giovedì 8 marzo 2012

Nuova tecnica di microscopia con il calore laser.

Fonte: Sci-x
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Due studenti di dottorato dell'Università di Lipsia sono riusciti a compiere un passo avanti significativo nella ricerca di nuove tecniche di microscopia.
Markus Selmke e Marco Braun, rispettivamente del Gruppo di Ricerca 877 dell’Unione Tedesca di Ricerca (DFG) e della Scuola di Specializzazione post-laurea BuildMoNa, hanno gettato le basi per l'individuazione delle cosiddette nanoparticelle calde. La loro nuova tecnica microscopica permette di rendere visibili le minuscole particelle al di sotto del limite di risoluzione ottica, riscaldandole lievemente con un laser. Questa cosiddetta microscopia fototermica di singole nanoparticelle apre un ampio campo di nuove applicazioni della Chimica, attraverso la elaborazione ottica dei dati, fino alla terapia dei tumori. Ambedue i dottorandi hanno pubblicato i risultati della loro ricerca nell’autorevole rivista “ACS Nano".
La microscopia fototermica utilizza piccole quantità di calore, che le singole molecole o le nanoparticelle emettono attorno ad esse, dopo l’assorbimento della luce. “Il calore produce una piccola lente, una nano-lente, come noi abbiamo dimostrato attraverso le nostre misurazioni e il confronto con una precisa teoria da noi sviluppata”, spiega Mark Selmke.
I ricercatori sono riusciti non soltanto a misurare le nanoparticelle assorbenti estattamente nelle loro proprietà ottiche, ma hanno potuto controllare anche la crescita della temperatura intorno alle particelle. “In tal modo, noi sappiamo come far modificare termicamente di pochi nanometri, materiali mirati oppure come poter accelerare, con l’aiuto del calore, piccolissime particelle o molecole”, chiarisce Braun. Funziona come noto il mulino a luce. Brown si occupa dell’impiego di queste nano-fonti di calore per trappole molecolari. Selmke lavora a un progetto all'interno del gruppo di ricerca sassone 877, finanziato dalla DFG.

Testo originario integrale e immagini:
http://www.zv.uni-leipzig.de/service/presse/pressemeldungen.html?ifab_modus=detail&ifab_uid=5cb22b6ada20120307215359&ifab_id=4436

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Prof. Dr. Frank Cichos
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Immagine: Markus Selme

lunedì 5 marzo 2012

Neuroimpianti a base di carbonio: le nuove biointerfacce.

Fonte: Sci-x
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I ciechi vedono, gli zoppi camminano, i sordi sentono: in futuro, impianti neurali potrebbero sostituire nell’occhio o nell’orecchio le cellule sensoriali distrutte.
Una delle maggiori sfide da affrontare sta nel progettare l'interfaccia tra la tecnologia medica e tessuti umani. Allo scopo di superare i limiti dei modelli esistenti, scienziati provenienti del centro di Ricerca Jülich e altre undici istituzioni, coinvolte nel progetto NeuroCare iniziato il 1° marzo 2012, svilupperanno nuove biointerfacce fatte di carbonio.
Per diversi anni, i ricercatori biomedici hanno lavorato su impianti per compensare i danni al sistema nervoso, causati da un incidente o una malattia. Loro si concentrano fondamentalmente su strumenti che correggono i problemi con le capacità cognitive di base, come una perdita o forte diminuzione della vista o della capacità di sentire. Inoltre, questi strumenti possono anche essere utilizzati per trattare lesioni traumatiche alla colonna vertebrale, l’epilessia resistenti ai farmaci, disturbi psichiatrici e malattie neurodegenerative croniche.
Tuttavia, la tecnologia è ancora in una fase di evoluzione. Ciò che rende così difficile l’implementazione di nuovi sistemi è la connessione tra i tessuti vivi e i circuiti elettrici, attraverso strutture cellulari flessibili contenenti acqua da un lato e rigidi elettrodi solidi sull'altro lato. Il NeuroCare, pertanto, utilizza materiali a base di carbonio, poiché sono più adatti a scopi medici, rispetto ai metalli o al silicio, convenzionalmente usati.
"Ci concentriamo sullo sviluppo di nuove biointerfacce a base di carbonio, che sono accettate con meno difficoltà dal tessuto vivo e causano anche meno problemi dovuti all’inquinamento biologico, la contaminazione batterica", dice il professor Andreas Offenhäusser, direttore del settore di Bioelettronica all’Istituto dei Sistemi Complessi (ICS-8) e dell’Istituto Peter Grünberg (PGI-8) del Centro di Ricerca Jülich. I materiali a base di carbonio sono economici, biologicamente inerti, robusti e dotati di molte proprietà elettriche, da quelle simili ai metalli, a quelle dei semiconduttori o isolanti.
Per ottimizzare il contatto con il tessuto biologico, i ricercatori hanno pianificato di eseguire sperimenti con materiali flessibili e testare le diverse strutture superficiali, su scala nanometrica. Entro i prossimi tre anni, all’interno del progetto, dovranno nascere prototipi per impiantati della retina, della corteccia e della coclea, che possano essere sviluppati e messi sul mercato nei successivi dieci anni.
I ricercatori dello Jülich hanno già usato con successo materiali per implantati basati sul carbonio, alla fine del 2011, prima del lancio del progetto NeuroCare. Insieme con gli scienziati di Monaco, hanno cresciuto cellule cardiache su un chip biocompatibile fatto di grafene. Questo materiale è stato studiato a fondo soltanto dal 2004 ed è costituito da molecole grandi, tipo tappeto, di carbonio puro. "Abbiamo scoperto che le cellule cardiache si comportano molto bene sul chip di grafene e che sviluppano una eccellente pulsazione", dice il biologo Dr. Jülich Vanessa Maybeck. In confronto a componenti di silicio, il rumore nei chip di garfene è molto inferiore.

