sabato 31 ottobre 2020

Sars-Cov-2: virus apparentemente più aggressivo nelle sue nuove varianti.

 

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Sono cinque le varianti del nuovo coronavirus identificate in Italia. Per definirle mutazioni vere e proprie servono più dati statistici, ma al momento si può dire che non solo il virus non è affatto meno aggressivo di quanto lo fosse all'inizio dell'anno, ma che grazie alle nuove varianti riesce a replicarsi in modo più efficace. E' quanto emerge dai dati finora a disposizione della Task force coronavirus attiva presso il centro di biotecnologie avanzate Ceinge di Napoli, finanziato dalla Regione Campania.

"Dai dati finora a nostra disposizione, basati su 246 genomi sequenziati da pazienti con Covid-19, emerge che esistono cinque varianti di virus", ha detto all'ANSA il genetista Massimo Zollo, dell'Università Federico II di Napoli, responsabile scientifico della task force Covid attiva presso il centro di biotecnologie avanzate Ceinge e finanziata dalla Regione Campania.

"Sappiamo che le varianti, identificate con le sigle 19A, 19B, 20A, 20B e 20C, sono presenti in tutta Italia, ma adesso si tratta di capire quale sia la loro incidenza nelle regioni". Dopo il lockdown, le più frequenti risultano essere 20A e 20 B. Molte sequenze sono state finora prodotte in Lombardia, ed è emerso che in Campania le varianti 20A e 20B sono presenti nella stessa quantità . Stanno arrivando dati anche da Abruzzo, Lazio e Puglia, ma per capire se le cinque varianti stanno circolando in tutta Italia c'è ancora molto lavoro da fare: "Dobbiamo continuare a tipizzare il virus in tutto il Paese, per capire se ci sono realtà particolari a livello regionale, oppure se è una tendenza che sta avvenendo in tutta Italia", ha detto Zollo. Questo trend è presente anche in Europa, in Paesi quali Spagna, Germania, e Regno Unito, con prevalenza di alcune varianti verso altre.

Di sicuro, ha osservato l'esperto, "il virus SarsCoV2 è cattivo come lo era nel marzo scorso, e le nuove varianti sembrerebbero renderlo ancora più aggressivo. Sono mutazioni distribuite in tutto il genoma, ma al momento si nota che le mutazioni non incidono nell'interazione fra la proteina Spike e il recettore Ace", ossia fra la proteina che e' il principale grimaldello con cui il virus riesce a penetrare nelle cellule e il recettore che costituisce la serratura molecolare utilizzata dalla proteina.

"Quello che al momento è possibile dire -, secondo Zollo -, è che da un punto di vista statistico, più aumenta il numero delle persone con l'infezione, più sono probabili nuove mutazioni: al momento è solo una probabilità statistica".

Si stanno osservando intanto anche altre mutazioni, come quella del gene Orf 3A, che regola la risposta infiammatoria nelle cellule, e quelle dei geni Nsp2 e Nsp6 (proteine non strutturali del virus) in Orf1a: la prima favorisce il metabolismo cellulare con la funzionalità del virus nelle cellule; la seconda favorisce la formazione delle vescicole che il virus utilizza per replicarsi.

"Tutto questo però non è sufficiente per dire che il virus SarsCoV2 è mutato", ha detto Zollo. "Al momento vediamo differenze tra le sequenze del virus in 5 isotipi, ma per arrivare a delle conclusioni è indispensabile avere più sequenze. Fino ad allora - ha concluso - non si può escludere che possano essere solo delle varianti, magari frutto di importazioni da altri Paesi".

giovedì 29 ottobre 2020

Il nostro genoma a portata di mano su smartphone entro il 2030.

 

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Entro il 2030 potremo avere il nostro genoma a portata di mano sullo smartphone, insieme a tutte le informazioni utili per interpretarlo in relazione alla nostra salute: è questa la più affascinante delle dieci 'previsioni ardite' che gli esperti dell'Istituto americano per la ricerca sul genoma umano (Nhgri) fanno su Nature, nel documento con cui delineano la nuova visione strategica dell'ente e le priorità che guideranno la ricerca nel campo della genomica nel prossimo decennio.

L'annuncio arriva a 30 anni dal lancio del grande progetto sul genoma umano, che nel 2003 ha portato alla mappatura completa del nostro Dna. Da allora la ricerca in questo settore ha fatto passi da gigante, rivoluzionando il campo biomedico. Una grande spinta è arrivata dall'evoluzione tecnologica e dall'abbattimento dei costi del sequenziamento del Dna, che ha portato questa tecnica alla portata di molti laboratori dando impulso alla ricerca su cancro, virus e batteri, malattie genetiche e tanto altro.

"Molti dei traguardi più importanti raggiunti dalla genomica, se visti in retrospettiva, erano inimmaginabili appena dieci anni prima", sottolineano gli esperti statunitensi. Partendo da questa considerazione, nel loro nuovo piano strategico provano a ipotizzare dieci traguardi ambiziosi che potrebbero essere raggiunti entro il 2030: tra questi, la possibilità di conoscere la funzione biologica di ogni gene del nostro Dna e quella di eseguire i test genetici di routine, proprio come gli esami del sangue che oggi si possono fare in ospedale e nei laboratori d'analisi sotto casa.

martedì 27 ottobre 2020

Costruita la prima lingua sintetica: Permette di sperimentare le proprietà di nuovi cibi e farmaci.

