giovedì 2 agosto 2018

Luce ultravioletta fondamentale per la vita.

Fonte: Media INAF
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Uno studio pubblicato ieri su Nature Advanced, grazie al lavoro svolto da un team di ricercatori del Regno Unito, ha trovato un collegamento tra condizioni per lo sviluppo di forme di vita extraterrestre e l'intensità della luce emessa dalla stella attorno alla quale orbita l'esopianeta.

Ricercatori dell‘Università di Cambridge e del Medical Research Council Laboratory di biologia molecolare (Mcr Lmb) hanno scoperto che le possibilità per cui si possano sviluppare forme di vita sulla superficie di un pianeta roccioso, come la Terra, sono collegate alla tipologia e all’intensità della luce emessa dalla sua stella ospite. Lo studio, pubblicato ieri su Science Advanced, è il risultato di una particolare collaborazione tra il Cavendish Laboratory di Cambridge e il Nrc Lmb, unione tra chimica organica e ricerca degli esopianeti.
Stelle che emettono sufficiente luce ultravioletta, potrebbero dare il calcio di inizio alla vita sui loro pianeti orbitanti, così come è probabile sia accaduto sulla Terra, dove i raggi Uv innescarono una serie di reazioni chimiche, producendo gli elementi costitutivi della vita. I ricercatori hanno individuato un gruppo di esopianeti, situati nella fascia di abitabilità della loro stella, dove la luce ultravioletta di questa è sufficiente per permettere a tali reazioni chimiche di avere luogo.
«Questo lavoro ci consente di restringere i posti migliori per cercare la vita» ha detto Paul Rimmer, ricercatore postdoc affiliato al Cavendish Laboratory e al Mrc Lmb, nonché primo autore del paper. «Ci porta un pò più vicini ad affrontare la questione se siamo soli nell’Universo».
Lo studio è stato costruito sul lavoro svolto dal professor John Sutherland, coautore del paper e studioso delle origini chimiche della vita sulla Terra, il quale già nel 2015 aveva suggerito che il cianuro, anche se mortale, fosse un ingrediente chiave nella zuppa primordiale da cui tutta la vita sulla Terra ha avuto origine. In questa ipotesi il carbonio derivante dalle meteoriti che si schiantarono sulla giovane Terra interagì con l’azoto presente nell’atmosfera, creando così l’acido cianidrico. L’acido cianidrico è piovuto sulla superficie, dove ha interagito con altri elementi in vari modi, alimentato dalla luce ultravioletta del Sole. Le sostanze chimiche prodotte da queste interazioni hanno generato gli elementi costitutivi dell’Rna, che la maggior parte dei biologi crede sia la prima molecola di vita in grado di trasmettere informazioni. In laboratorio il gruppo di Sutherland ha ricreato queste reazioni chimiche sotto le lampade Uv, e generato i precursori di lipidi, amminoacidi e nucleotidi, che sono tutte componenti essenziali delle cellule viventi.
«Mi sono imbattuto in questi esperimenti precedenti, e come astronomo, la mia prima domanda è sempre stata quale tipo di luce stessero usando, cosa cui, in quanto biologi, non avevano realmente pensato. Ho cominciato misurando il numero di fotoni emessi dalle loro lampade, e poi realizzato che confrontare questa luce con quella di diverse stelle era un inequivocabile passo successivo», ha spiegato Rimmer. 
I due gruppi di ricercatori hanno eseguito una serie di esperimenti di laboratorio per misurare quanto velocemente gli elementi costitutivi della vita si possano formare dagli ioni di acido cianidrico e di acido solfidrico in acqua, una volta esposti alla luce ultravioletta. Hanno poi ripetuto lo stesso esperimento in assenza di luce. In quello eseguito sotto la luce sono emersi gli elementi costitutivi necessari, mentre da quello al buio è risultato un composto inerte non idoneo. I ricercatori hanno pertanto tracciato la quantità di luce ultravioletta necessaria ai pianeti in orbita per determinare dove la chimica potrebbe essere attivata. 
Hanno scoperto che le stelle che hanno circa la temperatura del nostro Sole emettono abbastanza luce per la formazione degli elementi costitutivi per la vita sulla superficie dei loro pianeti. Le stelle fredde d’altra parte, non producono abbastanza luce per la creazione di questi elementi, a meno che non abbiano potenti brillamenti solari tali da innescare adeguate catene di reazioni chimiche.
I pianeti che rispettano le condizioni sopra indicate si collocano in quella che i ricercatori hanno chiamato zona di abiogenesi. Tra gli esopianeti conosciuti che si trovano in questa zona, alcuni sono stati rilevati dal telescopio Kepler, incluso Kepler 542b, pianeta a cui è stato dato il soprannome di “cugino” della Terra, nonostante sia troppo lontano per essere esplorato con la tecnologia attuale. Telescopi di prossima generazione, come Tess e James Webb Space Telescope (Jwst), saranno in grado di identificare e caratterizzarne un numero più ampio. 
Se si fossero sviluppate forme di vita su altri pianeti, è certamente possibile che ciò sia accaduto con modalità differenti rispetto alla Terra. Sicuramente, è anche possibile che se mai si sviluppassero delle forme di vita su altri pianeti, questo potrebbe avvenire con modalità differenti da come è accaduto sulla Terra. «Non sono sicuro di quanto sia contingente la vita, ma dato che abbiamo un solo esempio finora, ha senso cercare altri posti che sono più simili a noi. C’è un’importante distinzione tra ciò che è necessario e ciò che è sufficiente. Gli elementi costitutivi sono necessari, ma potrebbero non essere sufficienti: è possibile che li mescoli per miliardi di anni e che non accada nulla. Ma vuoi almeno guardare nei luoghi dove le cose necessarie esistono», ha continuato Rimmer.
Secondo stime recenti, ci sono circa settecento miliardi di miliardi di pianeti simili alla Terra nell’universo osservabile. «Avere un’idea di in quale frazione [di questi pianeti, nda] possa essere stata, o potrebbe essere, innescata la vita mi affascina. Certamente avere condizioni favorevoli per la vita non è tutto e ancora non sappiamo quanto sia probabile l’origine della vita, anche in circostanze favorevoli – se risulta improbabile allora potremmo essere soli, altrimenti potremmo avere compagnia» ha concluso Sutherland.
Per saperne di più:

mercoledì 1 agosto 2018

Grande Piramide, i fisici scoprono il segreto della sua energia: Diventa il modello per le celle solari del futuro.

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Le celle solari del futuro si ispirano alla Piramide di Cheope: al di là delle leggende, la piramide di Giza è stata studiata con i metodi della fisica ed è emerso che riesce a concentrare l'energia elettromagnetica, e precisamente le onde radio, sia nelle camere interne sia nella base. Si potrebbero così progettare nanoparticelle ispirate alla struttura di questo edificio che siano in grado di riprodurre un effetto analogo nel campo dell'ottica, da utilizzare per ottenere celle solari più efficienti. Lo indica la ricerca pubblicata sul Journal of Applied Physics e condotta dai fisici della Itmo University a San Pietroburgo e del tedesco Laser Zentrum di Hannover.
Per Tullio Scopigno, fisico dell'Università Sapienza di Roma, l'applicazione prospettata dai ricercatori è interessante "ma questo studio va preso con cautela, in quanto basato su modelli matematici non ancora supportati da evidenze sperimentali". I ricercatori hanno condotto lo studio perché interessati alla struttura della della tomba del faraone Cheope dal punto di vista fisico. In particolare hanno voluto vedere come le onde radio si distribuiscono nella sua complessa struttura.
Per farlo hanno ipotizzato che non ci siano cavità sconosciute e che il materiale calcareo da costruzione sia uniformemente distribuito. Sulla base di queste ipotesi è stata messa a punto una simulazione matematica e si è visto che la Grande Piramide può concentrare le onde radio nelle sue camere interne e sotto la base, un po' come una parabola.
Questo avviene, rileva Scopigno, perché "la lunghezza d'onda delle onde radio, compresa 200 e 600 metri, è in un certo rapporto rispetto alle dimensioni della piramide". Questo significa che per avere lo stesso effetto con altri tipi di radiazioni che hanno lunghezze d'onda diverse, come la luce, sono necessarie strutture di dimensioni diverse, precisamente occorrono dispositivi in miniatura. Ecco perché i ricercatori prevedono di progettare nanoparticelle, ossia delle dimensioni di qualche milionesimo di millimetro, e a forma di piramide,  in grado di riprodurre effetti simili nel campo ottico, da usare nelle celle solari.

lunedì 30 luglio 2018

L'intelligenza artificiale è riuscita a leggere la 'mente' di un altro computer.

