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Tempo e Coscienza
Il nostro obiettivo è tentare di rispondere al dibattito tra A. Einstein ed H. Bergson, tra il tempo operativo misurato dagli orologi ( classici e relativistici, ma vedremo anche la differenza radicale del caso quantistico), in generale il tempo delle macchine, ed il tempo “elastico”, “denso”, “emotivo” dell’esperienza individuale, il tempo dei significati contro il tempo dei clocks, quello della TuringLand contro il tempo della DuchampLand, per prendere in prestito due termini del dibattito contemporaneo sull’arte, che è forse il luogo dove la differenza tra le due concezioni di tempo diviene, per così dire, tangibile. Queste concezioni sono vicine? Lontanissime? In contrasto? In particolare, è necessario introdurre principi fisici nuovi e diversi da quelli che reggono le forme ordinarie di materia per spiegare la coscienza, come sembrano suggerire anche alcuni fisici come Roger Penrose? Vogliamo suggerire qui una via diversa, una via di complessità ed anelli intrecciati, dove si passa dalla materia alla materia vivente e poi a quella pensante che riflette le – e sulle-prime due. E ciò che cambia in questa gerarchia non sono tanto le leggi ma i vincoli che caratterizzano le possibilità che da quelle leggi possono emergere.
Origine
Mi viene in mente James Joyce, con il suo tipico humor molto irish, “al tempo dei tempi…ed erano bei tempi!”. Dico questo perché il “tempo degli orologi” non ha più cittadinanza fondamentale in fisica da un pezzo. E non mi riferisco alla fusione tra spazio e tempo operata agli inizi del 900 dalla relatività ristretta di Lorentz ed Einstein, quella magnificamente espressa dalla frase famosa del matematico H. Minkowski “ D’ora in avanti lo spazio ed il tempo separati saranno solo ombre, l’unica realtà fisica sarà l’unione matematica dei due, lo spazio-tempo”. Non mi riferisco neppure al tempo “deformabile” della relatività generale, che è un elegantissimo linguaggio matematico che serve per dire una cosa antichissima, già scoperta da un distratto Galilei nel duomo di Pisa, ossia che tutti i corpi cadono con la stessa accelerazione. Nessuna di queste cose può dare il senso, tutto contemporaneo, della scomparsa del tempo in fisica quantistica. Per farlo bisogna avere un’idea della non-località, che è l’elemento cruciale del mondo quantistico. Immaginate un salto quantico: un atomo assorbe o emette energia ed un elettrone orbitale passa da un livello energetico ad un altro; oppure pensiamo ai fenomeni di creazione-annichilazione di particelle. Tutti fatti ben noti al tempo degli acceleratori e del bosone di Higgs. La domanda è: quali sono le modalità del salto dell’elettrone da un livello energetico ad un altro? E’ come il passaggio da un gradino ad un altro? In un processo di creazione-annichilazione dove vanno queste particelle? Da dove vengono? La risposta è nel vuoto quantistico, la versione del mare di Talete della fisica teorica. Questo vuoto è in sé atemporale. O per essere leggermente più tecnici senza abbandonare il gioco della suggestione, è un’entità a tempo immaginario. Il salto dell’elettrone è “istantaneo”, ovvero non-locale. Il vuoto quantistico è la più arcaica e fondamentale forma di materia che riusciamo a scorgere, sia teoricamente che sperimentalmente. E’ , per dirla con D. Deutsch, la fondamentale “fabbrica della realtà”. In esso sono in qualche modo scritte le regole del gioco, quelle per cui, ad esempio, una costante fisica ha un certo valore piuttosto che un altro, oppure perché osserviamo sempre un elettrone e mai mezzo elettrone. Le forme “ordinarie” di materia ed energia che osserviamo e misuriamo, quelle che lasciano una traccia in una camera a bolle di Wilson, che percorrono traiettorie nel tempo e nello spazio e vengono alla fine localizzate con un rivelatore ed un “click”, sono manifestazioni di questo vuoto, sue emergenze. La materia ordinaria è descritta da equazioni dinamiche, di tipo diacronico, il vuoto è descritto come un insieme di vincoli generali di tipo topologico e algebrico, in forma sincronica, che veicolano le sue manifestazioni. La questione non riguarda solo le particelle, come è facile immaginare, ma l’intero universo, che può pensarsi come una sorta di “nucleazione” dal vuoto quantistico, e dunque un emergere del tempo della materia da una struttura di relazioni atemporale. Sia che guardiamo sezioni fini della materia- in teorie come la dinamica reticolare, i loops o le p- brane, che sono la versione più recente delle superstringhe-, sia che guardiamo all’universo nel suo insieme, il tempo non è più un ingrediente fondamentale, ma assieme allo spazio emerge da una rete di transizioni quantistiche non–locali. In effetti, dal punto di vista della fisica quantistica, è la fisica classica, con la località ed il rassicurante spazio tempo classico, a costituire un mistero. In questi approcci supermicroscopici e cosmologici non c’è ancora la materia vivente, se non forse come una vaga possibilità, cosa che J. Barrow e F. Tipler indicano come “principio antropico”. Per avere il tempo degli orologi è necessaria una rottura di simmetria nella simmetria senza tempo del vuoto quantistico, l’emergere di un gran numero di oggetti, il disordine e l’entropia.