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Costruita la prima lingua sintetica. Stampata in 3D, diventa un laboratorio che permette di sperimentare le proprietà di nuovi cibi e farmaci. Il risultato è pubblicato sulla rivista ACS Applied Materials & Interfaces e si deve al gruppo dell'università britannica di Leeds. guidato da Efren Andablo-Reyes.

Per il primo autore della ricerca, Anwesha Sarkar, dell'università di Leeds, "mappare e replicare accuratamente la superficie della lingua e costruirla con un materiale che si avvicina all'elasticità della lingua umana non è stato un compito da poco. Abbiamo dimostrato la capacità senza precedenti di una superficie in silicone stampata in 3D di imitare le prestazioni meccaniche della lingua umana".

I ricercatori hanno utilizzato la stampa 3D per riprodurre, in un disco di silicone, la superficie molto complessa della lingua umana. Hanno ottenuto così una struttura che imita bene le caratteristiche della lingua, a partire dall'elasticità, e che sono fondamentali per riprodurre con precisione il modo in cui il cibo e la saliva interagiscono con la lingua, che a sua volta può influenzare la deglutizione, la parola, l'apporto nutrizionale.

La complessità della superficie della lingua aveva finora reso davvero una sfida alla possibilità di ottenere una versione sintetica di quest'organo. L'obiettivo sarebbe stato ottenere una sorta di laboratorio per sperimentare terapie, come quella per la sindrome della bocca secca, un disturbo che interessa il 10% della popolazione generale e il 30% degli anziani.

Un compito difficile, ha osservato Andablo-Reyes, perchè "riprodurre la superficie della lingua umana comporta sfide uniche: centinaia di piccole strutture simili a boccioli, le papille, conferiscono alla lingua la sua caratteristica consistenza ruvida che, in combinazione con la natura morbida del tessuto, crea una struttura complicata da una prospettiva meccanica".

Per replicare le caratteristiche della lingua umana, i ricercatori hanno preso le impronte della superficie della lingua da quindici adulti. Successivamente le impronte sono state scansionate in 3D per ottenere le dimensioni delle papille, e per ottenere una mappa della densità e rugosità media della lingua. Grazie a questi dati è stato ottenuto il modello utilizzato per programmare la stampa 3D.

lunedì 26 ottobre 2020

Svelata la cronologia della prima evoluzione eucariotica.

 

Fonte: Phys.org
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Analizzando duplicati di migliaia di geni, i ricercatori hanno ricostruito gli eventi evolutivi che hanno portato alla creazione di cellule eucariotiche, i precursori di praticamente tutta la vita che è possibile vedere ad occhio nudo. La sequenza temporale evolutiva dalle cellule batteriche semplici alle cellule eucariotiche complesse è progredita in modo diverso, rispetto a quanto si pensava in precedenza. Lo studio, una collaborazione tra il laboratorio di genomica comparativa dell'IRB di Barcellona e l'Università di Utrecht, è stato pubblicato su Nature Ecology & Evolution .
Uno degli eventi più importanti e sconcertanti nell'evoluzione della vita è stata l'origine delle prime  Quasi tutte le forme di vita che possiamo percepire ad occhio nudo, come alghe, piante, animali e funghi, sono costituite da cellule complesse note come 'eucarioti ". Uno studio collaborativo tra i gruppi di Toni Gabaldón, ricercatore presso l'Istituto di ricerca in Biomedicina di Barcellona (IRB Barcelona) e il Barcelona Supercomputing Center (BSC-CNS), e Berend Snel presso l'Università di Utrecht, ha concluso che la prima cellula a incorporare un mitocondrio (considerato il passo chiave per la maggiore complessità delle cellule eucariotiche),presenta già complessità simili all'eucariota nella struttura e nelle funzioni. Questo scenario funge da ponte tra i segni di complessità osservati in alcuni genomi archeologici e il ruolo proposto dei mitocondri nell'innesco dell'eucariogenesi.

"L'acquisizione dei mitocondri è stata considerata il primo passo cruciale o l'ultimo passo nello sviluppo della complessità delle cellule eucariotiche", spiega Gabaldón. "I nostri risultati mostrano che è stato davvero un evento cruciale, ma che è accaduto in uno scenario in cui la complessità delle cellule era già aumentata".

Per circa la prima metà della storia della vita sulla Terra, le uniche forme di vita erano le cellule relativamente semplici dei batteri. "Le cellule eucariotiche sono più grandi, contengono più DNA e sono costituite da compartimenti, ciascuno con il proprio compito", spiega il primo autore Julian Vosseberg. "In questo senso, è possibile paragonare le cellule batteriche ad una tenda, mentre le cellule eucariotiche sono più simili a case con diverse stanze".

Come e quando gli organismi hanno scambiato la tenda per una casa è ancora un mistero, poiché non esistono forme intermedie. Un momento importante nell'evoluzione fu l'origine dei mitocondri, un componente delle cellule eucariotiche che funzionano come le loro 'centrali elettriche' ". I mitocondri in un passato assai remoto erano dei batteri che vivevano liberamente, ma nel corso dell'evoluzione, sono stati assorbiti dagli antenati delle cellule eucariotiche odierne. La replicazione genetica ha probabilmente guidato l'aumento della complessità cellulare e i ricercatori hanno tentato di ricostruire gli eventi evolutivi sulla base di questi cambiamenti genetici. 

