizione quantomeccanica della molecola, quest'ultima agisce come un disco, che è paragonabile all’area della luce focalizzata. In questo processo, la molecola funge da antenna, che cattura le onde luminose nelle sue vicinanze.
I risultati dello studio, pubblicati su Physical Review Letters, forniscono il primo esempio di comunicazione a lunga distanza tra le due antenne quanto-ottiche, in analogia agli esperimenti di Hertz e Marconi con antenne radio.
Negli esperimenti attuali, due singole molecole imitano lo scenario di trasmissione-ricezione radio, a livello di frequenze ottiche e attraverso un canale ottico non-classico, ossia un fascio costituito da un singolo fotone. Questo apre molte porte per ulteriori e stimolanti esperimenti, in cui i singoli fotoni agiscono come portatori di informazione quantistica, che deve essere elaborata da emettitori singoli.

http://www.ethz.ch/media/pressreleases
Testo originario integrale del prof. Vahid Sandoghdar
Immagine di Robert Lettow

martedì 28 febbraio 2012

Realizzato microfono rivelatore quantistico in grado di captare suoni estremamente deboli.

Fonte: Sci-X
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Gli scienziati della Chalmers University of Technology hanno dimostrato un nuovo tipo di rilevatore per il suono a livello di silenziosità della meccanica quantistica. Il risultato offre prospettive di una nuova classe di circuiti ibridi quantistici, che mescolano elementi acustici con quelli elettrici, e che può aiutare a far luce su nuovi fenomeni della fisica quantistica. I risultati sono stati pubblicati su Nature Physics.
Il ‘microfono quantistico’ (rivelatore) si basa su un transistore a singolo elettrone, ossia su un transistor in cui la corrente passa nella quantità di un elettrone alla volta. Le onde acustiche studiate dal team di ricerca si propagano sulla superficie di un microchip cristallino e ricordano le onde formate su uno stagno quando vi viene gettato un sasso. La lunghezza d'onda del suono è di soli 3 micrometri, ma il rilevatore è ancora più piccolo e, pertanto, in grado di rilevare rapidamente le onde acustiche al loro passaggio.
Sulla superficie del chip, i ricercatori hanno costruito una camera di risonanza lunga tre millimetri e, anche se la velocità del suono sul cristallo è 10 volte più alta che in aria, il rivelatore mostra come gli impulsi di suono si riflettono avanti e indietro tra le pareti della camera di risonanza, verificando così la natura acustica dell’onda.
Il rivelatore è sensibile alle onde con picchi pari a una piccola percentuale del diametro di un protone, livelli così silenziosi che il suono può essere trattato dalla legge quantistica, piuttosto che con quelle della meccanica classica, praticamente nello stesso modo in cui si tratta la luce.
"L'esperimento viene fatto su onde acustiche classiche, ma dimostra che abbiamo tutto pronto per iniziare gli studi di corretta acustica quantistica che nessuno ha tentato prima", dice Martin Gustafsson, studente di dottorato e primo autore dell'articolo.
A parte la tranquillità estrema, la frequenza di quei suoni è troppo alta perché noi la si possa ascoltare: la frequenza di quasi 1 gigahertz è di 21 ottave sopra il livello udibile. Il nuovo rivelatore è il più sensibile al mondo per tale suono a tale alta frequenza.

Testo originario integrale e immagini:
http://www.chalmers.se/en/news/Pages/Quantum-microphone-captures-extremely-weak-sound.aspx

Al termine della notizia, cè il link per leggere l’articolo su Nature Phisics, intitolato: “Local probing of propagating acoustic waves in a gigahertz echo chambre”
Autori: Martin V. Gustafsson, Paulo V. Santos, Göran Johansson e Per Delsing

Per maggiori informazioni:
Martin Gustafsson, tel. +46 70-745 9955 - email : martin.gustafsson@chalmers.se Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Göran Johansson, tel. +46 73-060 7338 -- email : goran.l.johansson@chalmers.se Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Per Delsing, tel. +46 70-308 8317 - email : per.delsing@chalmers.se Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Paulo Santos, +49-30-20377-221 , santos@pdi-berlin.de Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Immag.:Philip Krantz, Chalmers


venerdì 17 febbraio 2012

Nanotecnologie per ottenere plastica dalle piante.

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La ricetta della plastica ecologica esiste. In uno studio pubblicato su Science, un gruppo di ricerca coordinato da Hirsa Maria Torres Galvis dell’Università di Utrecht, nei Paesi Bassi, descrive come sintetizzare i composti alla base delle materie plastiche in modo più efficiente e pulito partendo da biomasse. Il segreto del successo è nel catalizzatore utilizzato per favorire le reazioni chimiche di trasformazione: nanoparticelle di ferro sistemate su un letto di nanofibre di carbonio.
Gli oggetti di plastica, i detergenti, i solventi, i cosmetici e i farmaci sono fatti tutti della stessa pasta: le olefine, cioè molecole costituite da atomi di carbonio e idrogeno. Tradizionalmente, per ottenere le olefine si parte da derivati del petrolio come la nafta, che vengono trasformati tramite reazioni di decomposizione termochimica. Ma ciò, naturalmente, crea problemi sia di natura economica (si vogliono preservare il più possibile le scorte di petrolio) sia ambientale. Per questo motivo, i chimici lavorano da tempo per cercare di produrre olefine utilizzando procedimenti e materie prime alternativi.
In realtà, i chimici avevano già messo a punto una metodologia per ottenere olefine a partire da prodotti più ecologici come il bio syngas, un biocombustibile ottenuto dalla gassificazione di biomasse. Tuttavia, questo tipo di processo ha un’efficienza molto bassa. Il problema è nel catalizzatore, cioè la molecola utilizzata per promuovere le reazioni chimiche. Sino a oggi, infatti, i ricercatori non sono mai riusciti a trovare quello giusto per garantire il buon esito del processo. Generalmente si usa il ferro, ma le alte temperature richieste dalle reazioni portano alla formazione di carbonio che alla fine consuma il catalizzatore, crea una polvere che rovina le apparecchiature e porta alla formazione di metano.
L’equipe di Torres Galvis ha cercato di superare il problema utilizzando come catalizzatore nanoparticelle di ferro sistemate su un supporto chimicamente poco reattivo come il carbonio. In questo modo, speravano di garantire alle nanoparticelle il necessario sostegno meccanico senza però alterarne l’attività. L’intuizione si è rivelata vincente: con questo catalizzatore, i ricercatori sono riusciti a produrre olefine a partire da biomasse con un’efficienza del 60 per cento e senza generare gas inquinanti come il metano.
via wired.it
Credit immagine a NatriumChlorine/ Flickr

Il primo dispositivo wireless impiantato sottopelle per il rilascio dei medicinali.

