lunedì 31 dicembre 2012

Ignazio Licata: Tempo, Coscienza e Complessità. Viaggio dalla materia al vivente, e ritorno.

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Tempo e Coscienza
 
Perché un fisico dovrebbe occuparsi del tempo della coscienza? Più che dal tradizionale “imperialismo” dei fisici, che tendono ad occupare ogni spazio scientifico disponibile colonizzandolo con i loro strumenti, l’intervento è qui reso necessario da una serie di fraintendimenti e false polemiche che rivelano ancora una volta il grado di analfabetismo scientifico del nostro paese. E poiché per principio non vorremmo avallare alcuna dicotomia netta tra le “due culture”, quello che viene fuori è un quadro piuttosto desolato e desolante: al di là delle dichiarazioni di principio, non soltanto non c’è unità culturale tra il fare scientifico ed il fare umanistico, ma proprio le forme mediatiche di questa invocata “unità” mostrano l’incapacità di vedere le connessioni naturali- storiche, critiche, metodologiche-, tra approcci diversi. Il tempo e la coscienza ( per non parlare del tempo della coscienza e della coscienza del tempo, che lasciamo come tappa finale), sono per un fisico legati da una costellazione concettuale che cercheremo di esplorare per rapide tappe, come 1. Origine, 2. Leggi 3. Emergenza. 4. Probabilità. 4. Macchine. 5. Cognizione.
Il nostro obiettivo è tentare di rispondere al dibattito tra A. Einstein ed H. Bergson, tra il tempo operativo misurato dagli orologi ( classici e relativistici, ma vedremo anche la differenza radicale del caso quantistico), in generale il tempo delle macchine, ed il tempo “elastico”, “denso”, “emotivo” dell’esperienza individuale, il tempo dei significati contro il tempo dei clocks, quello della TuringLand contro il tempo della DuchampLand, per prendere in prestito due termini del dibattito contemporaneo sull’arte, che è forse il luogo dove la differenza tra le due concezioni di tempo diviene, per così dire, tangibile. Queste concezioni sono vicine? Lontanissime? In contrasto? In particolare, è necessario introdurre principi fisici nuovi e diversi da quelli che reggono le forme ordinarie di materia per spiegare la coscienza, come sembrano suggerire anche alcuni fisici come Roger Penrose? Vogliamo suggerire qui una via diversa, una via di complessità ed anelli intrecciati, dove si passa dalla materia alla materia vivente e poi a quella pensante che riflette le – e sulle-prime due. E ciò che cambia in questa gerarchia non sono tanto le leggi ma i vincoli che caratterizzano le possibilità che da quelle leggi possono emergere.