"Possiamo usare il DNA delle specie contemporanee per ricostruire eventi evolutivi. I nostri geni si sono formati nel corso di eoni di evoluzione. Sono cambiati radicalmente in quel periodo, ma conservano ancora echi di un lontano passato". Vosseberg aggiunge: "Abbiamo una grande quantità di materiale genetico disponibile, da una varietà di organismi, e possiamo usare i computer per ricostruire l'evoluzione di migliaia di geni, comprese le antiche duplicazioni di molti geni. Queste ricostruzioni ci hanno permesso di scoprire i tempi di importanti passaggi intermedi. "

L'autore co-corrispondente, Berend Snel, dell'Università di Utrecht, dice: "Gli scienziati non avevano una sequenza temporale di questi eventi. Ma ora siamo riusciti a ricostruire una sequenza temporale approssimativa". Per raggiungere questo obiettivo, i ricercatori hanno adattato un metodo esistente sviluppato nel laboratorio di Gabaldon per creare un nuovo protocollo, che ha portato a nuove intuizioni. Queste indicano che molti complessi meccanismi cellulari si erano evoluti anche prima della simbiosi con i mitocondri, compreso lo sviluppo del trasporto all'interno della cellula e del citoscheletro. "La simbiosi non era un evento che serviva da catalizzatore per tutto il resto. Abbiamo osservato un picco nelle duplicazioni geniche molto lontano nel tempo; il quale indica che la complessità cellulare era già aumentata prima di quel momento", dice Snel.

"Il nostro studio suggerisce che l'ospite ancestrale che ha acquisito l'endosimbionte[1] mitocondriale aveva già sviluppato una certa complessità in termini di citoscheletro dinamico e traffico di membrana", dice Gabaldón. "Questo potrebbe aver favorito la creazione di associazioni simbiotiche con altri microrganismi, compreso l'antenato mitocondriale, che alla fine si è integrato".

Note: 

[1] L'endosimbiosi (dal greco: ἔνδον = dentro; συν = insieme; βιος = vita) è una particolare forma di simbiosi nella quale un organismo (di solito unicellulare) vive all'interno di un altro organismo, con le caratteristiche di mutuo beneficio che distinguono la simbiosi dal parassitismo e dal commensalismo. (Fonte: Wikipedia)

Una "Stele di Rosetta genomica", per scoprire le regole della regolazione genica.

 

Fonte: Phys.org
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Già nel 1975, i biologi scoprirono che le parti che codificano le proteine ​​dello scimpanzé e dei genomi umani sono identiche per oltre il 99%. Tuttavia, gli scimpanzé e gli esseri umani sono chiaramente diversi in modo significativo. Perché?

La risposta sta nel fatto che il modo in cui viene utilizzato il DNA è importante quanto ciò che dice. Cioè, i geni che compongono un  non vengono sempre utilizzati; possono essere attivati ​​o disattivati ​​​​nel tempo e interagiscono tra loro in modi complessi. Alcuni geni codificano istruzioni per produrre proteine ​​specifiche e altri codificano informazioni sulla regolazione di altri geni.

Ora, i ricercatori del laboratorio di Rob Phillips, ovvero, i professori di biologia e biofisica, Fred e Nancy Morris, hanno sviluppato un nuovo strumento per determinare come sono regolati i vari geni del comune batterio Escherichia coli. Sebbene l'E. Coli sia stato utilizzato come  in biologia e bioingegneria per decenni, i ricercatori comprendono il comportamento regolatorio di solo il 35% circa dei suoi geni. Il nuovo metodo del laboratorio Phillips, fa luce su come quasi 100 geni precedentemente non caratterizzati, siano regolati e pone le basi per studiarne molti altri. Un documento che descrive la nuova tecnica è recentemente apparso sulla rivista eLife .

Immaginiamo di poter leggere l'alfabeto e la punteggiatura di una nuova lingua, ma di non riuscire a capire cosa significano le singole parole o nessuna delle regole grammaticali. Potresti leggere un libro e riconoscere ogni lettera che leggi senza avere alcuna comprensione di ciò che descrive una frase o un paragrafo. Ciò è analogo alla sfida affrontata dai biologi nell'era genomica moderna: il sequenziamento del genoma di un organismo è ora rapido e semplice, ma in realtà capire come ogni gene è regolato è molto più difficile. La comprensione della regolazione genica è la chiave per comprendere la salute e la malattia ed è importante se un giorno dobbiamo riutilizzare le cellule in modo che possano fare le cose per le quali le abbiamo progettate.

"Abbiamo sviluppato uno strumento generale che i ricercatori potrebbero utilizzare su quasi tutti gli organismi microbici", afferma Rob Phillips. "Il nostro sogno è che qualcuno come Victoria Orphan [James Irvine Professor of Environmental Science and Geobiology] possa scendere sul fondo dell'oceano e tornare con un batterio mai visto prima, e noi potremmo usare il nostro strumento su di esso per determinare non solo la sequenza del suo genoma ma soprattutto come è regolato ".