Testo originario integrale e immagini:
http://www.fz-juelich.de/SharedDocs/Pressemitteilungen/UK/DE/2012/12-03-01NeuroCare.html;jsessionid=9B8191322D8F96054A16388C52F804B8

Prof. Andreas Offenhäusser
Tel.: 0049-2461 61-2330
email : a.offenhaeusser@fz-juelich.de Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Dr. Vanessa Maybeck
Tel.: 0049-2461 61-3895
email : v.maybeck@fz-juelich.de Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Contatto stampa:
Tobias Schlößer
Tel.: 0049-2461 61-4771
email : t.schloesser@fz-juelich.de Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Foto: Forschungszentrum Jülich

venerdì 2 marzo 2012

La clonazione esiste in natura: lo dimostrano i coralli.

Fonte: ADUC
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La clonazione esiste in natura: lo dimostrano i coralli. Quando i loro embrioni, fragilissimi, vengono distrutti dalle onde, ognuno dei loro frammenti e' in grado di generare un nuovo individuo. La scoperta, pubblicata sulla rivista Science, dimostra per la prima volta che degli organismi pluricellulari sono capaci di riprodursi spontaneamente grazie a dei cloni.
I ricercatori dell'Istituto Australiano di Scienze Marine hanno osservato per la prima volta in laboratorio questa capacita' dei coralli, unica nel regno animale, di produrre cloni (ossia individui con lo stesso corredo genetico) a partire dall'embrione. I coralli sono delle strutture marine 'edificate' da piccoli polipi che creano delle complesse colonie al cui interno vengono ospitate anche microscopiche alghe che vivono in simbiosi con loro.
E' noto da tempo che all'interno delle barriere coralline, nonostante si riproducano in maniera sessuata attraverso il rilascio di uova, una gran parte dei polipi sono 'gemelli', possiedono cioe' lo stesso corredo genetico. I ricercatori australiani hanno osservato in laboratorio che le onde, anche deboli, sono in grado di rompere facilmente il delicatissimo involucro che ospita l'embrione, costituito da piu' cellule, dei polipi; sorprendentemente le cellule disperse non portano alla morte dell'individuo in formazione, ma riprendono a moltiplicarsi generando cosi' nuove copie dell'individuo iniziale.
 

Comprimere i polimeri produce energia chimica, ma solleva dubbi sulla sicurezza per la salute.