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È il primo dispositivo wireless impiantato sottopelle per il rilascio dei medicinali. E ci si può dimenticare quando prendere la pillola.
Presto l’espressione farmacia ambulante non sarà più solo un modo di dire. I pazienti che seguono cure croniche, come avviene per l’osteoporosi, l’ipertensione, la sclerosi multipla, i tumori, e persino nella terapia anticoncezionale, potranno usufruire dell’ impianto sottopelle di un piccolo dispositivo wireless, controllato in remoto e programmato per il rilascio dei medicinali secondo dosi e tempi prestabiliti. Si potrà dire addio alle punture quotidiane. Non sarà più necessario portare sempre con sé le pillole o impostare l’allarme sul telefono per ricordarsi di prenderle. Questo è quanto promettono Robert Langer e Michael Cima, ricercatori del David Koch Institute al Mit di Boston, e Robert Farra, a capo di MicroCHIPS. Il team ha condotto una pionieristica sperimentazione clinica sul primo prototipo di pill-dispenser intelligente, direttamente incorporato nell’organismo.
Lo studio è stato avviato nel gennaio 2011 e ha coinvolto sette donne in Danimarca di età compresa tra i 65 e i 70 anni, alla quali è stato inserito nel basso ventre il microchip, grande quanto un polpastrello, tramite un semplice intervento ambulatoriale in anestesia locale. È stato quindi somministrato un comune farmaco contro l’osteoporosi, che dev’essere abitualmente assunto per via endovenosa ogni giorno. Dopo quattro mesi – hanno riferito gli scienziati in un articolo pubblicato online su Science Translational Medicine e presentato nel corso del congresso annuale dell’ American Association for the Advancement of Science (Aaas), a Vancouver, in Canada – il dispositivo aveva rilasciato dosaggi paragonabili alle iniezioni e a distanza di un anno i benefici sulla densità di massa ossea erano simili al gruppo di confronto. Non erano emersi effetti collaterali negativi, né reazioni da parte del sistema immunitario. Alcune pazienti hanno riferito di essersi quasi scordate di indossare il microchip. 
Il successo arriva a coronamento di 15 anni di esperimenti, da quando verso la metà degli anni Novanta il team del Mit ha iniziato a lavorare sul chip medicale impiantabile. Nel 1999 sono stati pubblicati i primi risultati su Nature e venne fondata l’azienda che ha finanziato lo sviluppo della tecnologia. L’impresa non è stata semplice. Bisognava trovare il modo di sigillare ermeticamente le singole dosi del farmaco in piccoli serbatoi separati, delle dimensioni di una puntura di spillo, facendo in modo che si aprissero in base a un programma pre-impostato o su comando wireless. “ Ciascuno dei minuscoli contenitori è ricoperto da un sottilissimo nano-strato d’oro, che protegge il farmaco anche per anni, impendendone il rilascio”, spiega Langer. “ Quando arriva il segnale wireless l’oro si dissolve, facendo fuoriuscire la medicina direttamente nel circolo sanguigno”. Risolto ingegnosamente questo problema, se n’è posto un altro.
Negli studi preclinici sugli animali i ricercatori hanno notato che intorno al dispositivo si formava una membrana fibrosa di collagene. Il timore era che la membrana potesse ridurre l’assorbimento della medicina, ma fortunatamente questo non si è verificato.
Il dispositivo va ancora perfezionato. Per il momento il segnale wireless funziona solo a distanza di pochi centimetri e c’è spazio per una ventina di dosi farmacologiche. La MicroCHIPS ha annunciato che sta già sviluppando mini-apparecchiature da 400 dosi, per terapie della durata di un anno o più, e sono previste prossimamente altre sperimentazioni cliniche su un numero più ampio di pazienti. “ In futuro si potrebbe avere letteralmente una farmacia su un chip”, afferma Langer.
I benefici per la salute sono notevoli soprattutto per i pazienti affetti da malattie croniche che, trascorso un certo tempo, tendono ad abbandonare la terapia. “ Il microchip eliminerebbe alla radice il problema della compliance , l’aderenza alle cure, spianando la strada alle terapie farmacologiche completamente automatizzate”, aggiunge Cima. Se tutti andrà secondo i piani, il dispositivo potrebbe entrare in commercio già tra cinque anni.

giovedì 16 febbraio 2012

Wave Hub: generare energia dal moto ondoso.

Fonte: Cordis
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Due dei quattro ancoraggi al sito in mare aperto di test per l'energia marina connesso alla rete e finanziato dall'UE sono stati ora occupati. Wave Hub, situato al largo della costa della Cornovaglia nel Regno Unito, è il più grande sito per test di questo tipo al mondo. Esso è supportato con 23 milioni di euro dal Fondo europeo di sviluppo regionale nell'ambito del suo obbiettivo Convergenza, che si concentra sul supporto dello sviluppo economico integrato sostenibile e la creazione di posti di lavoro sostenibili.

Wave Hub fornisce un'infrastruttura condivisa in mare aperto per la dimostrazione e il test di schieramenti di dispositivi per la generazione di energia dal moto ondoso per prolungati periodi di tempo. Situato 16 chilometri al largo della costa, esso è composto da un centro elettrico sul fondo del mare a cui possono essere connessi i dispositivi per l'energia del moto ondoso. Sono disponibili in affitto quattro ancoraggi separati, ciascuno con una capacità compresa tra 4 MW e 5 MW. Tutti assieme, questi quattro ancoraggi hanno una capacità equivalente alle necessità di elettricità di oltre 7000 abitazioni.

L'ultima azienda a salire a bordo e a prendere parte a Wave Hub è l'azienda irlandese OceanEnergy Limited. Essi si uniscono a Ocean Power Technologies (OPT), con sede nel Regno Unito e Stati Uniti, che ha già firmato un atto di impegno a dislocare il proprio dispositivo PowerBuoy al Wave Hub.

Negli ultimi tre anni, OceanEnergy ha testato un prototipo in scala uno a quattro della sua OE Buoy nella baia di Galway in Irlanda. Questi test hanno ricevuto un impulso in quanto parte del progetto finanziato dall'UE CORES ("Components for ocean renewable energy systems"), finanziato in parte da oltre 4,5 milioni di euro nell'ambito di una sovvenzione del tema "Energia" del Settimo programma quadro (7° PQ).

Ora i test sulla OE Buoy verranno eseguiti al Wave Hub, che è essenzialmente una gigantesca "presa di corrente" sul fondo del mare connessa alla rete nazionale a terra per mezzo di un cavo sottomarino che pesa 1.300 tonnellate ed è lungo 25 km.

La OE Buoy utilizza il principio della colonna d'acqua oscillante. Quando le onde entrano nella camera sottomarina, esse spingono l'aria attraverso una turbina in superficie e generano elettricità. Quando le onde si ritirano, esse creano un vuoto, aspirando l'aria nuovamente attraverso la turbina. La tecnologia impiegata significa che la turbina gira ininterrottamente, indipendentemente dalla direzione del flusso d'aria. Ciò migliora l'efficienza e richiede che vi sia una sola parte in movimento, minimizzando così i costi di manutenzione.

Máire Geoghegan-Quinn, Commissario per la ricerca, l'innovazione e la scienza, ha visitato la OE Buoy nel novembre del 2010 durante il progetto CORES.

Claire Gibson, direttore generale di Wave Hub, ha commentato il noleggio del secondo ancoraggio: "Io ho il piacere di confermare il nostro partenariato con OceanEnergy Limited e non vedo l'ora di assisterli nella loro sistemazione presso il Wave Hub nei prossimi mesi. OceanEnergy ha completato tre anni di test del prototipo in condizioni di mare agitato ed è pronto a compiere il passo successivo con Wave Hub e con un dispositivo a grandezza naturale. Se i test avranno successo, noi ci aspettiamo di vedere OceanEnergy schierare una serie di dispositivi a Wave Hub. Supportando lo schieramento di OceanEnergy, noi possiamo ora testare pienamente le nostre procedure operative e creare il processo per ottenere una Licenza marittima. Questo supporterà e accelererà ulteriori sviluppi al Wave Hub."

Con lunghe sezioni della linea costiera che si affacciano direttamente sull'Oceano Atlantico, il Regno Unito e l'Irlanda sono entrambi in una buona posizione per promuovere lo sviluppo dell'energia dalle onde, poiché le tempeste distanti nell'Atlantico generano onde che alla fine raggiungono queste coste.