Nel nuovo metodo, i ricercatori apportano perturbazioni sistematiche al genoma e vedono cosa succede. In sostanza, l'equivalente di errori tipografici viene fatto nel genoma e si osserva l'impatto di tali errori di battitura sulla funzione cellulare. Ad esempio, se sostituisci la lettera "k" nella parola "walk" con la lettera "x" per cambiarla in "walx", l'intento della parola originale è ancora abbastanza chiaro. Questo non è il caso se si scambia la lettera "w" con una "t" per produrre "talk". Ciò suggerisce che la  "w" trasporta importanti informazioni sul significato della parola originale. Allo stesso modo, apportare modifiche a un genoma utilizzando l'alfabeto del DNA consente ai ricercatori di capire quali lettere sono più importanti per il "significato" corretto.

Per convalidare il loro metodo, Phillips e colleghi hanno prima esaminato 20 particolari geni di E. coli che i ricercatori sapevano già come attivare e disattivare (il loro metodo ha caratterizzato correttamente questi 20 geni). Successivamente, il team è passato ad altri 80  meno conosciuti per capire anche come funzionano. Per ora, il metodo è stato utilizzato solo su  , ma alla fine Phillips prevede di poter esaminare anche le cellule eucariotiche (come le cellule umane), che sono più complesse, con una versione modificata del metodo. 

sabato 24 ottobre 2020

Serendipità: quando ciò che scopriamo "casualmente", é molto più sorprendente di ciò che stavamo volutamente cercando.

 


Il cuore dell'evoluzione? Condivisione e altruismo.

 

Fonte: L'Espresso
(Un articolo di Giovanni Sabato)
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Polemiche e discussioni fin dai tempi di Darwin. Altruismo e condivisione: sono il cuore dell’evoluzione di Homo sapiens? Decisamente sì: senza la cooperazione, la capacità di fare qualcosa a beneficio degli altri, le società animali non esisterebbero. E la nostra non è un’eccezione: dai gesti individuali sporadici alle società fondate proprio sulla cooperazione, l’altruismo è onnipresente in natura.
Eppure, la vulgata vorrebbe proprio il contrario: nella lotta evolutiva gli egoisti dovrebbero sopraffare gli altruisti, che, dilapidando le proprie risorse, finiscono con l’estinguersi. Ci siamo allora messi anche noi a caccia di una risposta a questo dilemma che, dicevamo, spacca gli addetti ai lavori da Charles Darwin in poi. E siamo andati a chiedere risposte a un luminare doc: David Sloan Wilson, eminente evoluzionista della Università di Binghamton - vicino a New York - autore di decine di pubblicazioni e di libri specialistici, che oggi ha deciso di presentare le sue tesi al grande pubblico in “L’altruismo. La cultura, la genetica e il benessere degli altri” (appena pubblicato da Bollati Boringhieri). E che, di fronte a un dibattito che pare non avere fine, ci rassicura: «La risposta è molto più semplice di quanto non sembri». Ovvero? Serve un passo indietro.
Per oltre un secolo gli evoluzionisti hanno negato che l’altruismo esista: comportamenti all’apparenza altruisti sembravano in realtà avere motivazioni egoistiche. Se aiuto un familiare, sto solo aiutando la propagazione dei miei stessi geni, i veri motori dell’evoluzione nell’ottica del “Gene egoista” che ha reso famoso il biologo inglese Richard Dawkins alla fine degli anni Settanta del secolo scorso. Se aiuto un estraneo è perché mi aspetto un contraccambio. E così via.
Questi meccanismi però, obiettano da allora decine di studiosi, spiegano solo frammenti del variegato panorama dell’altruismo umano e animale. Perché, nei fatti, sia noi umani, sia i cugini primati che un numero infinito di altre specie che popolano il pianeta egoisti proprio non lo sono. Perché? Una risposta esauriente va cercata sempre in prospettiva evoluzionistica, è vero, ma per centrare il bersaglio bisogna allargare lo sguardo. Solo così si pongono le domande giuste, e si possono accantonare ipotesi e quesiti su cui si è affaccendata molta riflessione accademica e filosofica, che sono in realtà marginali.
A partire dalla domanda principe: cosa ci fa fare quello che facciamo? «Posso scegliere un gesto altruista perché lo trovo giusto, per guadagnarmi il paradiso, per la mia reputazione e per mille altre ragioni. Ma posso anche dire che tanti animali del deserto assumono il colore della sabbia, chi con un pigmento nel pelo, chi con un particolare tegumento e così via; e che, a prescindere da come accada, quel che conta è che li mimetizzi bene, aumentando le loro chance di riprodursi», spiega Wilson.
Così tutto l’interrogarsi sulle ragioni del comportamento umano e animale, il cercare di distinguere il vero altruismo dal falso, è fuorviante: il punto cruciale è capire come l’altruismo aiuta a lasciare più figli e più geni nella generazione successiva. Che è la vera cifra del successo evolutivo. Per il quale scivola in secondo piano anche il grado di sacrificio richiesto: perdere due minuti per rispondere a un passante, o la vita per spegnere un incendio, sono gesti diversi nella misura, ma non nella natura di fondo: entrambi comportano un costo a vantaggio di un’altra persona.