Fonte: Sci-x
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Un polimero è una maglia di catene, che si rompono lentamente nel tempo a causa delle normali pressione e usura. Quando un polimero viene schiacciato, la pressione rompe i legami chimici e produce radicali liberi: ioni con elettroni spaiati, pieni di energia.
Queste molecole sono responsabili dell’invecchiamento, di danni al DNA e del cancro nel corpo umano.
In un nuovo studio, gli scienziati della Northwestern University di sono orientati verso i polimeri schiacciati e i radicali liberi, alla ricerca di nuove fonti energetiche. Hanno scoperto cose incredibili e promettenti, ma anche alcuni problemi reali. Il loro rapporto è pubblicato dalla rivista Angewandte Chemie .
I ricercatori hanno dimostrato che i radicali provenienti da polimeri compressi, generano quantità significative di energia che può essere usata per reazioni chimiche di potenza, in acqua. Questa energia, in genere, è rimasta finora inutilizzata, ma ora può essere sfruttata quando i polimeri sono sotto stress in circostanze ordinarie, come nelle suole delle calzature, negli pneumatici d’auto o quando si compattano sacchetti di plastica.
Essi hanno anche scoperto, durante lo studio, che un polimero siliconico, comunemente utilizzato in impianti di certi procedimenti cosmetici, rilascia una grande quantità di radicali liberi nocivi, quando il polimero è sottoposto anche solo a una moderata pressione. Questi risultati suggeriscono che la sicurezza di alcuni impianti medicali a base di polimeri dovrebbero essere esaminati e tenuti sotto controllo più da vicino.
"Abbiamo appurato che i polimeri in condizioni di stress creano radicali liberi, con efficienze complessive fino al 30 per cento ed emettono radicali nei mezzi circostanti, dove possono dar luogo a reazioni chimiche", ha dichiarato Bartosz A. Grzybowski, un autore dell’articolo Professore di Chimica Fisica e Ingegneria Chimica dei Sistemi. "Questi radicali possono essere utili o possono essere nocivi, a seconda della situazione."
Grzybowski e il suo team sono i primi ad usare questa energia per guidare le reazioni chimiche, semplicemente circondando il polimero compressi, con acqua contenente i reagenti desiderati.
I radicali liberi creati nel polimero migrano verso l’interfaccia polimero/acqua, dove producono perossido di idrogeno, che poi può guidare processi chimici.
"Noi siamo interessati a nuove fonti di energia chimica: questa energia che nasce dalla semplice rottura dei legami dei polimeri non viene utilizzata", ha detto. "Circondando il polimero con un mezzo, come l'acqua, siamo in grado di produrre energia chimica rispettosa dell'ambiente. Una direzione che stiamo perseguendo è quella di utilizzare questa energia per disinfettare l'acqua nei paesi in via di sviluppo. Questo è possibile perché il perossido di idrogeno prodotto da polimeri spremuti uccide i batteri . "
I ricercatori hanno confermato che la deformazione meccanica, uno schiacciamento moderato, ha creato radicali liberi nei polimeri. Essi inoltre hanno determinato il numero di radicali prodotti in un polimero sotto pressione: circa 10 alla sedicesima potenza, per centimetro cubo di polimero: una quantità molto rilevante.
Come prima cosa hanno riempito tubi polimerici con acqua, poi hanno spremuto i tubi e misurato il numero totale di radicali che sono migrati nella soluzione circostante. Hanno scoperto che quasi l'80 per cento dei radicali è fuoriuscito, compiendo un certo percorso.
I ricercatori hanno studiato sette diversi polimeri, tra cui un certo numero di particolare interesse pubblico. Il polidimetilsilossano, un materiale a base di silicio, comunemente utilizzato nelle implantazioni è uno di questi. Negli esperimenti di laboratorio, il mezzo che circondava il polimero e l’entità della pressione esercitata sul materiale era simile a quelli che si trovano nel corpo umano, ha sottolineato Grzybowski.
“I nostri risultati sono un po 'preoccupanti dal momento che ogni impianto polimerico del corpo umano ha a che fare con sollecitazioni meccaniche e, come ora sappiamo, può produrre radicali liberi nocivi e diffonderli nei tessuti circostanti, contribuendo, talvolta, a gererare malattie come cancro, ictus, infarto del miocardio, diabete e altri disturbi importanti ", ha detto Grzybowski. "Sapendo questo, sono molto felice di avere un impianto metallico al ginocchio, piuttosto che un impianto polimerico. Da un punto di vista scientifico, il nostro lavoro dimostra ancora una volta che un fenomeno può essere utile o dannoso a seconda di come viene impiegato", ha detto. "Lo stesso polimero può essere una utile una fonte di energia al di fuori di un corpo umano, ma un potenziale rischio quando è implantato in esso."

http://www.northwestern.edu/newscenter/

Contatto:
Megan Fellman
fellman@northwestern.edu Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.
tel. 001-847-491-3115
Northwestern University

Sviluppato un protocollo per il rivestimento dei punti quantici con polimero anfifilico.