Origine

Mi viene in mente James Joyce, con il suo tipico humor molto irish, “al tempo dei tempi…ed erano bei tempi!”. Dico questo perché il “tempo degli orologi” non ha più cittadinanza fondamentale in fisica da un pezzo. E non mi riferisco alla fusione tra spazio e tempo operata agli inizi del 900 dalla relatività ristretta di Lorentz ed Einstein, quella magnificamente espressa dalla frase famosa del matematico H. Minkowski “ D’ora in avanti lo spazio ed il tempo separati saranno solo ombre, l’unica realtà fisica sarà l’unione matematica dei due, lo spazio-tempo”. Non mi riferisco neppure al tempo “deformabile” della relatività generale, che è un elegantissimo linguaggio matematico che serve per dire una cosa antichissima, già scoperta da un distratto Galilei nel duomo di Pisa, ossia che tutti i corpi cadono con la stessa accelerazione. Nessuna di queste cose può dare il senso, tutto contemporaneo, della scomparsa del tempo in fisica quantistica. Per farlo bisogna avere un’idea della non-località, che è l’elemento cruciale del mondo quantistico. Immaginate un salto quantico: un atomo assorbe o emette energia ed un elettrone orbitale passa da un livello energetico ad un altro; oppure pensiamo ai fenomeni di creazione-annichilazione di particelle. Tutti fatti ben noti al tempo degli acceleratori e del bosone di Higgs. La domanda è: quali sono le modalità del salto dell’elettrone da un livello energetico ad un altro? E’ come il passaggio da un gradino ad un altro? In un processo di creazione-annichilazione dove vanno queste particelle? Da dove vengono? La risposta è nel vuoto quantistico, la versione del mare di Talete della fisica teorica. Questo vuoto è in sé atemporale. O per essere leggermente più tecnici senza abbandonare il gioco della suggestione, è un’entità a tempo immaginario. Il salto dell’elettrone è “istantaneo”, ovvero non-locale. Il vuoto quantistico è la più arcaica e fondamentale forma di materia che riusciamo a scorgere, sia teoricamente che sperimentalmente. E’ , per dirla con D. Deutsch, la fondamentale “fabbrica della realtà”. In esso sono in qualche modo scritte le regole del gioco, quelle per cui, ad esempio, una costante fisica ha un certo valore piuttosto che un altro, oppure perché osserviamo sempre un elettrone e mai mezzo elettrone. Le forme “ordinarie” di materia ed energia che osserviamo e misuriamo, quelle che lasciano una traccia in una camera a bolle di Wilson, che percorrono traiettorie nel tempo e nello spazio e vengono alla fine localizzate con un rivelatore ed un “click”, sono manifestazioni di questo vuoto, sue emergenze. La materia ordinaria è descritta da equazioni dinamiche, di tipo diacronico, il vuoto è descritto come un insieme di vincoli generali di tipo topologico e algebrico, in forma sincronica, che veicolano le sue manifestazioni. La questione non riguarda solo le particelle, come è facile immaginare, ma l’intero universo, che può pensarsi come una sorta di “nucleazione” dal vuoto quantistico, e dunque un emergere del tempo della materia da una struttura di relazioni atemporale. Sia che guardiamo sezioni fini della materia- in teorie come la dinamica reticolare, i loops o le p- brane, che sono la versione più recente delle superstringhe-, sia che guardiamo all’universo nel suo insieme, il tempo non è più un ingrediente fondamentale, ma assieme allo spazio emerge da una rete di transizioni quantistiche non–locali. In effetti, dal punto di vista della fisica quantistica, è la fisica classica, con la località ed il rassicurante spazio tempo classico, a costituire un mistero. In questi approcci supermicroscopici e cosmologici non c’è ancora la materia vivente, se non forse come una vaga possibilità, cosa che J. Barrow e F. Tipler indicano come “principio antropico”. Per avere il tempo degli orologi è necessaria una rottura di simmetria nella simmetria senza tempo del vuoto quantistico, l’emergere di un gran numero di oggetti, il disordine e l’entropia.