L’altruismo, insomma, non riguarda pensieri ed emozioni, ma azioni. E l’altruismo, nelle azioni che comporta, secondo Wilson, scaturisce dalla competizione fra i gruppi. Quindi, secondo lo studioso americano è sbagliato pensare all’evoluzione come a una competizione fra i geni o fra individui, ma bisogna estenderla a tutti i livelli: geni, cellule e gruppi in cui le varie parti lavorano insieme per una meta comune. E, spiega Wilson: quando diversi gruppi con distinte organizzazioni competono fra loro, quelli con più altruisti funzionano meglio e prosperano di più.
È per questo che l’altruismo ha una chance: se la competizione fra i gruppi diviene più importante di quella interna a ciascun gruppo, e si afferma come forza evolutiva dominante, gli altruisti aumentano, nonostante entro ogni gruppo siano favoriti gli egoisti. «All’interno di un gruppo l’egoismo batte l’altruismo. Ma i gruppi altruisti battono i gruppi egoisti. Tutto il resto è commento», sintetizza Wilson.

Per quanto convincente ed entusiasmante possa sembrare, tuttavia, l’idea di Wilson, va detto, è assai controversa. Molti biologi restano profondamente scettici su quanto siano i gruppi a guidare l’evoluzione più che gli individui. E gli scienziati litigano senza pietà non risparmiandosi accuse. D’altra parte, perché sorprendersi? In ballo c’è l’identità stessa della specie: il nostro cammino nel mondo è guidato dai geni egoisti o dallo slancio comunitario che ci ha resi quel che siamo?
Wilson, tira in ballo mille creature del mondo animale: virus, insetti acquatici... E poi traccia diagrammi e flussi. Per argomentare con chiarezza le sue posizioni. «È una di quelle idee, come la visione copernicana del cosmo, che suscitano enormi resistenze. Ma poi, in retrospettiva, appaiono talmente ovvie che ci si chiede come mai ci sia voluto tanto ad arrivarci», osserva.

La selezione naturale che guida l’evoluzione dei gruppi è un fattore così dominante, che il gruppo, organizzato e coeso, si comporta come un singolo organismo. Guardiamo alla storia della vita: così sono nate le nostre cellule, gli organismi pluricellulari, le colonie di insetti sociali come api e formiche che formano più di metà della biomassa di insetti del pianeta. E così hanno preso forma le società umane, che hanno molti tratti del superorganismo.
Naturalmente le nostre comunità non sono alveari e la lotta evolutiva si gioca su altri terreni. Le sue regole, spiega Wilson, sono quelle delineate da Elinor Ostrom, la prima donna ad avere vinto un Premio Nobel per l’economia (nel 2009). Cosa c’entra un Nobel per l’economia con le leggi dell’evoluzione? «All’inizio della mia carriera in economia dominava l’idea che “avido è bello”», ha spiegato la studiosa. «Siamo tutti Homo economicus, si sosteneva, atomi che devono pensare solo al proprio tornaconto personale, e la mano invisibile del mercato farà sì che, come per magia, ciò porti al bene comune. Ma più studiavo e più mi accorgevo che era una tesi del tutto infondata, ammantata di un’aura di autorevolezza dalle equazioni matematiche».
Oggi Wilson riconosce che l’idea della “mano invisibile” è ragionevole: una società può funzionare bene senza che i suoi membri si preoccupino espressamente del benessere comune. Ma si preoccupa, da evoluzionista, di spiegare che questo accade solo in condizioni molto particolari, come quelle individuate da Elinor Ostrom, appunto. È stata lei a dimostrare che i gruppi sono capaci di gestire le risorse comuni senza depredarle, ma solo se rispettano precise condizioni: otto principi che creano un’organizzazione tale da rendere svantaggiosi i comportamenti egoistici individuali, che porterebbero al loro rapido depauperamento, garantendo che le azioni per il bene comune vincano la gara darwiniana. Come?
Partendo dalla salvaguardia della risorsa, vantaggiosa rispetto allo sfruttamento egoistico indiscriminato, che il gruppo deve saper valutare, come deve valutare perché la si vuole utilizzare. Serve poi saper calibrare i diversi contributi e le ragioni che portano i singoli ad occupare le posizioni d’alto rango, prevenendo disparità ingiustificate. Così come servono scelte collettive e un monitoraggio capace di prevenire lo sfruttamento eccessivo o abusivo. Servono meccanismi che regolino le sanzioni e risolvano rapidamente ed equamente i conflitti. Se il gruppo è parte di un sistema sociale più ampio, tra i gruppi principali deve esistere un adeguato coordinamento. E la comunità si comporterà così come un vero organismo.

Nei millenni solo pochissimi modelli sociali, fra i tanti sperimentati, hanno vinto la gara evolutiva perché garantiscono che l’egoismo dei livelli inferiori non distrugga il bene comune. «E l’egoismo individuale sfrenato è pericoloso. Si è imposto in questi decenni a spese della società, non a suo vantaggio, come un cancro prolifera a spese dell’organismo».
La visione delle comunità come organismi, invece, ha una lunga storia filosofica e religiosa. Come spiega Wilson: «Oggi ci suona strana, colpa del fatto che dalla metà Novecento ha prevalso un dogma individualista che vuole spiegare tutto in funzione dei comportamenti del singolo, culminato nell’era di Margaret Thatcher che asseriva: “La società non esiste. Esistono gli individui, uomini e donne, ed esistono le famiglie”. Una visione che oggi mostra tutti i suoi limiti, a partire dalla gestione dei beni comuni planetari. Per far funzionare le società dobbiamo cambiare paradigma e tornare a vederle come organismi, ma nella nuova ottica evolutiva».

