domenica 29 novembre 2015

Gioielli leggerissimi con schiuma di oro e latte: Sono fatti di aria per il 98% e brillano.

Fonte: ANSA Scienze
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Gioielli d'oro leggerissimi e soffici grazie a una schiuma mille volte più leggera dell'oro che tutti conosciamo. E' un aerogel composto da 98 parti di aria e appena due di materiale solido. A prima vista non si distingue dall'oro tradizionale, ma al tatto è soffice e malleabile. A crearlo, e descriverlo sulla rivista Advanced Materials, sono stati ricercatori del Politecnico di Zurigo (Eth) guidati da Raffaele Mezzenga.
Oltre che per fabbricare gioielli a 20 carati, questo oro super leggero potrebbe trovare impiego in molti processi industriali, dai catalizzatori fino a sensori di pressione.
La ricetta per creare questa schiuma d'oro si basa sulle proteine ricavate del latte, riscaldate e mescolate con particelle di oro. Una volta amalgamate tra loro, le proteine si intrecciano a formare una struttura tridimensionale altamente porosa.
Una delle maggiori difficoltà è stata quella di far asciugare questa sottile rete senza distruggerla, e per farlo i ricercatori hanno usato al posto di aria calda l'anidride carbonica. Il risultato finale è una leggerissima schiuma malleabile, che a occhio nudo ha tutte le caratteristiche dell'oro tradizionale.
La struttura porosa rende questo materiale leggerissimo, poichè la stragrande maggioranza del volume è spazio vuoto, ma si tratta comunque di oro di buona qualità, a 20 carati, con un quinto di fibre del latte e 4 quinti di oro puro.

martedì 24 novembre 2015

Non solo caldo, il laser ha raffreddato l'acqua: Ora nuovi usi nell'industria e in biologia.

Fonte: ANSA Scienze
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Nessuno lo immaginerebbe pensando alle spade luminose di Star Wars, ma il laser non si limita a scaldare o a bruciare. In alcuni casi, infatti, può raffreddare. Lo dimostra l'esperimento nel quale per la prima volta dei fasci concentrati di luce infrarossa hanno portato un bicchiere d'acqua dalla temperatura ambiente a poco più di 2 gradi. Pubblicato sulla rivista dell'Accademia delle Scienze degli Stati Uniti (Pnas), il test è stato condotto nell'università di Washington e risolve un problema che da almeno 12 anni è un rompicapo per i fisici.
Si intravedono già possibili applicazioni della scoperta, ad esempio in processi industriali che richiedono grande precisione, ad esempio per rendere più efficiente la fabbricazione dei microprocessori. In biologia i laser potrebbero aiutare a studiare più in dettaglio le cellule, ad esempio raffreddandone delle porzioni per rallentarne l'attività in fasi cruciali, come quella della divisione. Potrebbero anche rendere più facile osservare i singoli neuroni in attività senza danneggiarli.
Che in particolari condizioni i laser fossero in grado di raffreddare era noto dal 1995, quando lo aveva dimostrato un esperimento condotto nei Laboratori Usa di Los Alamos, ma ci sono voluti 20 anni per dimostrare questa possibilità nei liquidi e con tecnologie a basso costo.

I farmaci del futuro viaggeranno nei 'cubosomi': Capsule fatte dello stesso rivestimento delle cellule.