Probabilità
Immaginate di filmare una particella isolata, la classica piccola biglia newtoniana in uno spazio vuoto. Se girate il film all’indietro non vedrete nulla di strano. Matematicamente questo vuol dire cambiare nelle equazioni del moto (t) con (-t). E ciò che ottenete è perfettamente legittimo, logico e coerente. Notiamo che non cambiate- tanto per usare un linguaggio che David Hume non ci avrebbe perdonato!- la causa con l’effetto. Invertite soltanto il senso di entrambi. Provate ora a fare lo stesso esperimento cinematografico con un altissimo numero di particelle che si urtano elasticamente una contro l’altra, in un tipico cammino a zig zag detto moto browniano. Anche in questo caso proiettando la pellicola al contrario non vedrete nulla di strano. Potranno esserci casuali addensamenti o rarefazioni di particelle (fluttuazioni), ma alla fine non ci sarà alcun verso del tempo (se non quello dell’orologio della telecamera che riprende, che però non riguarda il sistema di particelle, è ad esso esterno!). Il senso del tempo, ancora una volta, viene fuori quando c’è un’asimmetria. Ma questa non va cercata nelle leggi, che per loro natura estraggono da un fenomeno gli aspetti strutturali, ma nelle condizioni al contorno ed iniziali.
Questo è un punto molto importante, sul quale vorrei che prestaste attenzione. Le condizioni al contorno ed iniziali sono il naturale completamento delle “leggi fisiche”. Vi dicono “dove” e “come” applicare la legge al caso in esame. Senza di esse avreste solo un enunciato generale su una classe di fenomeni, ma non potreste in alcun modo descrivere “quel” fenomeno specifico! Nel caso del vuoto quantistico e dell’origine dell’universo, come abbiamo visto, le condizioni vincolanti sono più importanti delle leggi stesse. O per essere più precisi, coincidono. Le dinamiche dell’universo classico emergono da ciò che “è scritto” al fondo del vuoto quantistico. Ritorniamo ora al nostro esperimento filmato. Stavolta si tratta di un gas in una boccetta aperta. I moti browniani spingeranno progressivamente il gas fuori dalla boccetta attraverso un processo di diffusione. Stavolta se girate il film all’indietro vedete qualcosa di paradossale: le molecole si coordinano per rientrare nella boccetta! Il fenomeno, nel quale pure non abbiamo introdotto nessuna legge fisica nuova!, mostra un’asimmetria temporale, una “freccia del tempo”. La differenza è data proprio dalle condizioni iniziali, come mostrò con una raffinata analisi matematica L. Boltzmann. E’ estremamente improbabile ( badate, non impossibile) che le particelle rientrino “spontaneamente” nella boccetta ripristinando le condizioni iniziali. Potrebbe avvenire solo su tempi cosmologici ( tempo di Poincaré), attraverso fluttuazioni rarissime. Abbiamo stabilito dunque un punto importante. La freccia del tempo non risiede nelle leggi della fisica, ma piuttosto nell’asimmetria delle condizioni. Ed è qualcosa legato alla probabilità che quelle condizioni si realizzino.
