sabato 22 ottobre 2022

Spazio e tempo come esperienza: perché la discontinuità?

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Il tentativo d'incominciare a vedere lo spazio e il tempo in modo nuovo, non è un compito facile. È estremamente difficile immaginare un tempo statico, un tempo che non scorre. Non è facile afferrare il tempo dello spazio-tempo, il continuum in cui gli eventi non accadono ma, semplicemente, sono. Ci sentiamo frustrati quando cerchiamo di fare l'esperienza dell'affermazione della fisica moderna, secondo la quale lo spazio e il tempo sono accoppiati; non possiamo fare l'esperienza dell'uno senza fare l'esperienza dell'altro, e non possiamo conoscere lo spazio e il tempo singolarmente. È così ovvio che noi ne facciamo l'esperienza singolarmente!
Sorge così un paradosso: se il tempo e lo spazio sono veramente uniti esperienzialmente, perché abbiamo la sensazione persistente del tempo che fluisce senza avere una simile sensazione dello spazio che fluisce? Abbiamo, dei due, sensazioni chiaramente dissimili. Il tempo fluisce esperienzialmente, ma vediamo lo spazio localizzato e statico. Non esiste, semplicemente, un senso psicologico di uno spazio che fluisce. Lo spazio resta fermo; il tempo no. Se queste qualità della natura sono veramente unite come ci assicura la fisica moderna, allora perché sono qualitativamente così dissociate nella nostra esperienza? Forse le nostre sensazioni dello spazio e del tempo differiscono in qualità per una buona ragione, una ragione che, nel linguaggio della biologia evolutiva, è la migliore di tutte: la sopravvivenza. È probabile che nella storia della nostra evoluzione noi abbiamo sviluppato modi di giudicare lo spazio e il tempo che hanno contribuito alla nostra sopravvivenza. 
Forse nel corso della nostra evoluzione noi abbiamo sviluppato molti modi di sentire e di giudicare lo spazio e il tempo. Quali sarebbero sopravvissuti fino ad oggi? I modi che favorivano la sopravvivenza dell'organismo individuale attraverso la perpetuazione, per mezzo della procreazione, del suo corredo genetico. Questi tipi di percezione sensoriale sono risultati più durevoli per la semplice ragione che avevano maggior valore per la sopravvivenza. E se un modo particolare di giudicare lo spazio e di giudicare il tempo aiutava un organismo a sopravvivere e a procreare, questo metodo di giudicare lo spazio e il tempo è sopravvissuto insieme all'organismo, impresso nel suo programma genetico. Erano abilità pro-sopravvivenza, preziose come un occhio o un orecchio, o la capacità di volare o di correre velocemente. Davano un vantaggio nella lotta per la sopravvivenza.
Consideriamo che un'esperienza psicologica risultante dalla sensazione del tempo che scorre sia il senso dell'urgenza... il tempo si muove, le cose sono imminenti, sta per accadere qualcosa. In un tempo che scorre noi anticipiamo l'accadere degli eventi. In questo flusso di eventi io agisco per garantirmi la sopravvivenza, mi comporto in certi modi per restare vivo. Un senso d'urgenza promuove la preparazione... per cacciare, per raccogliere, per piantare e per sfuggire a eventuali predatori. La possibilità di uccidere questo bisonte per mangiare e dunque per sopravvivere passerà se non agisco ora; se non fuggo in questo preciso istante, sarò il pasto di un leone affamato. Sembra quindi verosimile che la sopravvivenza fisica dei nostri antenati fosse favorita da un senso dello scorrere del tempo e dell'urgenza (anche se il tempo, incluso nella cultura, nel mito e nelle tradizioni dei primitivi non ha durata in natura). Non è chiaro che una sensazione del tempo singolarmente statica avrebbe potuto presentare per la sopravvivenza un vantaggio altrettanto grande. 
È possibile che anche la sensazione di uno spazio statico abbia favorito la sopravvivenza. Uno spazio statico, immobile, offriva lo sfondo per agire. Anzi, ci è difficile immaginare lo spazio in qualunque altro modo. Se percepissimo lo spazio in un modo in cui sembri fluire e non sia statico, il risultato sarebbe un grande caos! Un fatto che appare evidente a chiunque soffra di vertigini; per una tale persona lo spazio si rifiuta di stare fermo e ruota continuamente. Uno spazio sempre in movimento sarebbe stato sicuramente pericoloso per i nostri predecessori come lo è per noi, perché in esso è difficile agire con precisione e sicurezza. La sopravvivenza sembra quasi impossibile in un mondo in continuo movimento.
Quindi, se noi dovessimo designare un tipo di percezione temporale e spaziale per i nostri antenati, con lo scopo di aiutarli nell'ascesa evolutiva, probabilmente avremmo scelto quello che è pervenuto sino a noi: la percezione di un tempo fluente e di uno spazio statico. Vista in un contesto evolutivo, la nostra lotta/difficoltà nell'apprendere ciò che significa la moderna definizione fisica dello spazio-tempo, può rispecchiare la nostra eredità biologica. La nostra visione dello spazio e del tempo non è questione d'intelligenza, di capire le cose. Se avessimo percepito lo spazio e il tempo in modo diverso da quello in cui li percepiamo, probabilmente non saremmo sopravvissuti come specie. 
Il nostro modo di fare l'esperienza dello spazio e del tempo, quindi, ha verosimilmente facilitato la nostra ascesa evolutiva. Forse dobbiamo ad esso la nostra stessa esistenza. Ma questa modalità di percezione non garantisce che percepiamo esattamente il mondo intorno a noi. Non abbiamo la certezza di percepire "correttamente" lo spazio e il tempo, ma solo in modo "naturale"; ovvero, la nostra percezione rispecchia la nostra natura! Quando lottiamo per comprendere le stranezze dei nuovi concetti dello spazio-tempo stabiliti dalla fisica moderna, dobbiamo considerare che è nella nostra natura non riuscire a comprenderli! Qualcosa, dentro di noi, resiste a queste nuove idee.
Una reazione comune tra coloro che incontrano per la prima volta la definizione di spazio-tempo imposta dalla fisica moderna, è quella di "sentirsi sconfitti". "Non sono abbastanza intelligente per capire; questi sono concetti che possono comprendere solo i fisici e i matematici". Questa sensazione, che è quasi istintiva, senza dubbio non è appropriata,  perché ancora non vi è la prova che la capacità di concettualizzare l'idea moderna dello spazio-tempo, abbia a che fare con l'intelligenza! Queste idee sono radicate nella parte non razionale ed intuitiva del nostro essere più saldamente che nel nostro io verbale e razionale. Anzi, l'intellettualizzazione può essere un impedimento a comprendere lo spazio-tempo, tanto queste idee sono lontane dal senso comune e dalla logica. 
Questo è un punto cruciale. Vi sono coloro che respingono le moderne idee fisiche dello spazio-tempo in base all'assunto che possano essere comprese soltanto e unicamente dagli scienziati. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. La quintessenza di queste idee è antica. Le espressioni centrali della Relatività Ristretta erano state elaborate descrittivamente nelle culture orientali millenni prima delle scoperte di Einstein. Intere culture, vivono in tranquillità ed efficienza con l'idea di un tempo che non fluisce. Forse, senza eccezione, le culture che hanno abbracciato più facilmente queste idee lo hanno fatto affidandosi non alla matematica, ma all'intuizione e ai modi non razionali del pensiero.
La moderna nozione dello spazio-tempo non è necessariamente velata dall'indecifrabile gergo della matematica e della fisica. Il linguaggio della scienza non è necessario per apprezzare il significato essenziale delle nuove definizioni dello spazio e del tempo. Non soltanto ciò è evidente in base alla documentazione culturale, bensì è evidente dalle stesse affermazioni di Einstein, il quale dichiarava di essere stato condotto inizialmente alle sue descrizioni non solo ed esclusivamente dal ragionamento logico, bensì da una certezza interiore della bellezza e dell'armonia che stanno nel cuore delle sue teorie. Einstein descriveva l'intuizione, non il ragionamento lineare. È questa qualità della mente che ha permesso a intere culture di comprendere lo spazio-tempo, prima dell'era moderna.