Fonte: ANSA Scienze
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Farmaci e nutrienti del futuro viaggeranno nell'organismo a bordo dei 'cubosomi', speciali capsule fatte con materiali biologici e che promettono un'efficienza ed una sicurezza maggiore rispetto ad altre 'navette'. Un passo in avanti verso la possibilità di utilizzarli arriva dal Politecnico di Losanna, con la ricerca condotta da Davide Demurtas e Cécile Hébert, pubblicata sulla rivista Nature Communication.
 I cubosomi sono capsule biologiche fatte dalle stesse molecole che formano il rivestimento delle cellule e che per questo sono considerate estremamente sicure. A differenza dei più noti liposomi, di forma sferica e usati ampiamente nei cosmetici, i cubosomi hanno una particolare struttura interna a reticolo organizzata in forme complesse con lati piatti, tanto da formare dei 'cubi'. Esplorarne l'interno finora era stato molto difficile perché le superfici dei cubosomi sono 'opache' ed è praticamente impossibile vedere come si dispongono i reticoli interni.
 I ricercatori di Losanna sono riusciti a superare il problema utilizzando la tecnica chiamata 'tomografia crio-elettronica', sviluppata con il supporto della Nestlé. Conoscere bene la struttura interna dei cubosomi apre adesso la possibilità di ottenere contenitori perfettamente 'ritagliati' attorno al carico.

Pronto il mini-laboratorio ingoiabile: E' una capsula che controlla cuore e polmoni.

Fonte: ANSA Scienze
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Un mini-laboratorio ingoiabile per misurare costantemente il ritmo del cuore e del respiro: è la minuscola capsula ideata da Gregory Ciccarelli, del Massachusetts Institute of Technology (Mit), per monitorare senza creare disagi le condizioni di pazienti affetti da aritmie o problemi respiratori oppure seguire lo stato di salute dei soldati sul campo di battaglia o perfezionare l’addestramento degli atleti.
Il dispositivo descritto sulla rivista Plos One è delle dimensioni di una normale pillola e una volta ingerita può trasmettere dell'intestino i suoi dati a una distanza di 3 metri. Per ora è stata sperimentata sui maiali, ma si prevede a breve di fare test anche sull'uomo. Per alcuni problemi di salute, come quelli respiratori o le aritmie cardiache, è fondamentale avere dati accurati raccolti costantemente per almeno 24 o 48 ore, ma i dispositivi usati oggi hanno molte limitazioni dovute all'ingombro o al fastidio dell'indossarli, tanto da poter dare dati falsati.
Per ovviare questi problemi i ricercatori americani hanno messo a punto una mini capsula dotata di un microfono che, una volta ingerita, riesce a 'ascoltare' il ritmo dei battiti cardiaci e della respirazione, come una sorta di micro stetoscopio. La capsula viene ingoiata e percorre tutto l'intestino in 1 o 2 giorni prima di essere espulsa, registrando oppure inviando i dati all'esterno in tempo reale.
Secondo i ricercatori, questo dispositivo potrebbe fornire dati molto precisi e non falsati dalla scomodità di quelli attuali, come le cinture Holter usate per controllare le condizioni del cuore. Lo stesso tipo di capsule potrebbero in futuro essere usate anche per fare mini test per riconoscere specifiche molecole e per rilasciare farmaci direttamente nel tratto intestinale.

Costruito un minerale 'extraterrestre' simile a quello dei meteoriti, utile nell'industria.

Fonte: ANSA Scienze
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Costruito un minerale magnetico 'extraterrestre'. Descritto sulla rivista Scientific Reports, è stato realizzato nell'università giapponese di Tohoku. Magneti di alta qualità sono stati finora trovati esclusivamente nei meteoriti, ma adesso diventa possibile produrli su larga scala per utilizzarli nell'industria, da quella automobilistica a quella delle apparecchiature per uso domestico e medico.
 I meteoriti contengono magneti straordinari, composti da ferro e nichel, che si sono formati all'alba del Sistema Solare, quando le polveri della nebulosa planetaria hanno cominciato ad aggregarsi formando dei grani. Raffreddando molto lentamente, in miliardi di anni, i grani hanno cambiato struttura: gli atomi si sono disposti in modo ordinato, tale da assumere proprietà magnetiche di qualità elevata.
 Finora non era stato possibile costruire in laboratorio magneti simili proprio per l'impossibilità di replicare questo lentissimo processo di raffreddamento. Le cose sono cambiate grazie alla tecnica che ha permesso di concentrare in circa 300 ore un processo che in natura ha richiesto miliardi di anni.
In pratica i ricercatori hanno usato una lega di ferro e nichel molto simile alla struttura dei meteoriti nelle prime fasi di formazione. Quando si è raffreddato, il materiale ha cambiato struttura: da amorfo (con gli atomi disposti in modo disordinato) è diventato cristallino e magnetico, come nei meteoriti.