Fonte: Sci-x
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I punti quantici (QD – quantum dot) sono piccoli cristalli di materiale semiconduttivo che producono fluorescenza. Il colore o la unghezza d'onda della fluorescenza dipende dalla dimensione, dalla forma e dalla composizione del punto quantico. Grandi quantum dot, tendono ad emettere luce all’estremità rossa dello spettro elettromagnetico (lunghezze d’onda più lunghe). Come la dimensione del punto quantico diminuisce, diminuisce anche la lunghezza d'onda della luce emessa. Questa regolabilità della lunghezza d'onda di emissione è uno dei motivi per cui i punti quantici sono diventati popolari, per essere utilizzati come marcatori fluorescenti nella ricerca biologica. Ad esempio, gli scienziati possono attaccare dei quantum dot a singole molecole e cellule e seguire i loro movimenti nel tempo, utilizzando la microscopia a fluorescenza.
Dominik Jańczewski, Nikodem Tomczak e Ming-Yong Han dell’Institute of Materials Research and Engineering dello A*STAR e collaboratori hanno ora descritto un protocollo per la preparazione di punti quantici rivestiti con un polimero anfifilico, un polimero che contiene componenti sia che attraggono acqua, sia che la respingono. "Il nostro obiettivo è quello di sviluppare un valido approccio per la preparazione di punti quantici, per l'uso come tag fluorescenti per ottenere bioimmagini, per rilevamento e per terapia", spiega Han. "Il metodo che abbiamo sviluppato è applicabile a tutte le nanoparticelle, non solo ai quantum dot”.
La maggior parte di applicazioni biologiche richiede l'uso di punti quantici, che si disperdono e rimangono stabili in soluzione acquosa. Gli approcci convenzionali per sintetizzare quantum dot, tipicamente, dota questi di un rivestimento di ligandi idrofobi, che sono respinti dall’acqua. Benchè sia possibile scambiare i ligandi dopo la sintesi, un guscio di ligando, che è scambiabile, è, per sua natura, instabile e potrebbe causare il rilascio di materiali tossici, quali cadmio, nella soluzione.
Invece di scambiare i ligandi, un metodo alternativo per fare in modo che i quantum dot si disperdano in acqua è quello di ricoprirli con un polimero che ha ambedue le parti, quella idrofila e quella idrofobica. Questo funziona sul principio semplice, secondi cui gli elementi simili si attirano; in altre parole, la parte idrofobica del polimero attira ligandi idrofobici, che stabilizzano i punti quantici, e le parti idrofile del polimero attraggono molecole d'acqua in soluzione.
Il nuovo protocollo descrive la procedura in dettaglio e si propone di fornire i benefici dell'esperienza di ricerca del team nella sintesi di quantum dot ad altri, il cui interesse potrebbe essere maggiormente concentrato sulle applicazioni, piuttosto che sullo sviluppo di metodi di sintesi. La sintesi del rivestimento polimerico permette l'incorporazione di una grande varietà di gruppi funzionali. "In futuro speriamo di poter lavorare per la terapia guidata da immagini", dice Han. "I punti quantici potrebbero essere preparati non solo per produrre immagini di cellule tumorali, ma anche per rilasciare i farmaci in punti precisi del corpo".

Testo originario integrale e immagini:
http://www.research.a-star.edu.sg/research/6450
 Riferimento: Jańczewski, D., Tomczak, N., Han, M.-Y. & Vancso, G. J. Synthesis of functionalized amphiphilic polymers for coating quantum dots. - Nature Protocols 6, 1546–1553 (2011). -- Link all’articolo
 Immagine : © 2011 Jańczewski, Tomczak, Han & Vancso

giovedì 1 marzo 2012

Nanofibre costituite da proteine, impiegabili in medicina e in elettronica.