E vedendola da questo punto di vista non sorprende che i meccanismi concreti attraverso i quali prendono forma gli otto principi di Elinor Ostrom siano molto diversi da cultura a cultura: come per i colori mimetici nel deserto, quel che conta è che funzionino. Fino all’estremo. «Se i meccanismi psicologici egoistici sono più efficaci nel promuovere azioni utili agli altri, ben venga l’egoismo», afferma Wilson.

Resta allora da chiedersi: quali sono i meccanismi che funzionano? Risposta: «Sono quelle condizioni che appartengono all’identità e alle culture di Homo sapiens. Sono, ad esempio, il senso della giustizia e la disponibilità a pagare un prezzo per punire chi imbroglia, oltre che a definire le strutture sociali per metterli in atto. Ma solo da pochi decenni alcuni economisti hanno iniziato a studiare come attore economico Homo sapiens anziché l’inesistente Homo economicus».

Perché, in fondo, quel che preme al biologo evoluzionista, è la salvezza della specie che egli vede legata a quella del pianeta. Tanto che gli pare decisamente che la sfida cruciale per l’umanità oggi sia quella di darsi strutture capaci di governare le sfide di livello planetario. Qui non si può più contare sulla selezione: non abbiamo tante umanità che competano ciascuna col suo modello di governance mondiale, per vedere qual è il più adatto a controllare l’egoismo sfrenato di Stati, aziende e altre entità di livello inferiore. «Ma ciò non vuol dire che la sfida non possa essere vinta. Solo che stavolta, con studi teorici e prove su piccola scala, andando per tentativi ed errori, i selezionatori dovremo essere noi».

Aenigmachanna gollum: il mostruoso pesce con testa di serpente scoperto in India.

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Si tratta di un’antichissima famiglia di pesci che ha raggiunto l’India con la separazione del subcontinente indiano dal supercontinente Gondwana. 

Una nuova famiglia di pesci è stata scoperta da un team di studiosi in una ricerca pubblicata sulla rivista Scientific Reports. Si tratta di un ”pesce osseo” che vive tra le rocce sotterranee nella fascia costiera del Ghati occidentale. Sono dieci le specie di pesce individuate, prima della scoperta nell’area, con la prima già descritta in uno studio del 1950. La nuova specie, conosciuta con il nome di Aenigmachanna gollum, deve il suo nome a Gollum, il personaggio del Signore degli Anelli che si nasconde nelle grotte. La parte anteriore del pesce, almeno nella parte esterna, sembra quella di una testa di serpente; un particolare affascinante e che ha stuzzicato la curiosità degli appassionati di tutto il mondo. L’identificazione di una nuova specie è dovuta ad una serie di ricerche tomografiche computerizzate, oltre alla classica indagine genetica. Attraverso questa serie di studi, gli esperti hanno indivuato varie differenze tra il pesce scoperto nella nuova ricerca con gli altri pesci a “testa di serpente” che compongono la famiglia Channidae. 
Una delle caratteristiche più sorprendenti della ”nuova” specie è la presenza di una vescica natatoria accorciata, in grado di prolungarsi fino al centro del corpo e l’assenza di un organo respiratorio accessorio: “Le difformità morfologiche e genetiche sono sufficienti per giustificare l’indicazione dell’Aenigmachanna gollum ad una nuova famiglia: l’Aenigmachannidae”. Il pesce si caratterizza per una lunghezza di circa dieci centimetri, ha un corpo snello e popola le falde acquifere; importanti riserve d’acqua sotterranee dalle quali i locali estraggono l’acqua da oltre sei milioni di pozzi. Secondo le ricerche, la nuova famiglia si è separata, nel corso dell’evoluzione, dagli Channidae tra 34 e i 109 milioni di anni fa. “E’ probabile che gli Aenigmachannidae siano un lignaggio evolutivo sopravvissuto alla disgregazione del supercontinente Gondwana oltre 100 milioni di anni fa e si sia diretto verso nord insieme al subcontinente dell’India”, aggiunge l’il team di studiosi che ha sottolineato come il rischio di estinzione della famiglia risulta piuttosto alto per l’attività di estrazione dell’acqua che vede da anni protagoniste le popolazioni locali.

Bioplastica tossica come la normale plastica? Lo suggerisce un nuovo studio.

 

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Le cosiddette “bioplastiche” già da qualche anno si stanno facendo strada proponendosi come alternativa più “verde” e sostenibile per la normale plastica. Un nuovo studio, pubblicato su Environment International, mostra però che anche le bioplastiche possono rivelarsi tossiche. Anzi la plastica fatta su base biologica, quella biodegradabile, non risulta più sicura delle altre plastiche, come spiega chiaramente Lisa Zimmermann dell’Università tute di Francoforte.

La Zimmermann, che è anche l’autrice principale dello studio, spiega che, durante le analisi che lei il suo team hanno condotto, questi prodotti a base di cellulosa e amido mostravano di poter contenere gran parte delle sostanze chimiche che contengono le plastiche normali. Anzi, in alcune particolari condizioni di laboratorio, innescavano delle reazioni tossiche anche più forti.
“Tre su quattro di questi prodotti in plastica contengono sostanze che sappiamo essere pericolose in condizioni di laboratorio, le stesse della plastica convenzionale”, spiega Martin Wagner, un professore del Dipartimento di Biologia dell’Università Norvegese di Scienza e Tecnologia che ha partecipato allo studio.