Armi chimiche, quelle del futuro potrebbero essere 'nano' (Trasformando sostanze innocue, come quelle usate nei dentifrici).

Fonte: ANSA Scienze
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Le armi chimiche del futuro potrebbero arrivare dalle nanotecnologie: questo settore all'avanguardia della ricerca e ricco di promesse, nelle mani sbagliate potrebbe trasformarsi in una fucina di nuove armi non convenzionali. E' uno degli scenari emersi nella conferenza internazionale sulle minacce emergenti chimiche, biologiche, radiologiche e nucleari organizzato a Milano, dall'Istituto di scienze e tecnologie molecolari del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Istm-Cnr) e dal Corpo militare dell'Ordine di Malta.
 Sostanze innocue, come quelle che oggi sono contenute nei dentifrici o nell'intonaco, se ridotte in particelle delle dimensioni di miliardesimi di metro (nanometri) potrebbero non essere più altrettanto innocue. ''E' il caso, per esempio, di un materiale come il biossido di titanio, presente nell'intonaco, utilizzato come eccipiente nei farmaci e presente nei dentifrici'', ha detto Matteo Guidotti, dell'Istm-Cnr.
 ''Tuttavia - ha aggiunto - al livello nano, ossia ridotto in particelle delle dimensioni comprese fra 30 e 50 nanometri, il biossido di titanio può interagire con il materiale biologico e diventare cancerogeno''. Anche strutture come i nanotubi di carbonio, che giocano un ruolo di primo piano in molti materiali di nuova generazione ''non sono esenti da potenziali rischi. Ad esempio - ha detto ancora Guidotti - interagiscono facilmente con il Dna o con l'Rna dei virus: chi mi dice che qualcuno non possa utilizzarli come 'nuovi veleni'?''.
 La prima contromisura, secondo gli esperti, è individuare quanto prima delle regole per la produzione di nanomateriali. Una questione che, a livello europeo, si sta affrontando con il progetto NanoReg. Deve comunque essere chiaro, hanno rilevato gli esperti, che non esistono sostanze di per sè 'cattive': tutto dipende dal modo in cui vengono usate. Basti pensare che l'iprite, la prima e la più diffusa delle armi chimiche, oggi è diventato un principio attivo dei farmaci anticancro utilizzati nella chemioterapia.

Simulata la lotta fra materia e antimateria, unendo le forze di 4 supercomputer.

Fonte: ANSA Scienze
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Simulata nei supercomputer la 'lotta' fra materia e antimateria che poco dopo il Big Bang ha portato la prima a prevalere sulla seconda. I risultati confermano quanto prevede la teoria di riferimento della fisica contemporanea, il Modello standard, ma i fisici sono convinti che perfezionando questi calcoli potrebbero arrivare delle sorprese.
 Pubblicato sulla rivista Physical Review Letters, la simulazione è stata eseguita 'unendo le forze' di quattro supercomputer: Blue Gene/Q dei Laboratori Nazionali Usa di Brookhaven e in quelli delle Argonne, dell'istituto giapponese Riken e dell'università scozzese di Edimburgo.
Il calcolo che hanno eseguito avrebbe richiesto 2.000 anni con un normale pc. ''Anche se il risultato è coerente con gli esperimenti condotti finora e in accordo con il Modello Standard, prevediamo di aumentare di due volte la precisione del calcolo nel giro di due anni'', ha detto Peter Boyle, dell'università di Edimburgo.
''Se in tempi più lunghi si riuscisse a migliorare la precisione dei calcoli e ad arrivare a un errore teorico del 10% ci sarebbe la possibilità ipotetica di mettere in crisi il Modello Standard'', ha osservato il fisico teorico Fabio Zwirner, di Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e università di Padova. Un'eventuale crisi del Modello Standard, ha rilevato, ''sarebbe la benvenuta perché costituirebbe una rivoluzione scientifica che costringerebbe a inventare nuove teorie e a fare nuovi esperimenti''.
 Secondo il Modello Standard materia e antimateria sono state prodotte in parti uguali dal Big Bang, ma subito dopo la prima ha prevalso sulla seconda. Senza questo fenomeno, chiamato 'violazione della simmetria', materia e antimateria si sarebbero annientate a vicenda. Dagli anni '60 più esperimenti hanno indicato come possibile spia di questo fenomeno il confronto tra il decadimento di una particella e quello della sua antiparticella, che non avviene allo stesso modo. La simulazione, ha detto Zwirner, ha esplorato un aspetto molto sottile del decadimento, fornendo un riferimento teorico più solido per i risultati sperimentali degli anni ’90 e dei primi anni 2000.