Fonte: ANSA Scienze
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L'intelligenza artificiale è riuscita a leggere la 'mente' di un altro computer: è un primo passo verso uno scenario in cui le macchine potrebbero collaborare tra loro. Il risultato, si legge sul sito della rivista Science, si deve al progetto ToMnet messo a punto dall'azienda DeepMind di Google ed è stato presentato a Stoccolma, nella Conferenza internazionale sull'apprendimento delle macchine.
Messo a punto sotto la guida di Neil Rabinowitz, il progetto ToMnet si basa su tre reti neurali, ossia reti che imitano l'organizzazione del cervello, ciascuna in grado di apprendere dall'esperienza.

Per addestrare l'intelligenza artificiale di ToMnet a prevedere i comportamenti di altre macchine, i ricercatori hanno utilizzato un gioco virtuale basato su tre categorie di personaggi che si muovevano in una stanza per raccogliere caselle colorate: personaggi ciechi che tendevano a seguire i perscorsi lungo muri,  miopi che si spostavano solo verso gli oggetti più vicini e personaggi dalla supervista, che afferravano strategicamente gli oggetti in un ordine specifico per guadagnare più punti.
Dopo un po' di addestramento, il sistema è riuscito a identificare tutti i personaggi grazie a pochi passaggi e a prevedere in modo corretto il comportamento di ognuno di essi.

L'intelligenza artificiale alla velocità della luce, grazie a un dispositivo ottico stampato in 3D.

Fonte: ANSA Scienze
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L'intelligenza artificiale mette il turbo e si prepara a funzionare alla velocità della luce, grazie a un dispositivo ottico stampato in 3D alla base di una rete di neuroni artificiali, che imita quella naturale del cervello. Descritto sulla rivista Science, il dispositivo è stato messo a punto dal gruppo coordinato da Aydogan Ozcan, dell'università della California a Los Angeles (Ucla).

Le reti neurali artificiali sono alla base dei sistemi di apprendimento automatico e dell'intelligenza artificiale e vengono utilizzate anche per analizzare immagini mediche e nella traduzione linguistica. "Attualmente queste reti sono sia virtuali, cioè fatte con un software, sia fisiche, cioè consistono in circuiti elettronici in cui i neuroni sono elementi fissi e le connessioni sono fili", ha osservato Vincenzo Galdi, dell'università del Sannio, che con le università della Pennsylvania e del Texas lavora ai computer analogici del futuro e alla progettazione dei nuovi materiali capaci di elaborare le informazioni veicolate dalla luce.

La rete neurale, progettata dai ricercatori e chiamata Diffractive Deep Neural Network (D2NN), è basata invece su dispositivi ottici ed è formata da 5 lamine parallele stampate in 3D, su cui sono incisi dei punti, in grado di distorcere le onde di luce e che agiscono come neuroni artificiali che sono connessi tra loro attraverso le onde di luce.

Il dispositivo è stato addestrato a riconoscere 55.000 immagini e ha imparato a identificarle con una precisione del 91,75%. "E' una prova di principio importante - ha rilevato l'esperto - che serve a dimostrare che è possibile fabbricare dispositivi destinati a reti neurali ottiche che funzionano alla velocità della luce e non consumano energia, perché non c'è bisogno di una batteria che le alimenti".

martedì 19 giugno 2018

Il laser più piccolo di un globulo rosso: Possibili applicazioni dalle neuroscienze ai microchip.