Secondo gli stessi ricercatori, lo studio rappresenta l’indagine più grande realizzata fino ad oggi fatta sulle sostanze chimiche presenti nelle bioplastiche e in tutte quelle plastiche fatte con materiali di origine vegetale. Queste sostanze possono essere tossiche in due modi, come hanno verificato i ricercatori in laboratorio: direttamente per le cellule oppure agendo come “ormoni” e quindi disturbando l’equilibrio di alcune funzioni del corpo.
Alcune delle plastiche analizzate contenevano così tanti composti chimici che praticamente risulta impossibile tenere traccia di ogni possibile effetto nocivo sul corpo umano di ogni singolo composto. Quello che è certo è che le conseguenze delle plastiche e delle bioplastiche sul corpo umano non sono ancora definite del tutto, o meglio, non è ancora chiaro quali siano i limiti considerabili come “sicuri” per il corpo.

Approfondimenti

venerdì 23 ottobre 2020

Perché alcune persone hanno un’arteria in più nel braccio?

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Oltre alle arterie ulnali e radiali, nelle nostra braccia potrebbe scorrere un’arteria in più. A raccontarlo sulle pagine del Journal of Anatomy sono stati i ricercatori della Flinders University e della University of Adelaide, che concentrandosi sui cambiamenti anatomici nel corso del tempo hanno osservato come molte persone abbiano un vaso sanguigno in più nel braccio, chiamato arteria mediana, e che in poco tempo questa caratteristica potrebbe diventare sempre più comune. Un tratto che, spiegano i ricercatori, evidenzia come la nostra specie si stia ancora evolvendo
Per capirlo, il team di ricercatori ha per prima cosa esaminato 80 arti di cadaveri (di età compresa tra i 50 e i 100 anni), annotando quante volte era presente l’arteria mediana. Mettendo poi a paragone queste informazioni con i dati disponibili in letteratura, il team ha scoperto che questa caratteristica era tre volte più diffusa negli adulti di oggi rispetto a quelli vissuti un secolo fa. Sebbene lo studio non sia ancora riuscito a spiegarne il motivo, la presenza dell’arteria mediana potrebbe essere il segnale che le forze dell’evoluzione stiano ancora agendo sulla nostra specie. In altre parole, commentano i ricercatori, la selezione naturale sta in qualche modo favorendo questa caratteristica, e quindi, le persone che presentano questo vaso sanguigno in più.
L’arteria mediana ovviamente non è del tutto nuova, né apparsa dal nulla. 
Questo vaso ha il compito di trasportare il sangue nel braccio, si forma nelle primissime fasi del nostro sviluppo, per scomparire successivamente ed essere sostituita dalle arterie ulnari e radiali. Dai risultati dello studio, tuttavia, è emerso che l’arteria non scompare più come in passato, ma anzi, sempre più persone la mantengono insieme alle altre arterie dell’avambraccio. “Dal Diciottesimo secolo, gli anatomisti hanno osservato la presenza di questa arteria negli adulti e il nostro studio mostra che è chiaramente in aumento tra la popolazione”, commenta l’autore Teghan Lucas. “Nelle persone nate a metà del 1880 la frequenza era di circa il 10%, mentre in quelle nate alla fine del ventesimo secolo è salita al 30%. Si tratta, quindi, di un aumento significativo in un periodo di tempo abbastanza breve”. 
Sebbene lo studio non sia ancora riuscito a individuare il motivo per cui sempre più persone mantengono in età adulta l’arteria mediana, l’ipotesi principale è che avere un vaso sanguigno in più potrebbe aumentare l’afflusso di sangue nel braccio. Quel che è certo, concludono i ricercatori, è che questo è un altro piccolo segnale, insieme alla ricomparsa dell’osso del ginocchio chiamato fabella o la scomparsa dei denti del giudizio, dell’evoluzione. Secondo le stime dei ricercatori, inoltre, se la tendenza continuerà a questi ritmi, è probabile che in breve tempo aver un’arteria in più diventerà molto comune. “Se questa tendenza continua, la maggior parte delle persone adulte la avrà entro il 2100”, conclude l’esperto. 

Riferimenti: Journal of Anatomy

Materiali bidimensionali: nuova sostanza “magica” per controllare bordi spessi solo un atomo.

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Una sostanza chimica “magica” per ottenere un controllo più efficiente e mai avuto prima sui bordi dei cosiddetti materiali bidimensionali è stato sviluppato da un team di ricercatori dell’Università di Tecnologia Chalmers , Svezia. Si parla di un passo avanti importante nel campo in quanto questo nuovo metodo consente praticamente di controllare e poter modificare i bordi di questi materiali spessi solo un atomo in maniera facile e scalabile. Si utilizzano sostanze chimiche ecocompatibili, tra cui il perossido di idrogeno, e solo un livello di riscaldamento moderato, come spiega Battulga Munkhbat, unricercatore del Dipartimento di Fisica della Chalmers e autore principale dello studio.
Come più spesso abbiamo accennato, i materiali sottili quanto un atomo, definiti un po’ erroneamente, se vogliamo, “materiali bidimensionali” , sono già da qualche anno rappresentati come i materiali del futuro. Tra di essi il più noto è sicuramente il grafene ma ci sono anche altri tra cui il bisolfuro di molibdeno, uno suo analogo semiconduttore. I vantaggi dei dispositivi costruiti con questi materiali possono essere moltissimi e sono collegati a varie loro caratteristiche ma questi stessi materiali non si stanno diffondendo per varie ragioni, tra cui ci sono anche i costi legati alla produzione.