Sbocciata la prima rosa bionica: La sua linfa è fatta di sensori e fili elettrici.

Fonte: ANSA Scienze
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E' sbocciata la prima rosa bionica: ha circuiti elettrici e sensori che si sviluppano all'interno della rete di vasi nella quale scorre la linfa. Ottenute da Magnus Berggren, dell'università svedese di Linkoping, e descritte sulla rivista Science Advances, le rose bioniche aprono un campo di ricerca completamente nuovo.
Si apre cioè un filone di ricerca che combina elettronica organica e biologia vegetale al fine di sfruttare e amplificare l’attività elettrica naturalmente prodotta dalle piante. Le ricadute potrebbero essere, per esempio, una nuova generazione di celle solari oppure sensori capaci di controllare la crescita delle piante.
I cavi inseriti nelle piante modificate non sono normali fili elettrici, ma sottilissimi filamenti di polimeri creati in laboratorio e capaci di crescere all'interno della rete dei vasi linfatici senza danneggiarli. Lunghi fino a 10 centimetri, i filamenti sono in grado di trasportare segnali elettrici da e verso ogni punto della pianta. Ad esempio le foglie possono trasformarsi in una sorta di 'schermo' vegetale perchè ogni punto della loro superficie può infatti essere sollecitato elettricamente in modo differente, trasformandolo in una sorta di 'biopixel' capace di cambiare colore a comando.
In pratica, senza essere danneggiate, le piante possono essere 'arricchite' non solo con una rete di trasmissione elettrica, ma con sensori: “ora saremo in grado di influenzare la concentrazione delle varie sostanze nella pianta che ne regolano la crescita e lo sviluppo”, ha detto Ove Nilsson, uno dei coautori della ricerca.
 Il lavoro fatto finora è completamente nuovo, tanto che “ora – ha rilevato Berggren – possiamo davvero cominciare a parlare delle piante come 'centrali elettriche'. Possiamo ad esempio mettere sensori nelle piante e utilizzare l'energia fornita dalla clorofilla, produrre antenne verdi o materiali completamente nuovi”.

martedì 17 novembre 2015

Identificata nel Dna la 'firma molecolare' che fa del cervello umano qualcosa di unico nel regno animale.