L’emergenza della vita
Quante probabilità c’erano che dalla materia venisse fuori la materia (ed il tempo) dei sistemi viventi? Il vecchio “brodino di amminoacidi” evoca tempi di Poincaré e dunque probabilità piccolissime, vicine al miracolo. Ed infatti le prime forme di teorie dell’emergenza, invocate agli inizi del 900 da biologi come H. Driesch, erano in fondo l’invocazione di un miracolo scientifico, la ricerca di principi in grado di contrastare l’entropia e favorire la nascita e lo sviluppo di forme organizzate in grado di mostrare una certa autonomia nei confronti dell’ambiente. Ad esempio il vitalismo fu un paradigma di questo tipo, una decisa dichiarazione di principio contro il meccanicismo newtoniano alla ricerca ( infruttuosa!) di teorie in grado di vincere la battaglia. Ma come spesso accade nella scienza, non sono le rivolte paradigmatiche a portare benefici, ma piuttosto lo sviluppo e l’integrazione delle conoscenze. Oggi noi sappiamo che esistono processi di auto-organizzazione regolati da complesse reti non-lineari (a cui forse non è estraneo qualche sottile effetto quantistico) che permettono l’emergenza della materia vivente dalla materia ordinaria. Non c’è tra i due livelli descrittivi incompatibilità. Proprio i sistemi viventi sono il più evidente e clamoroso caso della validità epistemologica del “More is Different” del Nobel per la fisica P. Anderson. Più particelle assieme possono mostrare comportamenti non banalmente riducibili a quelli dei singoli costituenti. Questa non è una novità. Utilizziamo il concetto di entropia per caratterizzare il “disordine” che deriva dalla perdita delle correlazioni energetiche in un sistema di particelle. Che senso avrebbe il concetto di entropia per una singola particella in un universo vuoto? In modo simile, i concetti della biologia sono ovviamente compatibili con quelli della fisica di base, ma le due sintassi non sono deducibili una dall’altra, non più di quanto abbia senso dire che tutte le aperture e le partite di scacchi sono già contenute nella definizione del movimento dei pezzi e nella posizione iniziale. Ogni scacchista sa benissimo che per analizzare le possibilità della partita spagnola o della difesa Siciliana o Nimzoindiana è necessario costruire un meta-linguaggio che si pone ad un livello assai superiore a quello delle regole di base. E tenete conto comunque che l’esempio è limitato, volutamente minimale, ai limiti del fuorviante, perché una partita di scacchi è comunque finita dal punto di vista combinatorio, mentre i sistemi viventi, ed ancora di più quelli dotati di sistema cognitivo, non si limitano a giocare un gioco, ma ne modificano continuamente le regole, ed i pezzi! Va detto a questo punto che molti dibattiti su determinismo, riduzionismo, meccanicismo e causalità sono devastati da un vizio di fondo gravissimo dal punto di vista della metodologia scientifica. Ossia confondono il piano del “cosa io penso del mondo” da quello , assai più vincolato, arduo e difficile, del “cosa io posso effettivamente descrivere nel mondo attraverso modelli e procedure operative”. Il primo stile di pensiero porta a ragionamenti apparentemente convincenti come “non c’è nulla di strano o miracoloso in ciò che osservo. A attiva B , questo reagisce con C e produce l’effetto cercato. Certo, sono numeri grandi, ma alla fine quello che succede è nient’altro che questo”. Certo, nulla da eccepire, tranne il “nient’altro che”! E’ vero che la trama del mondo è descritta da un gioco sottile di transazioni quantistiche tra modi del campo, ma è pur vero (ed è dimostrabile rigorosamente in teoria quantistica dei campi) che il numero di manifestazioni possibili emergenti da questa rete di transazioni è enorme, e tutt’altro che banalmente predicibile, perché dipende dai vincoli che via via si producono tra sistema ed ambiente. Questa è un’altra delle distinzioni ignorate da chi ragiona in maniera naive. Chi segue idealmente con la mente la micro-catena degli eventi ( magari pensando