Utilizzare l'energia contenuta in queste onde può mettere a disposizione una fonte sicura di elettricità ecologica per molti anni a venire, una fonte che non emette gas serra inquinanti nella già intasata atmosfera della Terra. Supportare e incoraggiare questo tipo di tecnologia è essenziale se l'EU vuole riuscire a centrare il suo obbiettivo di ricavare il 20% delle sue necessità energetiche da fonti rinnovabili entro il 2020.

La tecnologia del moto ondoso è ancora relativamente giovane e, allo scopo di far progredire questi sistemi fino a una completa realizzazione su vasta scala, è necessario riuscire a svilupparli in unità adatte alla produzione di massa.

Phil Prendergast, membro irlandese del Parlamento europeo (MEP) del Gruppo dell'alleanza progressista di Socialisti & Democratici (S&D), ha elogiato il supporto dato dal 7° PQ ai test della OE Buoy e ha commentato i benefici generali che il partenariato tra OceanEnergy e Wave Hub porterà: "L'UE ha fornito oltre 1,4 milioni di euro ai partecipanti irlandesi che hanno collaborato alla ricerca e sviluppo su questo prodotto di livello mondiale. L'investimento sta chiaramente dando i suoi frutti, poiché questo, e altri progetti simili, hanno prodotto risultati tangibili che porteranno benefici a tutta l'Europa. L'accordo OceanEnergy rappresenta un trionfo anche per il settore della ricerca e sviluppo dell'Irlanda, in particolare alla luce delle recenti proposte per il nuovo programma di R&S dell'Europa, Orizzonte 2020."
Per maggiori informazioni, visitare:

OceanEnergy:
http://www.oceanenergy.ie/
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CleanSpace One: satellite svizzero “spazzino” ripulirà lo spazio.

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Dal lancio del primo Sputnik avvenuto nel 1957 sono stati mandati in orbita più di 6000 satelliti, la maggior parte dei quali attualmente inattivi, esplosi e in costante rivoluzione attorno alla Terra in un orbita definita la cintura di rifiuti a circa 2000 km di altezza. Pericolosissimi per tutti i preziosi satelliti che invece sono in funzione e di cui ci serviamo giornalmente.
Il problema della “pulizia” da questi rottami è in discussione da molto tempo e pare che allo Swiss Space Center abbiano concepito un satellite spazzino di nome CleanSpace One che potrebbe migliorare la situazione.

L’idea di fondo dello Swiss Space Center è teoricamente abbastanza semplice con una piccola flotta di satelliti CleanSpace che partirebbero a caccia dei 20 mila pezzi vaganti, prendendoli fisicamente e spingendoli in direzione della Terra dove brucerebbero a causa dell’alta velocità al contatto con l’atmosfera. Vediamo un filmato che mostra il funzionamento:
La partenza del primo CleanSpace è attesa entro 3-4 anni, ma il continuo aumento dei frammenti vaganti potrebbe diventare un vero problema per tutti perchè a volte alcuni di loro riescono ad attraversare l’atmosfera e cadono sulla Terra, per non parlare dei danni economici che hanno visto ad esempio il satellite americano Iridium-33 esplodere dopo la collisione con un inattivo satellite russo Cosmos-2251.

giovedì 9 febbraio 2012

Ferro trasparente e luce lenta per i futuri computer quanto-ottici.

Fonte: LeScienze.it
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Sfruttando la luce di sincrotrone è stato possibile creare un effetto di trasparenza elettromagneticamente indotta nel nucleo di atomi di ferro 57 disposti in strati sottili, ottenendo un interruttore utile per la futura elaborazione ottica dell'informazione, che potrà sfruttare, per memorizzare i dati, anche l'enorme rallentamento della luce realizzato nell'apparato usato per ottenere la trasparenza.

Con un'intensa luce laser di una certa lunghezza d'onda è possibile rendere trasparente alla luce di una lunghezza d'onda un materiale normalmente non trasparente. Questo effetto viene generato da una complessa interazione di luce con il guscio elettronico degli atomi del materiale. Per la prima volta questo effetto di trasparenza è stato dimostrato per il ferro- 57 rispetto alla luce a raggi X da un gruppo di ricercatori della collaborazione DESY (Deutsches Elektronen-Synchrotron) che hanno sfruttato l'elevata brillantezza della fonte di luce di sincrotrone PETRA III.
Per ottenere questo risultato, descritto in un articolo sulla rivista "Nature", gli scienziati hanno posizionato due strati sottili di atomi di ferro-57 in una cavità ottica, formata da due specchi paralleli in platino che riflettono più volte i raggi X. I due strati di ferro-57 atomi, ciascuno di circa tre nanometri, sono mantenuti in posizione tra i due specchi in platino da un supporto in carbonio, che è trasparente per la luce a raggi X della lunghezza d'onda utilizzata.

Questo sandwich dello spessore totale di soli 50 nanometri viene illuminato sotto angoli molto stretti con un fascio di raggi X dalla sorgente di luce di sincrotrone PETRA III. All'interno di questo sistema di specchi, la luce è riflessa più volte, generando un'onda stazionaria: quando la lunghezza d'onda della luce e la distanza tra i due strati di ferro sono nei giusti rapporti, il ferro diventa quasi trasparente per la luce a raggi X. In questo caso però, la trasparenza elettromagneticamente indotta coinvolgerebbe interazioni che coinvolgono il nucleo stesso.
Ferro trasparente e luce lenta per i futuri computer quanto-ottici
Cortesia DESY
"Il risultato di realizzare la trasparenza dei nuclei atomici è praticamente l'effetto di trasparenza elettromagneticamente indotta nel nucleo atomico", osserva
Ralf Röhlsberger, primo firmatario dell'articolo. "Senza dubbio, c'è ancora molta strada da fare prima che il primo computer quanto-ottico diventa realtà. Tuttavia, con questo effetto, siamo in grado di eseguire una classe completamente nuova di esperimenti quanto-ottici di alta sensibilità. Con lo European XFEL X-ray laser, attualmente in costruzione ad Amburgo, vi è una reale possibilità di controllare la luce a raggi X con luce a raggi X ".

Gli esperimenti realizzati da DESY anche mostrato un altro effetto oltre a quello di trasparenza elettromagneticamente indotta: la luce intrappolata nella cavità ottica viaggia a una velocità di pochi metri al secondo, contro i normali 300.000 chilometri al secondo.

Ora i ricercatori intendono chiarire fino a che punto si possa rallentare la luce in questo modo, e se è possibile utilizzare questo effetto nell'ambito di un computer quantistico, realizzando, per esempio, la memorizzazione delle informazioni con impulsi di luce estremamente lenta oppure interrotta.


mercoledì 8 febbraio 2012

La nuova fibra ottico-elettronica.