Probabilità

Immaginate di filmare una particella isolata, la classica piccola biglia newtoniana in uno spazio vuoto. Se girate il film all’indietro non vedrete nulla di strano. Matematicamente questo vuol dire cambiare nelle equazioni del moto (t) con (-t). E ciò che ottenete è perfettamente legittimo, logico e coerente. Notiamo che non cambiate- tanto per usare un linguaggio che David Hume non ci avrebbe perdonato!- la causa con l’effetto. Invertite soltanto il senso di entrambi. Provate ora a fare lo stesso esperimento cinematografico con un altissimo numero di particelle che si urtano elasticamente una contro l’altra, in un tipico cammino a zig zag detto moto browniano. Anche in questo caso proiettando la pellicola al contrario non vedrete nulla di strano. Potranno esserci casuali addensamenti o rarefazioni di particelle (fluttuazioni), ma alla fine non ci sarà alcun verso del tempo (se non quello dell’orologio della telecamera che riprende, che però non riguarda il sistema di particelle, è ad esso esterno!). Il senso del tempo, ancora una volta, viene fuori quando c’è un’asimmetria. Ma questa non va cercata nelle leggi, che per loro natura estraggono da un fenomeno gli aspetti strutturali, ma nelle condizioni al contorno ed iniziali.
Questo è un punto molto importante, sul quale vorrei che prestaste attenzione. Le condizioni al contorno ed iniziali sono il naturale completamento delle “leggi fisiche”. Vi dicono “dove” e “come” applicare la legge al caso in esame. Senza di esse avreste solo un enunciato generale su una classe di fenomeni, ma non potreste in alcun modo descrivere “quel” fenomeno specifico! Nel caso del vuoto quantistico e dell’origine dell’universo, come abbiamo visto, le condizioni vincolanti sono più importanti delle leggi stesse. O per essere più precisi, coincidono. Le dinamiche dell’universo classico emergono da ciò che “è scritto” al fondo del vuoto quantistico. Ritorniamo ora al nostro esperimento filmato. Stavolta si tratta di un gas in una boccetta aperta. I moti browniani spingeranno progressivamente il gas fuori dalla boccetta attraverso un processo di diffusione. Stavolta se girate il film all’indietro vedete qualcosa di paradossale: le molecole si coordinano per rientrare nella boccetta! Il fenomeno, nel quale pure non abbiamo introdotto nessuna legge fisica nuova!, mostra un’asimmetria temporale, una “freccia del tempo”. La differenza è data proprio dalle condizioni iniziali, come mostrò con una raffinata analisi matematica L. Boltzmann. E’ estremamente improbabile ( badate, non impossibile) che le particelle rientrino “spontaneamente” nella boccetta ripristinando le condizioni iniziali. Potrebbe avvenire solo su tempi cosmologici ( tempo di Poincaré), attraverso fluttuazioni rarissime. Abbiamo stabilito dunque un punto importante. La freccia del tempo non risiede nelle leggi della fisica, ma piuttosto nell’asimmetria delle condizioni. Ed è qualcosa legato alla probabilità che quelle condizioni si realizzino.