anche i costituenti elementari come piccole palline newtoniane o pezzi di un ingranaggio invece che sottili entità quantistiche), non specifica mai la sua posizione di osservatore. Il ché significa, senza rendersene conto, assumere il punto di vista del demone di Laplace o dell’occhio di Dio, un occhio in grado di abbracciare ogni entità dell’universo, inserirla in un insieme “fondamentale” di equazioni , come erano ritenute le equazioni di Newton ai tempi di Laplace, e calcolare il loro passato, presente e futuro. In questo modo si dimentica però che ogni osservatore è immerso nel mondo, ed ogni osservazione è una scelta mirata su una partizione ideale tra sistema/ambiente. Come scrive efficacemente il filosofo H. Jonas nel suo saggio “Dio è un matematico?”, la risposta è “no”! Infatti se per “matematico” intendiamo un occhio che guarda soltanto ed unicamente le particelle, allora non vedrà mai i comportamenti collettivi, globali, e tantomeno gli organismi. Che è poi esattamente quello che cercavano di dire più o meno nello stesso periodo H. Maturana e F. Varela con il concetto di autopoiesi. Man mano che andiamo verso una complessità crescente ed organizzata, l’importanza dei vincoli dinamici diventa pari, se non superiore, a quella delle leggi e dei costituenti. Questo non vuol dire che un’analisi riduzionista è impossibile o inutile, ma che va integrata con approcci globali d’emergenza. E che, alla fin dei conti, il vero senso della complessità è l’esistenza di gerarchie intrecciate e non banali tra livelli di descrizione microscopici, mesoscopici e macroscopici. Una volta abbandonato il riduzionismo ideologico, la buona novella matematica è data dalla possibilità di costruire una fisica ed una matematica dei sistemi complessi, che mira a studiare i comportamenti collettivi e le configurazioni informazionali globali.
Andando dunque all’effettiva, galileiana descrizione scientifica del mondo (scegliere cosa descrivere e specificare come farlo), dobbiamo semplicemente prendere atto che sono molto pochi i sistemi che noi possiamo descrivere in modo deterministico, ed anche qui possiamo avere sorprese, come ci insegna il caso dei tre corpi e la sensibilità alle condizioni iniziali dell’ormai famosa farfalla del caos. Che l’analisi riduzionista e l’emergenza sono approcci complementari, e che livelli e gerarchie di fenomeni diversi sono ovviamente compatibili, ma non riducibili uno all’altro. Non esiste alcun problema tra fisica e biologia, tranne l’ostinazione di chi sostiene che la complessità del mondo è zippabile in un “nient’altro che”. Ovvero non comprendere che quel vincolo, quel particolare vincolo, qui ed ora, permette ai costituenti ed alle leggi che ne regolano i comportamenti di esprimere una storia anziché un’altra. Il tempo dei vincoli è il tempo delle storie possibili.
Macchine ed Evoluzione
La frase di Galileo Galilei “il gran libro della natura è scritto in caratteri matematici” ha goduto tanta fortuna da far dimenticare l’impresa scientifica all’interno della quale acquista senso, ed è sempre più spesso utilizzata come slogan mediatico di una sorta di delirio platonico per utenti compulsivi di meraviglie scientifiche. Ad esempio, mi è capitato di leggere che il nostro cervello, mentre attraversa la strada, risolve migliaia di equazioni differenziali ( immagino che il giornalista/divulgatore si riferisse ad un modello Lotka Volterra, predatore-preda). Ma naturalmente non è così. Piuttosto è il contrario. Siamo noi che cerchiamo di costruire modelli matematici di una capacità che l’evoluzione ha sviluppato ed affinato in migliaia d’anni. Ed è la stessa logica a rovescio, associata al meccanicismo naive, che ancora giustifica in qualcuno il sogno di una mente artificiale racchiusa in un algoritmo ( sufficientemente complesso, of course!). E permette che questa visione meccanicista influenzi pure le attuali neuroscienze, a riprova che un’attività scientifica è intimamente legata alle prospettive epistemologiche che adotta.