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Far comunicare una fibra ottica, che ha uno spessore 10 volte inferiore a quello di un capello, e un microchip che ha componenti anche 100 volte più piccoli di essa, può essere molto complicato. Per questo fino a oggi i tentativi di ‘mescolare’ elettronica e ottica nelle telecomunicazioni sono stati piuttosto maldestri, e certamente meno efficienti di quanto desiderato. Ma forse un gruppo di fisici, chimici e ingegneri della Penn State University ha trovato il modo di risolvere il problema, creando la prima fibra ottica con funzioni elettroniche integrate ad alta velocità. Il lavoro è stato pubblicato su Nature Photonics.
“La fibra ottica di solito è un mezzo passivo, che trasporta semplicemente la luce, mentre il chip dà vita alla parte elettrica del lavoro”, ha spiegato John Badding, docente dell’ateneo statunitense. “Prendiamo una videochiamata da Londra a New York: è solo luce che viaggia su fibra ottica, ma il processo che prende quel segnale e lo trasforma in immagine è un processo elettrico, che avviene all’interno dei due computer da cui parte e a cui arriva la telefonata. Abbiamo quella che in gergo si chiama conversione OEO, ovvero ottica-elettrica-ottica. Una sorta di concerto a due voci per luce ed elettricità”.
Un processo che però è poco efficiente e molto complicato, per vari motivi. Prima di tutto per la forma delle due componenti che intervengono: la fibra ottica è una sorta di filamento cilindrico, invece i chip sono minuscoli dispositivi piatti. Poi ci sono le dimensioni: come già ricordato, la prima può avere un diametro di appena un centesimo di millimetro, i secondi hanno scanalature - per accogliere e indirizzare la luce - fino a 100 volte più piccole. Allineare i segnali può essere difficile.
Così i ricercatori statunitensi hanno pensato di provare un approccio diverso: invece di cercare il modo di connettere più efficacemente le due componenti, hanno deciso di sviluppare una fibra ottica del tutto nuova, che avesse funzioni elettroniche integrate. Per ottenere questo tipo di dispositivo, i ricercatori hanno usato delle tecniche chimiche ad alta pressione, in modo da depositare diversi strati di materiali semiconduttori cristallini direttamente all’interno di piccoli fori nelle fibre ottiche. Questi materiali ibridi hanno dimostrato di avere larghezze di banda che arrivano fino a 3GHz.“L’enorme passo in avanti è che non abbiamo più bisogno di chip, nel prodotto finale – ha commentato Pier J. A. Sazio, ricercatore all’Università di Southampton che ha collaborato allo studio – poiché siamo riusciti a inserire la giunzione, ovvero la superficie attiva, dove ha luogo tutta la parte elettronica del processo di trasmissione dell’informazione, direttamente all’interno della fibra ottica”.
Una soluzione che potrebbe anche far risparmiare sui costi, spiegano i ricercatori. “La fabbricazione dei normali chip necessita di laboratori costosissimi, perché la creazione di queste componenti ad alta precisione deve essere effettuata in camere ad atmosfera controllata: sono le cleanroom, stanze che presentano un basso inquinamento di microparticelle di polvere in sospensione”, ha continuato Sazio. “Invece la produzione delle nostre fibre ottiche con funzioni elettroniche integrate può essere effettuata con tecnologie che costano molto meno”.
La tecnologia sviluppata potrebbe dunque cambiare il modo di concepire le telecomunicazioni. “Ci sono tutti i vantaggi a sviluppare una tecnologia nella quale il segnale non lascia mai la fibra ottica, nemmeno per la parte elettronica”, ha concluso il ricercatore: “Tutto il processo diventa più veloce, più efficiente e soprattutto più economico”.
Riferimento: doi: 10.1038/nphoton.2011.352
Credit: Badding lab, Penn State University

Nanoshell, la via nanoscopica alle celle fotovoltaiche.

 Fonte: LeScienze.it
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Il silicio nanocristallino utilizzato finora nella realizzazione di celle fotovoltaiche presentava numerosi inconvenienti, primo fra tutti la limitata capacità di assorbimento della radiazione luminosa. Un nuovo metodo di deposizione di questo materiale, basato su nanosfere cave, promette un notevole avanzamento.

Piccole sfere cave di silicio nanocristallino potrebbero essere la chiave per permettere un notevole risparmio di materiale e di costi di produzione delle celle fotovoltaiche, secondo quanto pubblicato sulla rivista “Nature Communications” a firma di un gruppo di ricercatori della Stanford University.

“Il silicio nanocristalino è un materiale fotovoltaico prezioso: ha un'alta efficienza elettrica e resiste anche alle alte temperature che si creano sotto il sole, e per questi due aspetti è decisamente superiore rispetto ad altri tipi di film solari”, ha spiegato Shanhui Fan, professore di ingegneria elettronica e coautore dello studio.

L'inconveniente del silicio nanocristallino tuttavia è sempre stata una limitata capacità di assorbimento della luce, che richiede un complesso processo lavorativo per riuscire a stendere uno spessore di materiale adatto allo scopo.
Nanoshell, la via nanoscopica alle celle fotovoltaiche
Questa immagine al microscopio elettronico a scansione mostra una sezione di uno strato di nanoshell cave realizzate in silicio fotovoltaico. Cortesia Yan Yao
Le sfere, denominate nanoshell, sono realizzate con piccoli semi di silice rivestiti da uno strato di silicio. Il nucleo vetroso viene successivamente asportato utilizzando acido fluoridrico che lascia inalterato il guscio di silicio: la microstruttura così ottenuta è in grado di catturare e far circolare al proprio interno la luce che vi incide.

Secondo i ricercatori, la luce circola lungo la circonferenza alcune volte, dando il tempo all'energia di essere assorbita gradualmente dal silicio: quanto più rimane intrappolata nel materiale, tanto migliore sarà l'assorbimento. Con una stratificazione successiva, in alcune parti dello spettro si arriva a un incremento addirittura vicino al 75 per cento.

“Le shell sferiche di dimensioni nanoscopiche massimizzano l'efficienza di assorbimento del film: permettono un facile accesso alla radiazione luminosa e poi la intrappolano con
modalità sconosciute alle realizzazioni macroscopiche: è il potere delle nanotecnologie”, ha commentato Jie Yao, coautore dello studio.

Una volta dimostrato l'incremento di assorbimento, gli ingegneri hanno proceduto a dimostrare i vantaggi della nuova tecnica di produzione. In primo luogo, le nanoshell possono essere realizzate velocemente.

“La deposizione di un film piatto dello spessore di un micron di silicio monocristallino solido può richiedere ore, mentre per le nanoshell che raggiungono simili prestazioni in termini di assorbimento della luce possono sono sufficienti pochi minuti”, ha spiegato Yan.

La struttura a nanoshell in effetti utilizza un quantità di materiale notevolmente inferiore: solo un ventesimo rispetto al silicio nanocristallino solido. “Un ventesimo del materiale costa ovviamente un ventesimo e pesa un ventesimo rispetto alo strato solido”, ha concluso Jie. “Questa circostanza potrebbe portare a una svolta nella produzione di celle fotovoltaiche con un migliori prestazioni”.

lunedì 6 febbraio 2012

Scoperto in che modo le cellule ereditano con precisione le informazioni non contenute nei loro geni.

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Un team europeo di scienziati ha scoperto in che modo le cellule ereditano con precisione le informazioni non contenute nei loro geni. La ricerca, presentata nella rivista Developmental Cell, è stata in parte finanziata dal progetto EPICENTROMERE ("Determining the epigenetic mechanism of centromere propagation"), che ha ricevuto una sovvenzione internazionale Marie Curie per il reinserimento del valore di 100.000 euro nell'ambito del Settimo programma quadro (7° PQ) dell'UE. I risultati ottenuti aiutano a ricomporre il puzzle relativo ai processi biologici di geni e cellule, e in particolare alla divisione cellulare.

Anche se i 10 trilioni di cellule del corpo di un individuo adulto sono geneticamente identiche, esse si sviluppano in diversi tipi di cellule tra cui le cellule nervose, quelle della pelle e quelle muscolari. La qualità distintiva è innescata dall'attivazione di alcuni geni e dall'inibizione di altri. Le cellule specializzate hanno la capacità di conservare una memoria della loro identità individuale ricordando quali geni devono essere attivi e quali no, persino quando creano copie di loro stesse.

Guidati da Lars Jansen dell'Instituto Gulbenkian de Ciência (IGC) in Portogallo, i ricercatori affermano che anche se questo tipo di memoria non è scritto direttamente nell'acido desossiribonucleico (DNA), esso è ereditabile. Allo stesso tempo, le istruzioni non-genetiche o "epigenetiche" normalmente sembrano essere contenute nelle proteine, e controllano sia i geni che la disposizione dei cromosomi.