Bibliografia:
- "Spazio, tempo e medicina", di Larry Dossey, ed. mediterranee, Roma, 1983. 

venerdì 16 settembre 2022

Bere con Socrate... con la potenza dei grandi numeri!

 

Esiste una vecchia stima di due numeri molto grandi che conduce a una conclusione capace di stupire persino chi è abituato alle sorprese della probabilità. Secondo voi, se si riempie un bicchiere di acqua di mare, quante delle molecole da cui è composta l'acqua nel bicchiere saranno state usate da Socrate, da Aristotele o dal suo allievo Alessandro Magno per sciacquarsi la bocca? In realtà, come vedremo, non importa quale bocca illustre scegliamo. Lì per lì si potrebbe pensare che la risposta sia zero: non vi è la benché minima probabilità che riutilizziamo anche solo uno degli atomi di quegli illustri personaggi, immagino direte. Ma, ahimè, vi sbagliate di grosso. La massa totale di acqua degli oceani terrestri è 10^18 tonnellate, che equivale a 10^24 grammi. Poiché una molecola di acqua ha una massa di circa 3 x 10^-23 grammi, ci sono circa 3 x 10^46 molecole di acqua negli oceani. Ignoriamo pure gli altri componenti dell'acqua marina, come i sali. Vedremo che queste semplificazioni e le cifre tonde che stiamo usando sono giustificate dai numeri molto grandi coinvolti nell'operazione.
Chiediamoci dunque quante molecole ci sono in un bicchiere di acqua. Un tipico bicchiere pieno d'acqua ha una massa di 250 grammi, quindi contiene approssimativamente 8,3 x 10^24 molecole. Vediamo pertanto che gli oceani contengono approssimativamente (3 x 10^46)/(8,3 x 10^24) = 3,6 x 10^21 bicchieri di acqua; molto meno del numero di molecole presenti in un bicchiere di acqua. Ciò significa che, se gli oceani fossero completamente rimescolati e oggi riempissimo con la loro acqua un bicchiere a caso, potremmo aspettarci che contenga approssimativamente (8,3 x 10^24)/(3,6 x 10^21) = 2300 delle molecole con cui Socrate soleva sciacquarsi la bocca nel 400 a.C. Fatto ancora più incredibile, è probabile che ognuno di noi sia composto da un considerevole numero degli atomi e delle molecole di cui era composto il corpo di Socrate. Tale è la potenza durevole dei grandi numeri.

domenica 4 settembre 2022

Un diamante è per sempre... con il taglio ottimale.