Se le teorie fanno “parlare” i fatti, che altrimenti sono “muti”, l’approccio metodologico e la visio epistemica fanno “parlare” le teorie. Se ci si ostina ad essere meccanicisti, si vedrà tutto come un enorme complicato meccanismo, ma sfuggirà la complessità autentica, che si rifugerà nella ricerca del “miracolo” , invocando “principi nuovi”- un po’ come i biologi vitalisti all’inizio del 900- quando invece basterebbe soltanto un po’ di scienza in più. Perché quando non è costretta a fare la caricatura di una ideologia rigida ed inacidita, la scienza ha una naturale capacità autopoietica di tirarsi fuori dai guai da sola. Nessuna sorpresa, tornando alla frase di Galilei, che circa 300 anni dopo Eugene Wigner si interrogasse sull’”irragionevole efficacia della matematica nel descrivere la natura”. Ma non c’è nulla di irragionevole. Siamo noi a costruire i modelli e la rappresentazioni per accordare il nostro sistema cognitivo al mondo, mappe per orientarci, scale per salire. La matematica è soltanto uno dei linguaggi possibili , ed efficaci, per costruire rappresentazioni, a patto di fare i conti criticamente e continuamente con la consapevolezza che ciò che i modelli matematici descrivono è una nostra scelta/costruzione, non è dato “già li”, in qualche iperuranio di forme perfette da espugnare con un “metodo” come si fa con le rape sottoterra. Il punto importante da capire è che nei fenomeni davvero complessi, per intenderci nello studio dei processi -a meno che non siano semplici come la diffusione di un gas o di una funzione d’onda- , i vincoli dinamici che si creano tra sistema ed ambiente sono più importanti persino delle leggi e dei costituenti. E proprio l’evoluzione è un magnifico esempio di questo discorso.
Perché noi siamo “fatti” così? Perché esistono 20 tipi di amminoacidi e non altri? La risposta potrebbe essere perché ad un certo punto, nel suo gioco di variazioni, l’evoluzione ha prodotto il pikaia gracilens nel medio cambriano, creando una possibilità, un vincolo, un ponte evolutivo per la comparsa dei vertebrati. E’ andata così, ed una volta che è successo tutto questo è irreversibile. Questa storia evolutiva è soltanto una di quelle possibili. Nessuna “equazione fondamentale” del brodo primordiale (ammesso che ci fosse), poteva prevederla. L’evoluzione è perfettamente compatibile con la fisica, ma non riducibile alle sue leggi. Assieme alla frase di Galilei sulla potenza descrittiva dei modelli matematici, dovremmo dunque aggiungere una ulteriore riflessione sull’importanza dei vincoli, dei cammini possibili e delle storie, e dire con Marcello Cini che la natura non è un libro, e se lo fosse somiglierebbe più ad un libro di storia che ad un insieme di equazioni! I caratteri e la grammatica di questa storia appartengono sicuramente alla chimico-fisica della macchinette molecolari e degli automi cellulari ma la semantica che emerge richiede il linguaggio dei biologi. Ed è dello stesso tipo la critica che possiamo fare alla ragione artificiale dell’IA: ignorando la storia dei vincoli legati ad un rapporto complesso tra sistema ed ambiente, pretende di ridurre al tempo delle macchine ed alla complessificazione degli algoritmi l’attività della mente, proprio come le tentazioni meccanicistiche delle neuroscienze tendono a dimenticare che il cervello non fotografa il mondo ma lo ricostruisce continuamente, e che l’interazione con il mondo non ci rende più complicati ma più complessi. Mentre la macchina (o il singolo meccanismo neurale) funzionano sempre nello stesso modo, nella mente emergono nuovi codici che ci rendono capaci, come recita un bel titolo di D. Hofstadter, capaci di “concetti fluidi ed analogie creative”. Ma questo avviene perché non siamo una ragione artificiale alle prese con input, ma siamo radicati nel mondo e parte integrante di un flusso che è assieme biologico e cognitivo. Nella sua teoria ecologica della visione, J. Gibson scrive “i nostri occhi sono nella testa, la testa in un corpo ed il corpo in un ambiente”. E non è un caso dunque se nessuna macchina riesce a superare il test di Turing ( tranne che nei film di SF). In termini strettamente matematici, è possibile dire che un’intelligenza artificiale ( intesa almeno nel senso di un’intelligenza che ha al suo cuore raziocinante una macchina di Turing) può calcolare un numero altissimo di probabilità considerando tutti gli stati possibili, mentre la cognizione umana, per dirla con de Finetti, “scommette” razionalmente su una possibilità che , in quel momento, il suo embodiement con il mondo e la sua storia gli suggeriscono come la migliore, o la più immediata. Nelle famose “trappole” visive, Coniglio o Anatra, Giovane o Vecchia, o nell’Angeli o Demoni di Escher in Escher, la macchina vede le due possibilità, e non le sa distinguere, nel suo mondo di pixel non c’è una priorità. Noi vedremo sempre prima o l’una o l’altra. E mentre ogni macchina calcolerà per una data costellazione di stati le stesse probabilità, ogni uomo farà scommesse diverse, perché per nessuno di loro ci saranno “lì fuori”, oggettivamente, le stesse probabilità. Come scrive Pessoa, “non vediamo ciò che vediamo, ma vediamo ciò che siamo”. E quella che Peter Cariani chiama appropriazione semantica dell’informazione. E questo ci porta al tema della individualità radicale e della coscienza.