Fonte: ANSA Scienze
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Identificata nel Dna la 'firma molecolare' che fa del cervello umano qualcosa di unico nel regno animale: può essere scritta con 32 'calligrafie' diverse, ma è comune a tutte le persone ed è ciò che determina le abilità cognitive esclusive che ci distinguono dagli altri animali. L'hanno scoperta i ricercatori dell'Istituto Allen per le Neuroscienze di Seattle, che pubblicano i risultati dello studio su Nature Neuroscience.
La scoperta, che si inserisce nel mega progetto di ricerca sul cervello umano lanciato da Obama, potrà aprire nuove prospettive nel trattamento di malattie come l'Alzheimer e l'autismo.
La chiave per giungere a questo risultato è stato l'Atlante del cervello umano, che lo stesso istituto ha messo a punto nel 2012 mappando i geni 'accesi' nel cervello. Passando in rassegna i geni attivi in 132 regioni cerebrali di sei individui differenti, i ricercatori sono riusciti a identificare quelli che vengono espressi in maniera simile, andando poi a verificare eventuali collegamenti con particolari malattie o funzioni cerebrali.
E' così emerso che l'attività degli oltre 20.000 geni umani nel cervello può essere ricondotta a soli 32 schemi che si ripetono nelle diverse persone, a dispetto dell'estrema complessità anatomica del cervello e della ricchezza del genoma umano. Tra i geni più stabili ci sono quelli legati a malattie come l'autismo e l'Alzheimer, e altri geni noti da tempo e già presi di mira da farmaci esistenti. Per verificare quanto questi schemi fossero esclusivi dell'essere umano, i ricercatori li hanno messi a confronto con quelli del cervello del topo.
I risultati hanno mostrato che i geni associati ai neuroni sono ben conservati nelle due specie, mentre significative differenze sono state trovate nell'espressione dei geni legati alle cosiddette cellule gliali, che regolano il comportamento dei neuroni: un ulteriore indizio a conferma del ruolo cruciale giocato da queste cellule nel cervello umano.

giovedì 5 novembre 2015

L'atmosfera di Marte strappata via dal Sole: Ricostruito l'evento che ha trasformato il pianeta rosso.

Fonte: ANSA Scienze
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Una potentissima eruzione solare ha liberato uno sciame di particelle così violento da bombardare in pieno Marte quando il pianeta era ancora molto giovane, strappandogli letteralmente via il campo magnetico che ne proteggeva l'atmosfera, riducendolo a brandelli, con filamenti arricciati su se stessi simili a viticci.
E' così che il pianeta rosso ha perso la sua atmosfera, nella ricostruzione pubblicata sulla rivista Science, che ha dedicato la copertina a Marte, e basata sui dati raccolti dalla sonda Maven della Nasa.
Da tempo il mondo scientifico aveva ipotizzato che il vento solare avesse strappato via l'atmosfera marziana, ma soltanto adesso la missione Maven (Mars Atmosphere and Volatile Evolution) ha fornito i dati che permettono di ricostruire quell'evento drammatico, che ha trasformato per sempre il pianeta. Lanciata nel novembre 2013, la sonda è in orbita intorno a Marte dal settembre 2014 e i dati che ha raccolto in poco più di un anno sono già sufficienti per raccontare in dettaglio uno degli episodi più drammatici nella storia del pianeta.
Ricostruire il lontano passato di Marte è stato possibile grazie ad un episodio relativamente recente: l'eruzione solare dell'8 marzo 2015. I dati raccolti dalla sonda Maven, studiati dal gruppo dell'università del Colorado guidato da Bruce Jakosky, hanno mostrato che il vento solare ha prodotto una rotazione del campo magnetico marziano così forte da scagliare via dall'atmosfera filamenti di particelle cariche (ioni) lunghi fino a 5.000 chilometri e avvolti su se stessi come riccioli. In piccolo, è qualcosa di analogo all'evento che spazzò via gran parte dell'atmosfera del pianeta.
 Maven ha inoltre permesso di scoprire negli strati più bassi dell'atmosfera marziana aurore molto simili a quelle che sulla Terra avvengono in corrispondenza dei poli. Per i ricercatori sono un indizio di come anche la crosta marziana giochi un ruolo nel campo magnetico del pianeta. Le ha individuate il gruppo dell'università del Colorado guidato da Nick Schneider.
 La zona più esterna dell'atmosfera di Marte è stata studiata invece dal gruppo dell'università del Michigan coordinato da Stephen Bougher, che ha scoperto variazioni nella temperatura. Ancora l'università del Colorado, questa volta con il gruppo di Laila Andersson, ha scoperto che le polveri arancioni che rendono così opaca l'atmosfera di Marte sono composte da granelli le cui dimensioni variano da 1 a 5 miliardesimi di metro (nanometri) e che sono ad una quota così elevata (fra 150 e 1.000 chilometri) da avere probabilmente un'origine interplanetaria.