Il team ha scoperto in che modo uno di questi centri organizzativi epigenetici è trasmesso da una cellula madre alle cellule figlie. Le scoperte potrebbero aiutare gli scienziati a determinare in che modo un intoppo durante il processo di divisione cellulare può innescare il cancro.

I ricercatori puntano i riflettori sul centromero, una struttura proteica su ciascun cromosoma che lo fissa allo scheletro della cellula (citoscheletro) durante la divisione della cellula. Questo garantisce in modo efficace che ciascuna cellula figlia riceva una serie di cromosomi nuovi. Gli scienziati sottolineano l'importanza di centromeri che funzionano correttamente. Quando il processo non è perfetto, le cellule possono ricevere un numero errato di geni che può quindi condurre alla comparsa di cellule tumorali.

"Quando le cellule si dividono, esse fanno esattamente due copie di tutti i geni da trasmettere poi a esattamente due cellule," spiega l'autrice principale Mariana Silva, studentessa del corso di dottorato presso il Jansen lab. "Una simile impresa deve essere portata a termine anche per le informazioni non-genetiche. Ma in che modo la cellula copia una struttura proteica? E come può garantire che ne venga fatto il numero corretto di copie? Questa domanda disorienta ancora gli scienziati. Noi abbiamo concentrato i nostri sforzi sul centromero, poiché la proteina chiave responsabile del suo comportamento epigenetico è conosciuta."

Questa proteina, conosciuta tra gli scienziati come CENP-A, mantiene una "memoria molecolare" del centromero, assicurando la sua eredità. Precedenti studi condotti dal dott. Jansen e colleghi avevano scoperto che, mentre le cellule duplicano il proprio DNA prima della mitosi, la duplicazione del centromero, guidata dalla proteina CENP-A, avviene solo dopo la mitosi. Ma nessuno sapeva quale fosse il fattore che innesca la duplicazione o come venisse garantita la precisione ... fino ad ora.

In questo ultimo studio, i ricercatori mettono in evidenza come lo stesso meccanismo che controlla il conosciuto processo di duplicazione del DNA controlla anche la duplicazione della CENP-A. Questo meccanismo funziona come un orologio molecolare, portando avanti le varie fasi del ciclo cellulare, una dopo l'altra.

Commentando i risultati, il dott. Jansen ha detto: "Ciò che abbiamo scoperto è un meccanismo molto semplice e ordinato in base a cui la cellula collega duplicazione del DNA, divisione cellulare e assemblaggio del centromero. Mediante l'uso dello stesso meccanismo (Cdks) per tutte queste fasi, ma in modi opposti, la cellula si assicura che venga fatto il giusto numero di copie sia dei geni che dei centromeri, concedendo a ciascuna il tempo adeguato. Mantenere tutti questi processi cruciali separati nel tempo potrebbe essere importante per evitare che si verifichino errori. La comprensione di questi principi generali di eredità epigenetica è fondamentale per capire in che modo sono regolati i geni, in che modo sono organizzati i genomi e per comprendere anche l'ampia gamma di malattie che derivano da errori in questi meccanismi."

A questo studio hanno contribuito esperti provenienti dal Regno Unito e dagli Stati Uniti.
Per maggiori informazioni, visitare:

Instituto Gulbenkian de Ciència:
http://www.igc.gulbenkian.pt/

Developmental Cell:
http://www.cell.com/developmental-cell/abstract/S1534-58071100118-3
Categoria: Risultati dei progetti
Fonte: Instituto Gulbenkian de Ciència
Documenti di Riferimento: Silva, M. et al., "Cdk Activity Couples Epigenetic Centromere Inheritance to Cell Cycle Progression", Developmental Cell, 2011, pubblicato l'8 dicembre. doi:10.1016/j.devcel.2011.10.014
Codici di Classificazione per Materia: Coordinamento, cooperazione; Scienze biologiche; Ricerca scientifica  

Riparare il cuore con la seta.

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Il cuore, se subisce un infarto, non è capace di ripararsi da solo: le cellule cardiache, cioè, non si rigenerano. Né, allo stato attuale, è possibile far crescere sulle cicatrici nuove cellule trapiantate, perché queste non sono in grado di “attecchire”. I ricercatori del Max Planck Institute for Heart and Lung Research, però, hanno appena trovato un materiale che potrebbe permettere di bypassare - è il caso di dirlo - questo problema: la seta Tasar prodotta dalla farfalla tropicale Antheraea mylitta. Il metodo, per ora testato con cellule murine, è pubblicato su Biomaterials.
Coltivate in laboratorio, le cellule cardiache da trapiantare devono potersi aggrappare a una struttura di sostegno. Purtroppo, naturali o artificiali che fossero, tutte le fibre testate sino ad ora avevano gravi difetti, come ha spiegato Felix Engel, autore principale della ricerca: “O erano troppo fragili, o venivano aggredite dal sistema immunitario, oppure non permettevano alle cellule muscolari del cuore di colonizzare correttamente l’impianto”.
Il problema sembra ora essere risolto grazie all’intuizione di un ricercatore indiano, Chinmoy Patra, secondo cui la fibra prodotta da Antheraea mylitta, il baco tropicale dal cui bozzolo si ricava la seta Tasar, sarebbe il materiale di sostegno ideale. Il segreto della sua perfetta adesione con le cellule muscolari cardiache sarebbe dovuto al tipo di struttura proteica e alla superficie ruvida di questo materiale. Per testarlo, i ricercatori hanno creato dei cerotti - dischi della grandezza di una moneta - e hanno dimostrato che su di essi le cellule cardiache sono in grado di comunicare e sincronizzarsi, fino a pulsare in contemporanea per un periodo di 20 giorni, proprio come avviene nel muscolo cardiaco.
I cerotti di seta Tasar hanno superato per il momento solo test con cellule di ratto. Prima di vederli in sala operatoria si dovrà anche studiare un modo per ottenere un numero sufficiente di cellule umane da cui partire per il trapianto. Si ipotizza che basti un campione di cellule staminali del paziente da coltivare in laboratorio, ma anche in questo campo si è ancora a una fase di studio preliminare.
Riferimento: Biomaterials DOI:10.1016/j.biomaterials.2011.12.036
Immagine: i dischi di seta Tasar (credit: MPI for Heart and Lung Research)

sabato 4 febbraio 2012

I “nanobot”, mini elicotteri intelligenti.


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All’Università della Pennsylvania (Usa) c’è un laboratorio chiamato Grasp (General Robotics, Automation, Sensing and Perception) dove si sviluppano robot molto particolari. Come questi “nanobot”, mini elicotteri intelligenti che svolgono i “compiti” assegnati dai loro programmatori in modo davvero spettacolare.

Ogni elicottero-robot, dotato di quattro rotori per volare e di una “pinza” per afferrare oggetti, ha una manciata di sensori e un sistema di controllo che gli consente di evitare gli ostacoli e… i propri simili. Questi quadricotteri sono così in grado di compiere manovre quasi impossibili, ruotare su stessi o mettersi “a testa in giù”, sfrecciaree all’interno dei passaggi più impervi, volando da “solisti” o in formazione. Tutto nella massima autonomia.
I progettisti prevedono per loro applicazioni futurop in campo industriale. Intanto, per adesso, per avere un’idea di quel che potranno fare ammirateli anche in questo video.

Tutte le curiosità su robot (volanti e non) su Focus.it.

Il mago italiano degli algoritmi che è pronto a sfidare Google.