“Ora lo sai”
Come per i processi biologici, anche per spiegare la coscienza è stato invocato un “miracolo”,o un anti.-miracolo, che negli ultimi anni ha preso diverse forme: da una parte si nega l’esistenza stessa della coscienza, dall’altra si nega piuttosto che possano esistere teorie in grado di spiegarla. Ed anche i fisici hanno dato il loro contributo al bazaar della coscienza, ipotizzando teorie quantistiche che poco hanno a che fare con i dati concreti delle neuroscienze (a meno che non si voglia lasciare il rasoio d’Occam dentro il cassetto), ma soddisfano piuttosto l’esigenza, come ha osservato ironicamente Stephen Hawking, di voler spiegare un mistero con un altro mistero. Nel frattempo il termine “coscienza” si è ampliato fino ad assumere proporzioni imbarazzanti e decisamente confuse. Destino inevitabile dei processi, per loro natura difficilmente zippabili in una definizione. Come abbiamo visto è già accaduto ai concetti di tempo, di vita, evoluzione, intelligenza. Eppure non possiamo negare che la coscienza esiste ed ha un impatto formidabile nelle nostre vicende cognitive. Ci riferiamo in particolare ai “qualia”, ben definiti nei lavori di G. Edelmann e di J. Humphreys, quella bussola cognitiva di stati individuali che dipendendo dal “qui” ed “ora” della nostra interazione con il mondo. Ci limiteremo qui a dire, o meglio: indicare, per evitare il rischio di definizioni pericolose o ingannatrici, che i qualia sono il motivo per cui vi svegliate la mattina ed avete voglia di sentire la pastorale di Beethoven piuttosto che I Rolling Stones. E non una Pastorale qualunque ma una particolare incisione di Furtwangler. Da dove vengono questi stati? Recentemente Leonard Mlodinow ha suggerito che l’emergere dei qualia, e del comportamento che ne deriva, è l’effetto di una causalità di cui non siamo “coscienti”, introducendo così una salutare distinzione tra consapevolezza, pluralità e “peso” emotivo degli stati cognitivi. Questo è del tutto accettabile. Proprio come l’evoluzione non può far emergere forme incompatibili con le sue premesse e vincoli o troppo distanti da queste, così la nostra mente non può valutare o anche soltanto sentire possibilità che in qualche modo non facciano già parte della nostra storia con e nel mondo. Per i sostenitori del libero arbitrio credo sia accettabile ammettere che il nostro sforzo, individuale e collettivo, di ampliare le storie possibili si scontra continuamente con la sezione d’urto che misura “quanto mondo” riusciamo a contenere nelle nostre rappresentazioni. Come scrive efficacemente G. Edelmann, “dove in origine c’era la capacità di distinguere l’acqua dal vino, oggi c’è quella più sofisticata di gustare la differenza tra un Cabernet ed un Pinot”. Ancora una volta, collettivamente ed individualmente, è la complessificazione la chiave della diversità. NIcholas Humprehys nel suo saggio “la privatizzazione delle sensazioni” propone una convincente analisi sul significato evolutivo dello sviluppo della coscienza, come ottimizzazione del rapporto del flusso informativo di un sistema con l’ambiente. Ed è questo flusso, in cui ad ogni istante diversamente siamo immersi, che rende possibile il miracolo delle risposte diverse al mondo. I nostri sensi – scusate l’apparente gioco di parole- non sono sensori. Il nostro rapporto con il mondo non è mai neutro, proprio come i dati della scienza anche le nostre osservazioni empiriche sono sempre “theory laden”, cariche di teoria, aspettativa, anticipazione. Ed è questo che ci rende profondamente diversi da una macchina di Turing. La storia dei vincoli e codici che regolano il nostro rapporto con il mondo rende possibile continuamente un diverso “ora lo sai”, un “peso” dell’istante che non è mai soltanto astratto e razionale ma concreto, incarnato, emotivo. Ed è questo il (falso) problema delle teorie della coscienza.