L’emergenza della vita

Quante probabilità c’erano che dalla materia venisse fuori la materia (ed il tempo) dei sistemi viventi? Il vecchio “brodino di amminoacidi” evoca tempi di Poincaré e dunque probabilità piccolissime, vicine al miracolo. Ed infatti le prime forme di teorie dell’emergenza, invocate agli inizi del 900 da biologi come H. Driesch, erano in fondo l’invocazione di un miracolo scientifico, la ricerca di principi in grado di contrastare l’entropia e favorire la nascita e lo sviluppo di forme organizzate in grado di mostrare una certa autonomia nei confronti dell’ambiente. Ad esempio il vitalismo fu un paradigma di questo tipo, una decisa dichiarazione di principio contro il meccanicismo newtoniano alla ricerca ( infruttuosa!) di teorie in grado di vincere la battaglia. Ma come spesso accade nella scienza, non sono le rivolte paradigmatiche a portare benefici, ma piuttosto lo sviluppo e l’integrazione delle conoscenze. Oggi noi sappiamo che esistono processi di auto-organizzazione regolati da complesse reti non-lineari (a cui forse non è estraneo qualche sottile effetto quantistico) che permettono l’emergenza della materia vivente dalla materia ordinaria. Non c’è tra i due livelli descrittivi incompatibilità. Proprio i sistemi viventi sono il più evidente e clamoroso caso della validità epistemologica del “More is Different” del Nobel per la fisica P. Anderson. Più particelle assieme possono mostrare comportamenti non banalmente riducibili a quelli dei singoli costituenti. Questa non è una novità. Utilizziamo il concetto di entropia per caratterizzare il “disordine” che deriva dalla perdita delle correlazioni energetiche in un sistema di particelle. Che senso avrebbe il concetto di entropia per una singola particella in un universo vuoto? In modo simile, i concetti della biologia sono ovviamente compatibili con quelli della fisica di base, ma le due sintassi non sono deducibili una dall’altra, non più di quanto abbia senso dire che tutte le aperture e le partite di scacchi sono già contenute nella definizione del movimento dei pezzi e nella posizione iniziale. Ogni scacchista sa benissimo che per analizzare le possibilità della partita spagnola o della difesa Siciliana o Nimzoindiana è necessario costruire un meta-linguaggio che si pone ad un livello assai superiore a quello delle regole di base. E tenete conto comunque che l’esempio è limitato, volutamente minimale, ai limiti del fuorviante, perché una partita di scacchi è comunque finita dal punto di vista combinatorio, mentre i sistemi viventi, ed ancora di più quelli dotati di sistema cognitivo, non si limitano a giocare un gioco, ma ne modificano continuamente le regole, ed i pezzi! Va detto a questo punto che molti dibattiti su determinismo, riduzionismo, meccanicismo e causalità sono devastati da un vizio di fondo gravissimo dal punto di vista della metodologia scientifica. Ossia confondono il piano del “cosa io penso del mondo” da quello , assai più vincolato, arduo e difficile, del “cosa io posso effettivamente descrivere nel mondo attraverso modelli e procedure operative”. Il primo stile di pensiero porta a ragionamenti apparentemente convincenti come “non c’è nulla di strano o miracoloso in ciò che osservo. A attiva B , questo reagisce con C e produce l’effetto cercato. Certo, sono numeri grandi, ma alla fine quello che succede è nient’altro che questo”. Certo, nulla da eccepire, tranne il “nient’altro che”! E’ vero che la trama del mondo è descritta da un gioco sottile di transazioni quantistiche tra modi del campo, ma è pur vero (ed è dimostrabile rigorosamente in teoria quantistica dei campi) che il numero di manifestazioni possibili emergenti da questa rete di transazioni è enorme, e tutt’altro che banalmente predicibile, perché dipende dai vincoli che via via si producono tra sistema ed ambiente. Questa è un’altra delle distinzioni ignorate da chi ragiona in maniera naive. Chi segue idealmente con la mente la micro-catena degli eventi ( magari pensando anche i costituenti elementari come piccole palline newtoniane o pezzi di un ingranaggio invece che sottili entità quantistiche), non specifica mai la sua posizione di osservatore. Il ché significa, senza rendersene conto, assumere il punto di vista del demone di Laplace o dell’occhio di Dio, un occhio in grado di abbracciare ogni entità dell’universo, inserirla in un insieme “fondamentale” di equazioni , come erano ritenute le equazioni di Newton ai tempi di Laplace, e calcolare il loro passato, presente e futuro. In questo modo si dimentica però che ogni osservatore è immerso nel mondo, ed ogni osservazione è una scelta mirata su una partizione ideale tra sistema/ambiente. Come scrive efficacemente il filosofo H. Jonas nel suo saggio “Dio è un matematico?”, la risposta è “no”! Infatti se per “matematico” intendiamo un occhio che guarda soltanto ed unicamente le particelle, allora non vedrà mai i comportamenti collettivi, globali, e tantomeno gli organismi. Che è poi esattamente quello che cercavano di dire più o meno nello stesso periodo H. Maturana e F. Varela con il concetto di autopoiesi. Man mano che andiamo verso una complessità crescente ed organizzata, l’importanza dei vincoli dinamici diventa pari, se non superiore, a quella delle leggi e dei costituenti. Questo non vuol dire che un’analisi riduzionista è impossibile o inutile, ma che va integrata con approcci globali d’emergenza. E che, alla fin dei conti, il vero senso della complessità è l’esistenza di gerarchie intrecciate e non banali tra livelli di descrizione microscopici, mesoscopici e macroscopici. Una volta abbandonato il riduzionismo ideologico, la buona novella matematica è data dalla possibilità di costruire una fisica ed una matematica dei sistemi complessi, che mira a studiare i comportamenti collettivi e le configurazioni informazionali globali.
Andando dunque all’effettiva, galileiana descrizione scientifica del mondo (scegliere cosa descrivere e specificare come farlo), dobbiamo semplicemente prendere atto che sono molto pochi i sistemi che noi possiamo descrivere in modo deterministico, ed anche qui possiamo avere sorprese, come ci insegna il caso dei tre corpi e la sensibilità alle condizioni iniziali dell’ormai famosa farfalla del caos. Che l’analisi riduzionista e l’emergenza sono approcci complementari, e che livelli e gerarchie di fenomeni diversi sono ovviamente compatibili, ma non riducibili uno all’altro. Non esiste alcun problema tra fisica e biologia, tranne l’ostinazione di chi sostiene che la complessità del mondo è zippabile in un “nient’altro che”. Ovvero non comprendere che quel vincolo, quel particolare vincolo, qui ed ora, permette ai costituenti ed alle leggi che ne regolano i comportamenti di esprimere una storia anziché un’altra. Il tempo dei vincoli è il tempo delle storie possibili.