Fonte: Corriere.it
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«La mia invenzione rivoluzionerà i motori di ricerca». Lunedì presenterà in streaming mondiale la sua ultima invenzione.

MILANO - Attesa e mistero, profondo. Non solo in Italia ma nei cinque continenti. «Quello che presenterò lunedì non è un semplice motore di ricerca, un semplice miglioramento di Google, ma qualcosa di nuovo, di diverso che con Google finora non si riesce a fare».
ALGORITMI - Difficile non credere a Massimo Marchiori che è stato l'inventore dell'algoritmo sul quale Larry Page fondatore del più celebre dei «motori» ha costruito così la sua fortuna. E lunedì, in streaming mondiale, Marchiori presenterà il suo risultato dal Palazzo del Bo, cuore dell'Università di Padova dove insegna. «Ci sto lavorando da quattro anni», precisa, «da quando ho fondato una piccola società, una start-up battezzata Volunia come il mio nuovo motore». Ma che cosa sarà capace di fare? «Il segreto», risponde sorridendo, «sta nello slogan che ho scelto per lanciarlo, "cerca e incontra"; le due parole racchiudono e spiegano tutti i significati delle nuove capacità che entro cinque anni saranno normali funzioni di tutti i motori di ricerca, da Google a Yahoo».

SVILUPPO - L'idea era coltivata da Marchiori da tempo. Ora, dopo un lungo sviluppo, è diventata uno strumento matematico efficace. Il collaudo, durato molti mesi, lo conferma e quindi non restava che uscire allo scoperto, nel mercato, prima che qualche indiscrezione favorisse concorrenti agguerriti nel cercare nuove possibilità sul web. La storia di come sia arrivato al traguardo sembra una corsa a ostacoli e solo la sua passione di «italiano protagonista in patria» lo ha sostenuto e ha vinto. Cambiando metodo rispetto alla sua prima conquista balenata quando ancora era studente. «Allora il mio algoritmo Hypersearch lo presentai a un congresso», racconta. «Larry Page ne fu affascinato, mi chiese di utilizzarlo e siccome era un lavoro libero senza brevetto lo impiegò nel migliore dei modi». Intanto le idee di Marchiori marciavano oltre.

EMIGRATO - Lavorava al Mit di Boston con Tim Berners-Lee che lo assunse battendo un pugno sul tavolo per non perdere l'occasione di un collaboratore geniale. Ma poi desiderava tornare «per dimostrare che anche nel nostro Paese possiamo raggiungere importanti risultati». E questo lo dice nonostante i rifiuti che lo costrinsero a emigrare in Olanda dove venne assunto prima ancora di laurearsi. Quindi da Boston e da protagonista della ricerca informatica mondiale entrava all'Università di Venezia con uno stipendio di mille euro al mese e tante promesse. «Ma non le mantenevano mai e così dopo sei anni ho concorso a Padova dove ora insegno con duemila euro al mese e tanta soddisfazione». Qui ha concretizzato la nuova idea. Ricevette molte proposte di finanziamento e scelse l'offerta del sardo Mariano Pireddu. Aggiunse la disponibilità di una piccola società di Scandiano, a Reggio Emilia, sconosciuta da noi ma famosa al di fuori dei confini come fabbricante di server e supercomputer, e creò Volunia con sede alla periferia industriale di Padova.

BUROCRAZIA - «Ho sprecato un incalcolabile numero di mesi per le pratiche burocratiche», aggiunge con amarezza. «Quando dovevo collegare i computer, Telecom mi informava che non poteva perché nel condotto non c'era spazio per un altro cavo. Sono stato costretto a installare una parabola e attivare una connessione radio con un fornitore remoto che supplisce ai disservizi delle reti normali. L'Enel ha impiegato due mesi per allacciare la corrente elettrica senza la quale nulla poteva funzionare. Ora, nonostante tutto, siamo pronti, determinati e convinti che il nuovo motore avrà successo; altrimenti cercheremo altre idee: web è un mondo bellissimo e stimolante». L'elenco dei riconoscimenti a Massimo Marchiori è lungo e illustre. Nel 2004 entrava nella classifica dei cento migliori giovani innovatori mondiali stilata da Technology Review, la rivista del Mit. Aveva 34 anni. I rapporti con il Mit continuano «ma i grandi frutti adesso voglio farli germogliare nella mia terra. E dobbiamo essere orgogliosi».

Giovanni Caprara
twitter@giovannicaprara

Il computer che legge le nostre emozioni dal tono di voce.

Fonte: Corriere.it

Un programma di ricercatori messicani interpreta la voce di chi è depresso. E La visione influenza la percezione della voce.

Dieci anni dopo la data fissata da Arthur Clarke per il suo romanzo 2001 Odissea nello Spazio da cui Stanley Kubrick ricavò l’omonimo kolossal cinematografico, la capacità di leggere le parole degli umani posseduta dal supercomputer HAL 9000 dell'astronave Discovery One in rotta per Giove diventa realtà, addirittura migliorata al punto da interpretarne il nostro tono emotivo. Quando i piloti devono decidere come disconnetterlo per sospetto malfunzionamento si isolano in una cabina per non farsi sentire, ma HAL segue con le sue telecamere il loro labiale e, avendo il comando assoluto dell’astronave, decide di sopprimerli.

VIDAS CAPISCE LA DEPRESSIONE -Adesso è arrivato VIDAS (acronimo di voice integrated digital analyses system) che è in grado di interpretare lo stato d’animo di soggetti madre lingua anglosassone e spagnola (le due lingue più parlate negli Usa) con una precisone del 79% circa, presentando soltanto qualche difficoltà con i soggetti bilingue. Lo presentano in uno studio pubblicato su Voice & Emotion i ricercatori dell’Istituto Mexicano del Seguro Social di Guadalajara descrivendo questo sistema computerizzano di riconoscimento vocale da loro messo a punto per velocizzare lo screening dei pazienti depressi rispetto a quelli non depressi quando arrivano in ospedale in modo da avviarli direttamente dall’accettazione al giusto specialista.

EFFETTO MCGURK - E’ sorprendente scoprire che se analizziamo la situazione opposta, cioè l’uomo che ascolta la voce di un computer, le nostre capacità di interpretare la voce sintetica sono molto più labili perché soffriamo del cosiddetto effetto McGurk dal nome del ricercatore inglese Harry McGurk della Surrey University che lo descrisse per primo su Nature insieme al collega John MacDonald in uno studio provocatoriamente intitolato «Sentire le labbra e vedere la voce». Lo studio dimostra come la visione influenzi la percezione della voce: se vediamo in primo piano il labiale di una donna che pronuncia la sillaba «BA» ma viene doppiata come «GA», tutti le sentono dire «DA». Facendo il contrario la maggior parte della gente sente «BAGBA» o «GABA», perché stimolo visivo e acustico vanno in conflitto. Se ascoltano solo la traccia sonora senza guardare il film sentono correttamente «GA», mentre se guardano solo il filmato senza sonoro interpretano correttamente il suono «BA».

PERSONAGGI FAMOSI - Uno studio dell’Università di Nottingham pubblicato su Perception Psychopysiology indica però che quando osserviamo un personaggio noto presentato con una voce che non è la sua, le persone a cui è più familiare sono meno soggette all’effetto McGurk rispetto a quelli che non lo conoscono. Identità facciale e identità vocale non sono quindi del tutto separate cosicché vedere un videotape con Sarkozy doppiato con la voce di Berlusconi ci disorienta ma probabilmente non fino al punto di farcelo sentir dire “Mi consenta” con un improbabile accento francese.