Come abbiamo visto, una teoria è la descrizione di una classe di eventi strutturati in modo simile. Una qualunque teoria della coscienza può dirci qual è il suo significato evolutivo, può indagare i processi neurali o persino neuro-quantistici che la rendono possibile( ad esempio la bella teoria del Quantum Brain di Giuseppe Vitiello) , ma quel “qui” ed “ora” soggettivo resta il frutto più prezioso della coscienza. E su quello nessuna teoria può dire nulla di scientificamente significativo, non perché sia fuori dalla portata della scienza, ma perché non riguarda una classe ma un evento unico, l’incontro singolare ed irripetibile, irreversibile, tra una mente ed un mondo attraverso un gioco privato di storie, memorie e vincoli. Nessuna teoria può darsi dell’incontro tra una Madeleine e Proust. Il linguaggio d’elezione per parlare di quel momento “lì” non è quello della scienza, è quello dell’arte. Come scrive Giorgio de Chirico, un’opera d’arte è l’incontro di più solitudini, da quella plastica, della recezione delle forme, a quella onirica, metafisica, per la quale è esclusa a priori ogni possibilità logica d’accesso. Ed è peculiare preoccupazione dell’arte della buona scienza non confondere una classe di spiegazioni generali con il qui e l’ora della singolarità.
Percorsi di lettura:
J. Barrow , F. Tipler, “Il Principio antropico”, Adelphi , Milano, 2002
J. Barrow, “Teorie del tutto. La ricerca della spiegazione ultima”, Adelphi, Milano, 1992
J. Barrow, “Il libro degli Universi. Guida completa agli universi possibili”, Adelphi, Milano, 2012
I. Licata, “Osservando la sfinge. La realtà virtuale della fisica quantistica”, Di Renzo Editore, Roma, 2009
D. Deutsch, “La trama della realtà”, Einaudi, Torino, 1997
I. Licata, “Complessità in fisica. Che cos’è il cambiamento?”, Nuova Civiltà delle Macchine, 4, 2012
H. Jones, “Dio è un matematico? Sul senso del metabolismo”, Il Melangolo, Genova, 1995
H. Maturana, F. Varela, “Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente”, Marsilio, Venezia, 2001
I. Licata, “La logica aperta della mente”, Codice edizioni, Torino, 2008
M. Cini, “Un paradiso perduto. Dall’universo delle leggi naturali al mondo dei processi evolutivi”, Feltrinelli, Milano, 1999
D. Hofstadter, “Concetti fluidi e analogie creative. Modelli per calcolatore dei meccanismi fondamentali del pensiero”, Adelphi, Milano, 1996
A. Clark, “Dare corpo alla mente”, McGraw-Hill, Milano, 1999
L. Mlodinow, “Subliminal: How Your Unconscious Mind Rules Your Behavior”, Pantheon, 2012
G. Edelman, G. Tononi, “Un universo di coscienza. Come la materia diventa immaginazione”, Einaudi, Torino, 2000
N. Humphreys, “Rosso. Uno studio sulla coscienza”, Codice edizioni, Torino, 2007
G. Vitiello, “My Double Unveiled .The dissipative quantum model of brain”, John Benjamins Publ., 2001
G. Vitiello, “Dissipazione e coscienza”, Atque, 16, 1998
G. De Chirico, I. Far, “Sull’arte metafisica”, Commedia dell’arte moderna, Nuove edizioni italiane, Roma, 1945
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