 


I diamanti sono pezzi di carbonio davvero straordinari. Sono il materiale più duro che si trovi in natura, eppure le loro proprietà più fulgide sono quelle ottiche, date dall'elevato indice di rifrazione di 2,4, molto maggiore di quello dell'acqua (1,3) o del vetro (1,5). Ciò significa che i raggi luminosi sono deviati (o "rifratti") di un angolo molto grande quando passano attraverso il diamante. Particolare ancora più importante, la luce che colpisce il diamante superando l'angolo critico di soli 24° rispetto alla verticale alla superficie, verrà completamente riflessa e non passerà affatto attraverso la gemma. Per la luce che viaggia dall'aria all'acqua, l'angolo limite oltre il quale essa non attraversa più il mezzo è di 48° rispetto alla verticale, nel vetro di circa 42°.
I diamanti si comportano in maniera estrema anche per quanto riguarda lo spettro ottico. Come chiarì per la prima volta Isaac Newton con i suoi famosi esperimenti con il prisma, la comune luce bianca è in realtà composta da uno spettro di onde luminose rosse, arancioni, gialle, verdi, blu, indaco e violetto, che viaggiano a velocità diversa (le rosse sono le più lente, le viola le più veloci) attraverso il diamante e sono rifratte secondo angoli diversi quando la luce bianca passa attraverso un mezzo trasparente. Nei diamanti vi è grande differenza tra la maggiore e minore rifrazione dei colori: è definita "dispersione" ed è responsabile dello straordinario "fuoco" di colori cangianti che si verifica quando i raggi luminosi passano attraverso un diamante tagliato a brillante. Nessun'altra gemma ha un tale potere di dispersione. Il difficile, per l'intagliatore, è tagliare il diamante in maniera che emani i raggi più belli e colorati possibile quando riflette la luce davanti all'occhio dell'osservatore.
I diamanti vengono lavorati da migliaia di anni, ma un uomo in particolare ha contribuito a farci capire quale sia il modo migliore di tagliarli, e la sua ragion d'essere. Marcel Tolkowsky nacque ad Anversa nel 1899 da un'influente famiglia di intagliatori e mercanti di diamanti. Era un ragazzo molto intelligente e, dopo essersi diplomato in Belgio, fu mandato all'Imperial College di Londra a studiare ingegneria. Nel 1919, mentre era ancora all'università, pubblicò un libro notevole intitolato "Diamond Design", che dimostrava per la prima volta come lo studio della riflessione e della rifrazione della luce all'interno del diamante, consentisse di capire come esso andasse tagliato e di ottenere quindi la massima lucentezza e il massimo "fuoco". L'elegante analisi fatta da Tolkowsky della traiettoria seguita dai raggi luminosi all'interno del diamante lo indusse a proporre un nuovo tipo di taglio: il taglio "a brillante" o "ideale"; che è ormai il preferito per i diamanti rotondi. Egli studiò le traiettorie dei raggi che colpivano la superficie superiore piana della pietra e calcolò secondo quale angolo dovesse essere inclinata la parte inferiore rispetto a tali traiettorie, per riflettere completamente la luce alla prima e alla seconda riflessione interna. Se la parte inferiore fosse stata inclinata in un certo modo, quasi tutta la luce sarebbe ritornata direttamente nel punto di incidenza della faccia superiore, producendo la maggiore lucentezza possibile.


Tolkowsky rifletté poi sull'equilibrio ottimale tra lucentezza riflessa e dispersione della luce, e sulle migliori forme per le varie facce. La sua analisi, che si avvaleva della semplice matematica dei raggi luminosi, portò alla ricetta per il bel "taglio a brillante" dalle cinquantotto faccette: una serie di proporzioni e angoli specifici nella gamma necessaria a produrre i più spettacolari effetti visivi quando la pietra viene mossa leggermente davanti agli occhi dell'osservatore. Ma, come si evince dalla figura sottostante, nella "ricetta" c'é più geometria di quanto non appaia a prima vista:


La figura mostra la classica forma che raccomandava Tolkowsky per il taglio ideale, i cui angoli vengono scelti nella ristretta gamma che ottimizza il "fuoco" e la lucentezza. Le proporzioni che riguardano specifiche parti del diamante (con i relativi nomi) sono espresse come percentuali del diametro della cintura, che è quello massimo. 

Bibliografia:
- John D. Barrow, "100 cose che non sapevi di non sapere sulla matematica e le arti", Mondadori, Milano, 2016 (pp.64-66).