Fonte: ANSA Scienze

Costruito un laser  più piccolo di un globulo rosso: trasforma la luce infrarossa in luce a frequenze più alte e la emette costantemente per ore, anche quando è immerso in fluidi biologici, come il sangue. Descritto sulla rivista Nature Nanotechnology, potrà essere utilizzato sia per controllare l'attività biologica, ad esempio di neuroni, con gli infrarossi, sia per fabbricare microchip che sfruttano la luce.
Il laser è stato realizzato nel Berkeley Lab, il laboratorio del Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti gestito dall'Università della California a Berkeley, a partire da sfere di materiale plastico del diametro di 5 millesimi di millimetro rivestite da nanoparticelle. Le proprietà di questi laser sono state scoperte per caso mentre i ricercatori, coordinati da Angel Fernandez-Bravo, studiavano un materiale plastico traslucido utilizzato per l'osservazione del cervello con tecniche di imaging come la Tac.
I ricercatori del Berkeley Lab hanno osservato che, quando la luce infrarossa colpisce le nanoparticelle, queste ultime emettono luce a frequenze più elevate che "rimbalza all'interno delle sfere come le voci tra le mura di una cattedrale", hanno spiegato. Per gli autori, "i laser potranno avere molteplici applicazioni: dal controllo dell'attività dei neuroni e dei microchip al monitoraggio ambientale di sostanze chimiche e delle temperature".

martedì 12 giugno 2018

Fermioni di Majorana: Stabilito un nuovo limite al decadimento doppio beta senza neutrini.

Fonte: Media INAF
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Grazie a un'esposizione record con calorimetri scintillanti basati su cristalli di seleniuro di zinco, il prototipo del futuro esperimento Cupid ha stabilito un nuovo limite al decadimento doppio beta senza neutrini. I risultati, ottenuti ai Laboratori nazionali del Gran Sasso dell'Infn, sono appena usciti su Physical Review Letters.
L’esperimento Cupid-0 (Cuore Upgrade with Particle Identification), installato presso i Laboratori nazionali del Gran Sasso (Lngs) dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, ha pubblicato su Physical Review Letters i suoi primi risultati. A circa un anno dall’inizio della presa dati, cominciata nel marzo 2017, gli scienziati della collaborazione Cupid-0 hanno ottenuto un nuovo limite per il decadimento doppio beta senza neutrini in un isotopo del selenio. Il nuovo limite è circa dieci volte superiore al precedente.
Cupid-0 sta testando calorimetri scintillanti (bolometri) basati su cristalli di seleniuro di zinco, sviluppati grazie al finanziamento dello European Research Council (Erc, Advanced Grant) del progetto Lucifer (Low-background Underground Cryogenic Installation for Elusive Rates), vinto nel 2009 da Fernando Ferroni, attuale presidente dell’Infn. Questa tecnologia sarà poi impiegata nel futuro progetto Cupid, un grande esperimento di terza generazione che verrà costruito ai Lngs nella prossima decade.
Cupid-0 studia il decadimento doppio beta senza neutrini, un fenomeno rarissimo che, se rivelato, implicherebbe che neutrino e antineutrino sono particelle di Majorana, cioè che particella e antiparticella coincidono.
«Cercare di dimostrare l’ipotesi di Majorana sulla natura del neutrino che forse ci potrebbe aiutare a comprendere il mistero della scomparsa dell’antimateria è un’impresa di una difficoltà straordinaria. Cupid-0 apre una prospettiva realistica per un futuro esperimento che possa avere una possibilità di successo», sottolinea Fernando Ferroni, presidente dell’Infn.
«Il grande sforzo della collaborazione è iniziato nel 2010 con il grant europeo Lucifer e oggi viene ampiamente ripagato da questi risultati scientifici. Ringrazio quindi tutti i colleghi che negli anni hanno contribuito a costruire questo successo e i Lngs per il continuo supporto offerto», commenta lo spokesperson Stefano Pirro (Lngs).
«I bolometri per la ricerca del doppio beta, dopo 30 anni di sviluppo e il successo di Cuore, entrano con Cupid-0 in una nuova fase», aggiunge Ezio Previtali, responsabile nazionale dell’esperimento. Siamo orgogliosi perché è l’Infn ad aver ideato questa nuova classe di rivelatori e ad averli portati fino allo sviluppo attuale».
In Cupid-0 sono coinvolte le sezioni dell’Infn di Genova, Roma1, Milano Bicocca e i Laboratori nazionali di Legnaro e del Gran Sasso che ospitano l’esperimento.
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