Misurata la forza che tiene insieme l'antimateria: Aiuterà a cercare l' "antimondo".

Fonte: ANSA Scienze
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Sono state misurate le forze che tengono insieme l'antimateria, ossia la materia che ha caratteristiche diametralmente opposte a quelle della materia ordinaria. Pubblicato sulla rivista Nature, il risultato indica che la forza che tiene insieme gli atomi nel nucleo è ugualmente intensa nell'antimateria come nella materia.
Il risultato, frutto della collaborazione internazionale Star, è importante per capire che fine abbia fatto l'antimateria dopo il Big Bang. La teoria attuale prevede che materia e antimateria siano state prodotte nella stessa quantità ma, poiché si annullano a vicenda, non si spiega come mai sia sopravvissuta solo una piccola quantità di materia, quella che costituisce il mondo nel quale viviamo.
L'esperimento che ha misurato le forze che tengono insieme le particelle all'interno del nucleo di antimateria è stato condotto nei Laboratori di Brookhaven del Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti. All'interno dell'acceleratore di particelle Rhic (Relativistic Heavy Ion Collider) sono state ricostruite condizioni simili a quelle che esistevano nell'universo poco dopo il Big Bang.
Materia e antimateria possono essere considerate l'una lo specchio dell'altra. Sono infatti particelle quasi identiche ma con una piccola differenza: hanno la stessa massa, ma carica elettrica opposta. Nell'universo neonato materia e antimateria erano presenti nella stessa quantità, ma in quello attuale l'antimateria è molto rara e per cercare di capire che fine abbia fatto negli acceleratori di tutto il mondo, compreso il Large Hadron Collider (Lhc) del Cern di Ginevra, si tenta di riprodurre condizioni analoghe a quelle che esistevano pochi milionesimi di secondo dopo il Big Bang.
"Per farlo i ricercatori americani fanno scontrare tra loro nuclei di oro", ha spiegato Federico Antinori, della sezione di Padova dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e coordinatore della fisica per l'esperimento Alice dell'Lhc. "Grazie da una tecnica nuova, che abbiamo sperimentato anche con Lhc, i ricercatori americani hanno visto che l'interazione forte, che tiene insieme i protoni nei nuclei atomici ordinari, si comporta alla stessa maniera con gli antiprotoni", ha detto ancora Antinori.
Il risultato è la conferma sperimentale di un'ipotesi che i fisici avevano formulato da tempo, ossia che la forza che tiene insieme gli antiprotoni nei nuclei di antimateria è analoga a quella attiva nei nuclei di materia, chiamata nucleare forte. E' anche la conferma ulteriore che il mondo della materia e l''antimondo' sono perfettamente simmetrici.

martedì 3 novembre 2015

Un nano-robot di Dna che cammina nel corpo umano: Ha due "gambe" e un "busto".

Fonte: ANSA Scienze
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Cammina come una persona, mettendo in fila un passo dopo l'altro: è il primo nano-robot di Dna capace di muoversi da solo in qualsiasi direzione, anche su superfici sconnesse. Composto da un'unica molecola di Dna, ha due 'gambe' unite da un 'dorso', e in futuro potrà viaggiare nel corpo umano alla ricerca di cellule tumorali da segnalare o distruggere. Lo hanno realizzato i ricercatori dell'Università del Texas ad Austin, che ne illustrano le caratteristiche sulla rivista Nature Nanotechnology.
 ''Questo è un importante passo avanti nello sviluppo di nano-macchine fatte di acidi nucleici come il Dna che possono agire in maniera del tutto autonoma in diverse situazioni, anche all'interno del corpo'', spiega Andrew Ellington, che lavora presso il Centro di biologia sintetica dell'Università del Texas.atteristiche sulla rivista Nature Nanotechnology. ''Queste nanotecnologie del Dna - aggiunge il ricercatore - sono interessanti perchè esplorano il mondo dei cosiddetti 'computer di materia', dove la computazione (incluso il movimento in questo caso) è portata avanti da oggetti fisici e non da componenti elettroniche o magnetiche. Queste macchina di Dna potranno aiutare le cellule di difesa a camminare sulla superficie degli organi, elaborando costantemente i dati per svelare se è presente un tumore''. Nel prossimo futuro, questi nano-robot di Dna potrebbero essere usati anche per il trasporto mirato di farmaci.