Una delle ragioni, però, è rappresentata anche da una loro caratteristica intrinseca: i loro bordi sono naturalmente sottilissimi (si parla di uno o due atomi di spessore) e dunque poco controllabili. Si tratta di un problema scientifico non di poco conto tanto che sta rallentando lo stesso progresso relativo ai materiali bidimensionali.
I bordi dei materiali bidimensionali possono esistere in due varianti: a zigzag oppure a poltrona. I primi possono essere sia metallici che ferromagnetici mentre i secondi sono semiconduttori e non magnetici.
I ricercatori hanno scoperto una sostanza chimica che, sotto forma di normale perossido di idrogeno, riesce a rimuovere il materiale indesiderato dai bordi atomo per atomo producendo un bordo nitido a livello atomico. In questo modo si possono creare bordi perfetti nei materiali bidimensionali.

“Questo metodo apre possibilità nuove e senza precedenti per i materiali di van der Waals (materiali 2D stratificati). Ora possiamo combinare la fisica dei bordi con la fisica 2D in un unico materiale. Si tratta di uno sviluppo estremamente affascinante”, spiega Timur Shegai, un professore associato di fisica alla Chalmers nonché uno dei responsabili del progetto di studio.

Ora i ricercatori hanno creato anche una start-up per offrire più facilmente questa nuova tecnologia ai laboratori e alle aziende high-tech ma intendono sviluppare e migliorare ancora di più questo metodo per rendere i bordi di questi metamateriali ancora più nitidi e ancora più facilmente modificabili.

Approfondimenti

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giovedì 22 ottobre 2020

Realizzate le prime sinapsi artificiali che funzionano come quelle naturali.

 

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Sono capaci di simulare il comportamento di quelle naturali. Si tratta delle prime sinapsi artificiali, appena messe a punto dai ricercatori del laboratorio di Tissue Electronics dell’Istituto italiano di tecnologia, in collaborazione con l’università di Eindhoven e l’università di Stanford. Nel loro studio, appena pubblicato su Nature Materials, i ricercatori sono riusciti a dimostrare come questo primo modello di sinapsi artificiale bioibrida, ovvero composta da un’interfaccia biologica e una piattaforma elettronica, è capace di simulare il comportamento delle connessioni nervose, interagendo con le cellule.

Ricordiamo che, nel sistema nervoso, le sinapsi sono punti di connessione, ovvero hanno il compito di mettere in comunicazione il neurone presinaptico con quello postsinaptico, in modo tale da rendere possibile la trasmissione degli impulsi elettrochimici che compongono il segnale nervoso. Per realizzare le sinapsi artificiali, i ricercatori hanno scelto specifiche cellule di ratto in grado di assumere un comportamento simile a quello dei neuroni presinaptici, ossia quello di emettere il neurotrasmettitore dopamina. Le sinapsi, inoltre, sono caratterizzate dalla cosiddetta plasticità cerebrale, ossia sono in grado di adattarsi in base a cambiamenti dell’ambiente interno e esterno e di mantenere memoria di queste modifiche. Per simulare il neurone postsinaptico, quindi, il team ha realizzato un chip neuromorfico organico capace di conservare, in seguito a una stimolazione elettrica, una sorta di memoria, in un processo simili a quello dell’apprendimento.

Analizzando le variazioni dell’attività elettrica, i ricercatori hanno osservato che il chip riesce a individuare la dopamina rilasciata dalle cellule (quelle che mimano il neurone presinaptico), e di conservare nel tempo lo stato di eccitamento alterato (chiamato appunto effetto memoria), dimostrando di essere riusciti a creare in laboratorio la plasticità sinaptica. “Ѐ la prima volta che un dispositivo elettronico neuromorfico viene direttamente interfacciato con un sistema cellulare per ottenere una piattaforma in grado di riprodurre la plasticità sinaptica a breve e a lungo termine”, spiega Francesca Santoro, coordinatrice del Tissue Electronics dell’Iit. “Prima di questo studio erano stati realizzati sistemi capaci di ricevere stimoli, ma non in grado di eccitarsi e mantenere l’eccitamento a loro volta”.

I risultati del nuovo studio suggeriscono che la dinamica della connessione offerta dalle sinapsi artificiali è molto vicina a quella che avviene naturalmente tra due neuroni e forniscono, perciò, le basi e le informazioni utili per lo sviluppo di terapie e dispositivi medici sia nell’ambito delle malattie neurodegenerative, in cui si verifica la perdita di connessione tra neuroni, sia nel caso di amputazioni. Questi dispositivi, infatti, potrebbero ripristinare o sostituire le connessioni neuronali danneggiate oppure, per le amputazioni, fare da ponte tra le terminazioni nervose biologiche preservate e i circuiti delle protesi artificiali robotiche.