IL VOCODING - Quando invece dobbiamo interpretare una voce sintetica generata da un computer, funzione che in termini tecnici si chiama vocoding, non basta solo la comprensione delle caratteristiche vocali, una cosa che possiede ad esempio pure la voce di un pappagallo, ma occorre anche riconoscere un costrutto intelligibile. Uno studio pubblicato su BioMedCentral Neuroscience da un gruppo internazionale di ricercatori fra cui anche il neurologo partenopeo Paolo Barone dell’Univerità Federico II° di Napoli ha dimostrato come l’area del nostro cervello che ha sviluppato la capacità di discernere fra linguaggio intelligibile, non intelligibile e rumori ambientali è quella temporale che, di fronte alla voce sintetica dei computer, si attiva in misura proporzionale alla comprensibilità del messaggio ascoltato. Se la frase è intelleggibile si attivano solo le aree temporali posteriori di entrambi i lati del cervello che non vengono invece coinvolte quando il messaggio ha un costrutto incomprensibile (ad esempio è in una lingua a noi sconosciuta), situazione in cui ad attivarsi sono le aree anteriori oppure quando vengono ascoltati suoni complessi che non hanno palesemente le caratteristiche di un messaggio verbale.

SPETTRO DEI SUONI - Il recentissimo studio dell’Università del Canada pubblicato su PlosONE Biology ha messo ancora più a fuoco le modalità con cui il nostro sistema uditivo riesce ad estrarre le caratteristiche uditive del parlato importanti da un punto di vista percettivo rivelando quanto sia importante l’andamento temporale dell’alternarsi delle sillabe nell’ambito di un determinato spettro di suoni, cioè il pacchetto di ampiezze racchiuse in una determinata frequenza. In sostanza è più facile che un bresciano capisca un bergamasco oppure che un calabrese capisca un siciliano perché, viste le simili ampiezze dei due dialetti, lo spettro dei suoni che gli sono intelleggibili resta all’interno di frequenze simili. I ricercatori canadesi sono riusciti a recuperare i suoni del linguaggio là dove vengono originati prima di essere convertiti in segnali uditivi: in altre parole ci sembra sempre di sentire quello che pensiamo perché le parole pensate vengono automaticamente ricostruite nella corteccia uditiva e se si recuperano prima di questo passaggio gli impulsi elettrici che le compongono si può inviarli a un computer con cui dare una voce sintetica a chi non può più parlare per una malattia, ma può solo pensare di farlo.

COMPONENTE EMOTIVA - Ciò che comunque manca alla voce di un computer è la componente emotiva, fondamentale nella trasmissione del messaggio e che infatti Stanley Kubrick non aveva trascurato di impartire ad HAL 9000 nella finzione filmica quando il supercomputer sembrava supplicare gli astronauti del Discovery One di non disattivarlo, mentre prima aveva sempre avuto una voce monocorde come Crozza quando imita Mario Monti. I disabili come i soggetti colpiti da SLA che fanno uso di sistemi di comunicazione a voce sintetica hanno infatti problemi ad accettarla perché ascoltandola non vi riconoscono la loro impronta emotiva, nonostante sia perfettamente comprensibile. Una delle soluzioni migliori a questo problema che crea ulteriori disagi psicologici a questi pazienti è stata il cosiddetto EDVOX, un sistema in cui si può variare con facilità la voce entro una gamma di oltre una trentina di possibili personalità vocali diverse per età, sesso, timbro, ecc. I ricercatori scozzesi Iain Murray and John Arnott della Computing University di Dundee, fra i primi ad occuparsi di questi problemi, hanno pubblicato sul Journal of Acoustical Society of America uno studio sulle correlazioni fra il tipo di voce e il nostro stato d’animo (vedi schema), caratteristiche che ognuno di noi percepisce in misura variabile ogni volta che ascoltiamo parlare qualcuno. Non ci si pensa mai, ma tutte queste informazioni noi le abbiamo già nel nostro archivio cognitivo: tutti siamo grandi esperti di voce, la produciamo e la comprendiamo, ma sappiamo anche estrarne tutta una serie di informazioni socialmente rilevanti con un contenuto più profondo e probabilmente più universale che costituiscono la componente non linguistica della comunicazione. E ciò ci rende una specie unica che nemmeno HAL 9000 avrebbe mai potuto eguagliare.

INFORMAZIONI PSICOSOCIALI DEL LINGUAGGIO - Pensate al passeggero di un aereo che sente parlare in un’altra lingua le persone sedute dietro di lui. Anche se non capisce ciò che dicono quelli che gli stanno seduti dietro e non li vede in faccia coglierà ugualmente moltissime informazioni: potrà intuirne età e sesso, farsi un’idea del loro stato d’animo e percepire i loro ruoli di dominanza e subalternità psicologica. Ad esempio un padre che rimprovera un figlio o una figlia che conforta una madre. Uno studio dell’Università di Glasgow pubblicato sull’ultimo British Journal of Psychology dice che la voce veicola numerose e importanti informazioni psicosociali organizzate secondo parametri strettamente connessi fra loro ma funzionalmente dissociabili in tre principali ambiti: eloquio, identità e affettività. Tutti aspetti che il nostro passeggero potrà sempre confermare con un fugace sguardo all’indietro che spesso lo lascerà sorpreso della sua arguta capacità di deduzione.

KINECTC 2 - La Microsoft ha annunciato una nuova versione della play station Xbox che si chiamerà Kinect 2 e che dovrebbe essere dotata di una tecnologia a fibre ottiche capace di leggere il labiale del giocatore e addirittura interpretare l’espressione del suo volto e le sue emozioni in base al timbro della voce in modo da capire se è calmo o arrabbiato così da organizzare le sue mosse di conseguenza. Se mai questo gioco sarà realizzato sussistono forti dubbi che possa eguagliare le nostre capacità, la partita giocata con HAL 9000 insegna.

Cesare Peccarisi

giovedì 2 febbraio 2012

Cellule della pelle in componenti del cervello, senza passare dalle staminali.

Fonte: ADUC
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Trasformare cellule della pelle in componenti del cervello, senza passare dalle staminali. C'e' riuscito un gruppo di scienziati americani della Stanford University School of Medicine, con un esperimento pubblicato online su 'Pnas'. Partendo dalla pelle di topo i ricercatori hanno ottenuto dei cosiddetti precursori neuronali, elementi in grado di dare origine a tutti i tipi di cellule del sistema nervoso: non solo ai neuroni, ma anche ad astrociti e oligodentrociti. Un 'salto' che gli scienziati Usa hanno fatto direttamente, cioe' senza far regredire le cellule di partenza allo stato di pluripotenza tipico delle staminali.
Non solo. Iniettate in particolari topi di laboratorio selezionati in modo da mimare una malattia genetica umana che impedisce la produzione della mielina, la guaina protettiva dei neuroni, i precursori neuronali ottenuti dalla pelle hanno dimostrato di integrarsi efficacemente nel cervello: dopo 10 giorni maturavano in oligodentrociti e iniziavano a rivestire di mielina i neuroni. Ora si tratta di capire se questa via, utile ha ottenere pezzi di ricambio da usare in caso di patologie genetiche o neurodegenerative, sia replicabile anche nell'uomo. Un punto sul quale i ricercatori, pur ottimisti, si mantengono cauti.
Per aggirare gli ostacoli etici legati all'uso di staminali embrionali in medicina rigenerativa, nel 2006 scienziati giapponesi hanno messo a punto una tecnica che permette di 'ringiovanire' cellule adulte fino allo stadio di simil-embrionali, ottenendo le cosiddette staminali pluripotenti indotte. Cellule per le quali, pero', di recente e' emerso un possibile rischio cancro. Ora il team della Stanford University indica un'altra strada da battere, una tecnica che permette di trasformare una cellula adulta in un'altra bypassando del tutto lo stadio di pluripotenza.
La nuova ricerca di questa e'quipe, firmata da Marius Wering (autore senior) ed Ernesto Lujan (primo autore), e' un ulteriore passo avanti rispetto a precedenti esperimenti con cui gli stessi scienziati erano riusciti a trasformare cellule di pelle di topo in neuroni adulti. L'impresa era stata replicata partendo da cellule umane, e successivamente Wering e colleghi avevano ottenuto direttamente neuroni maturi anche da cellule di fegato. In quest'ultimo studio su 'Pnas', il gruppo e' andato oltre: le cellule di pelle non sono state trasformate in neuroni gia' differenziati, ma nei piu' versatili 'precursori neuronali indotti', che consentono di ottenere oltre che neuroni anche oligodendrociti e astrociti. Tutta 'materia prima' potenzialmente utile a riparare il cervello.
"Siamo entusiasti del possibile impiego medico di queste cellule", non nasconde Wering. Anche se, tiene a ribadire Lujan, "e' necessaria ancora molta ricerca prima di poterle impiantare nell'uomo".