Foto e video più veloci con il transistor che imita l’occhio umano: E' in silicio ed è flessibile.

Fonte: ANSA Scienze
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Catturare foto e video più rapidamente e con una qualità migliore: è la promessa del primo fototransistor flessibile che si ispira agli occhi dei mammiferi. Potrebbe migliorare l'efficienza di molti altri strumenti, dai dispositivi per la visione notturna ai satelliti. Descritto sulla rivista Advanced Optical Materials, il dispositivo è stato realizzato dal gruppo di ricerca coordinato da Zhenqiang Ma, dell'università americana Wisconsin-Madison.
 Come l'occhio umano, il fototransistor cattura la luce e la converte in una carica elettrica. Ma a differenza di quanto accade negli occhi, dove gli impulsi elettrici trasmettono direttamente l'immagine al cervello, nel fototransistor la carica elettrica viene trasformata in un codice numerico binario, cioè una lunga serie di 1 e 0, che contiene le informazioni relative all'immagine.
 Per imitare ancora meglio il comportamento dell'occhio dei mammiferi, il fototransistor è flessibile, a differenza dei fototransistori tradizionali che sono fabbricati su superfici rigide. Per renderlo flessibile i ricercatori lo hanno costruito in silicio su un substrato di plastica e hanno aggiunto uno strato sottilissimo di metallo sul fondo. ''Siamo in grado di fabbricare il fototransistor anche curvo per adattarlo al sistema ottico che vogliamo'' spiega l'autore. ''Finora - dice -non c'era un modo semplice per farlo''.
 In questo modo il dispositivo può essere usato per migliorare le prestazioni di molti prodotti, dalle fotocamere digitali, ai visori notturni, fino ai rilevatori di fumo e ai satelliti. Il segreto della super efficienza del nuovo transistor è che, a differenza dei fotorivelatori tradizionali, non vi sono strati di metallo posti al centro del dispositivo che bloccano parte della luce assorbita.

Costruito il primo chip che avvicina i computer quantistici: ha tutte le caratteristiche necessarie, per la produzione su larga scala.

Fonte: ANSA Scienze
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E' stato costruito il chip destinato ai computer quantistici, i computer del futuro molto più potenti degli attuali supercomputer e capaci di analizzare dati numerosissimi e complessi, come quelli relativi ai mercati finanziari o ai trasporti. Il prototipo, descritto sulla rivista Science Advances e costruito in Australia, ha tutte le caratteristiche per consentire la produzione in larga scala, destinata all'industria.
Frutto della collaborazione dell'università del Nuovo Galles del Sud e quella di Melbourne, il risultato rende i computer quantistici più vicini che mai a diventare una realtà. Realizzarli richiede infatti il superamento di sfide tecnologiche non da poco.
 La prima in assoluto consiste nel controllare il comportamento di particelle singole, che segue le regole bizzarre della fisica quantistica. E' infatti nelle singole particelle, come quelle di luce (i fotoni), la futura chiave per veicolare le informazioni, sostituendo ai tradizionali i bit i bit quantistici, chiamati qubit.
 La seconda grande sfida è riuscire a controllare grandi quantità di qubit, considerando che per fare un vero calcolatore ne servirebbero milioni.
Un passo in avanti decisivo è il chip in 3D costruito in Australia, che da solo riesce a gestire più qubit. "Questa architettura ci fornisce tutto il necessario per aumentare le dimensioni dei processori quantistici'', ha osservato uno degli autori della ricerca, Sven Rogge, dell'università del Nuovo Galles del Sud. E' il punto di partenza, ha aggiunto, per ottenere strutture capaci di gestire milioni di qubit.