Fonte: Sci-x
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Un nuovo metodo per la creazione di nanofibre costituite da proteine è stato sviluppato da ricercatori del Polytechnic Institute dell’Università di New York (NYU-Poly).
Esso promette di migliorare notevolmente i modi di somministrazione mirata delle medicine per il trattamento di tumori, dei disturbi cardiaci e del morbo di Alzheimer, nonché di potenziare l’aiuto per la rigenerazione dei tessuti umani, ossa e cartilagini.
Inoltre, applicato in modo diverso, questo stesso metodo potrebbe favorire la realizzazione di microprocessori ancora più piccoli e più potenti per le future generazioni di computer e per dispositivi elettronici consumer e professionali.
I dettagli sono spiegati in un articolo intitolato "Effects of Divalent Metals on Nanoscopic Fiber Formation and Small Molecule Recognition of Helical Proteins", pubblicato online nella rivista Advanced Functional Materials. L’autore, Susheel K. Gunasekar, uno studente di dottorato del Dipartimento di Chimica e Scienze Biologiche nell’NYU-Poly, è stato il ricercatore principale ed è uno studente del co-autore Jin Montclare , professore assistente e capo del Laboratorio di Progettazione del Dipartimento di Ingegneria Proteica e Molecolare, dove, principalmente, è stata condotta la ricerca di base. Al lavoro hanno partecipato anche i co-autori Luona Anjia, uno studente laureato, e il professor Hiroshi Matsui , entrambi del Dipartimento di Chimica e di Biochimica presso l'Hunter College (La City University di New York), dove è stata condotta la ricerca secondaria.
Eppure, tutto questo non era quasi mai emerso, dice il professor Montclare, che spiega che si trattava di pura serendipità, un'osservazione casuale fatta da Gunasekar due anni fa, che ha ispirato la ricerca del team e ha portato alle sue rilevanti scoperte.
Durante un esperimento che aveva a che fare con certe proteine di forma cilindrica (che dovevano essere studiate), ​​derivate dalla proteina matrice oligomerica della cartilagine (COMP, che si trova prevalentemente nella cartilagine umana), Gunasekar ha notato che in elevate concentrazioni, queste proteine cilindriche alfa-elicoidali si mettevano spontaneamente assieme e si assemblavano in nanofibre.
E 'stato un risultato sorprendente, esclama Montclare, perché la proteina COMP non era per nulla conosciuta in forma di fibra. "Siamo stati davvero entusiasti", ricorda. "Così abbiamo deciso di eseguire una serie di esperimenti per vedere se riuscivamo a controllare la formazione della fibra e anche il suo legame con molecole di piccole dimensioni, che sarebbero alloggiate all'interno del cilindro della proteina."
Di particolare interesse sono le molecole di curcumina, un ingrediente presente negli integratori alimentari usati per combattere il morbo di Alzheimer, tumori e disturbi cardiaci.
Aggiungendo una serie di aminoacidi (in grado di riconoscere i metalli) alla proteina cilindro-cilindrica, il gruppo del Politecnico NYU-Poly è riuscito a trovare che le nanofibre cambiano la loro forma, con l'aggiunta di metalli come zinco e nichel alla proteina. Inoltre, l'aggiunta di zinco ha reso più forti le nanofibre, consentendo loro di contenere più curcumina, mentre l'aggiunta di nichel ha trasformato le fibre in ‘piccoli tappeti’ agglomerati, provocando il rilascio della molecola del farmaco.
Successivamente, spiega Montclare, i ricercatori sperimenteranno la creazione di ‘impalcature’ di nanofibre che possano essere usate per indurre la rigenerazione dell'osso e della cartilagine (per mezzo della vitamina D inglobata) o cellule staminali umane (per mezzo della vitamina A inglobata).
In seguito, potrebbe anche essere possibile applicare questo metodo organico basato sulla proteina, per la creazione di nanofibre dedicate ad applicazioni nell’elettronica e nell’hardware informatico, spiega Montclare, producendo fili d’oro nanometrici per impieghi come circuiti nei chip, creando dapprima le nanofibre e poi convogliando su di esse il metallo (oro).
In definitiva, dice Montclare , i ricercatori preferirebbero che i frutti della loro scoperta, come le nanofibre terapeutiche e i nanofili metallici, fossero adottati dalle aziende farmaceutiche e dai produttori di microprocessori o simili.
Il finanziamento per questa ricerca è stato fornito dall'Air Force Office of Scientific Research degli USA, dall’Army Research Office degli USA e dal Department of Energy degli USA e dalla National Science Foundation.

Testo originario integrale e immagini:
http://www.poly.edu/press-release/2012/02/29/nanofiber-breakthrough-holds-promise-medicine-and-microprocessors