Lo strano comportamento dell'ossigeno "sotto pressione".

Fonte: LeScienze.it
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Grazie a una simulazione al computer, è stato definito in 1,9 terapascal il limite di pressione dell'ossigeno, il cui comportamento all'aumentare di questo parametro ha sorpreso i ricercatori: la sua conducibilità elettrica, per esempio, al crescere della pressione, prima aumenta poi diminuisce, e infine aumenta ancora.
1,9 terapascal: a tanto ammonta la pressione, circa 19 milioni di volte superiore alla pressione atmosferica, che è stata determinata come limite per la stabilità della molecola di ossigeno in base a una simulazione al computer condotta presso l'Università della Ruhr a Bochum (RUB).
“Si tratta di un risultato molto sorprendente”, ha commentato Jian Sun, ricercatore del Dipartimento di chimica teorica della RUB, che ha partecipato allo studio, descritto sulle pagine di “Physical Review Letters”. “Altre semplici molecole come quelle di azoto o di idrogeno non sopravvivono a pressioni così elevate”.
Sempre secondo lo studio, reso possibile dalla collaborazione con lo University College di Londra e il National Research Council of Canada, il comportamento dell'ossigeno al crescere della pressione è assai complicato: la sua conducibilità elettrica, per esempio, prima aumenta poi diminuisce, e infine aumenta ancora. Gli atomi di ossigeno sono legati nella molecola di O2 mediante un doppio legame covalente; nel caso dell'azoto, invece, il legame è triplo.
“Si potrebbe pensare che il più debole doppio legame sia più facile da scindere rispetto a quello triplo e che l'ossigeno perciò polimerizzi a pressioni inferiori rispetto all'azoto”, ha spiegato Sun. “Ciò che abbiamo riscontrato è proprio l'opposto, il che è stupefacente a prima vista."
Nella fase condensata, tuttavia, i fattori che entrano in gioco sono un po' diversi: quando i valori della pressione aumentano, le molecole tendono a essere sempre più vicine le une alle altre. Secondo il modello ipotizzato dai ricercatori, le coppie solitarie di elettroni di differenti molecole si respingono fortemente le une con le altre, impedendo loro di avvicinarsi.
"Poiché l'ossigeno ha più coppie solitarie rispetto all'azoto, la forza repulsiva tra le molecole è più forte, il che rende la polimerizzazione più difficoltosa. Tuttavia, il numero di coppie solitarie non può essere il solo determinante della pressione di polimerizzazione: riteniamo che sia sia importante anche la forza dei legami tra gli atomi”.
In condizioni di pressioni elevatissime, i gas molecolari come idrogeno, monossido di carbonio, o azoto polimerizzano in catene, strati o strutture più complesse. Allo stesso tempo, spesso si trasformano da isolanti a metalli, ovvero aumentano la loro conducibilità con l'incremento della pressione. Quest'ultima ricerca mostra che nel caso dell'ossigeno le cose vanno diversamente: in condizioni standard, esso ha proprietà isolanti; quando la pressione aumenta, l'ossigeno si trasforma in un metallo e diviene un superconduttore. Con l'ulteriore incremento della pressione, la sua struttura cambia in un polimero e diviene un semiconduttore; ancora oltre l'ossigeno riassume proprietà metalliche e la conducibilità aumenta nuovamente. La struttura polimerica metallica si trasforma infine in una struttura metallica stratificata.

“La polimerizzazione delle piccole molecole in condizioni di alta pressione è stata oggetto di grande attenzione poiché consente di comprendere la fisica fondamentale e la chimica dei processi geologici e planetari”, ha spiegato Sun. “Per esempio, si stima che la pressione al centro di Giove sia di circa sette terapascal; si è anche scoperto che le molecole polarizzate, come N2 e CO2, hanno proprietà peculiari, come alte densità di energia e una elevatissima durezza”.

Il pettine di raggi ultravioletti.


In fisica ci sono molti campi di ricerca che richiedono di studiare la materia con una precisione sempre più alta. Per esempio, per calcolare il tempo in maniera davvero accurata, come serve quando si vuole stabilire la velocità e il tempo di volo dei neutrini, i fisici hanno bisogno di orologi atomici sempre più precisi. Potrebbe essere proprio questa una delle più importanti applicazioni del nuovo sistema di emissione di fotoni nell’ultravioletto creato dai ricercatori dell’Università del Colorado. Secondo gli scienziati, lo strumento, capace di emettere tante onde elettromagnetiche a distanze fisse l’una dall’altra, permetterà di analizzare e lavorare lo spettro di radiazione con ancor più attenzione. Lo studio che ne parla è stato pubblicato su Nature.
Si tratta, in sostanza, di una sorta di “pettine di raggi elettromagnetici" con denti equi-distanziati, ovvero una sequenza di impulsi di brevissima durata (meno di un picosecondo, un millesimo di miliardesimo di secondo, tutti alla stessa distanza). I fisici avevano già ottenuto uno strumento del genere in precedenza, ma fino ad ora non erano mai riusciti a far sì che il pettine emettesse nell’ultravioletto. Per ottenere questo risultato, i ricercatori hanno dovuto costruire una sorgente (una cavità ottica simile a quella di un normale laser) che amplificasse la radiazione al suo interno molto più di quanto non si verifichi in un normale laser o nei precedenti strumenti dello stesso tipo. L'obiettivo è stato raggiunto sfruttando le proprietà della risonanza armonica, un fenomeno che prevede che la radiazione elettromagnetica abbia solo frequenze multiple di una determinata frequenza fondamentale.
Lo strumento pensato dai ricercatori statunitensi potrebbe essere usato anche per confermare (o smentire) l’impalcatura su cui si basa il Modello Standard, la teoria che ad oggi si pensa descriva l’Universo. Per fare questo, bisogna dimostrare che un certo parametro - chiamato costante di struttura fine - che mette in relazione le principali grandezze fisiche dell'elettromagnetismo, sia effettivamente costante e non abbia subito variazioni nel corso del tempo.
Oltre a questa applicazione, che serve allo studio della fisica teorica, e a quella precedentemente accennata nella costruzione di orologi atomici ultrastabili, i potenziali usi del sistema sono numerosi. Potrebbe già oggi permetterebbe analisi spettroscopiche accurate a più lunghezze d’onda contemporaneamente, ma in futuro potrebbe essere usato per costruire telescopi o sistemi di accelerazione delle particelle sempre migliori.
Riferimento: doi: 10.1038/nature.10711; N&W
Creedit per l'immagine: Jun Ye (Università del Colorado)/Nature