Macchine ed Evoluzione

La frase di Galileo Galilei “il gran libro della natura è scritto in caratteri matematici” ha goduto tanta fortuna da far dimenticare l’impresa scientifica all’interno della quale acquista senso, ed è sempre più spesso utilizzata come slogan mediatico di una sorta di delirio platonico per utenti compulsivi di meraviglie scientifiche. Ad esempio, mi è capitato di leggere che il nostro cervello, mentre attraversa la strada, risolve migliaia di equazioni differenziali ( immagino che il giornalista/divulgatore si riferisse ad un modello Lotka Volterra, predatore-preda). Ma naturalmente non è così. Piuttosto è il contrario. Siamo noi che cerchiamo di costruire modelli matematici di una capacità che l’evoluzione ha sviluppato ed affinato in migliaia d’anni. Ed è la stessa logica a rovescio, associata al meccanicismo naive, che ancora giustifica in qualcuno il sogno di una mente artificiale racchiusa in un algoritmo ( sufficientemente complesso, of course!). E permette che questa visione meccanicista influenzi pure le attuali neuroscienze, a riprova che un’attività scientifica è intimamente legata alle prospettive epistemologiche che adotta.
Se le teorie fanno “parlare” i fatti, che altrimenti sono “muti”, l’approccio metodologico e la visio epistemica fanno “parlare” le teorie. Se ci si ostina ad essere meccanicisti, si vedrà tutto come un enorme complicato meccanismo, ma sfuggirà la complessità autentica, che si rifugerà nella ricerca del “miracolo” , invocando “principi nuovi”- un po’ come i biologi vitalisti all’inizio del 900- quando invece basterebbe soltanto un po’ di scienza in più. Perché quando non è costretta a fare la caricatura di una ideologia rigida ed inacidita, la scienza ha una naturale capacità autopoietica di tirarsi fuori dai guai da sola. Nessuna sorpresa, tornando alla frase di Galilei, che circa 300 anni dopo Eugene Wigner si interrogasse sull’”irragionevole efficacia della matematica nel descrivere la natura”. Ma non c’è nulla di irragionevole. Siamo noi a costruire i modelli e la rappresentazioni per accordare il nostro sistema cognitivo al mondo, mappe per orientarci, scale per salire. La matematica è soltanto uno dei linguaggi possibili , ed efficaci, per costruire rappresentazioni, a patto di fare i conti criticamente e continuamente con la consapevolezza che ciò che i modelli matematici descrivono è una nostra scelta/costruzione, non è dato “già li”, in qualche iperuranio di forme perfette da espugnare con un “metodo” come si fa con le rape sottoterra. Il punto importante da capire è che nei fenomeni davvero complessi, per intenderci nello studio dei processi -a meno che non siano semplici come la diffusione di un gas o di una funzione d’onda- , i vincoli dinamici che si creano tra sistema ed ambiente sono più importanti persino delle leggi e dei costituenti. E proprio l’evoluzione è un magnifico esempio di questo discorso.
Perché noi siamo “fatti” così? Perché esistono 20 tipi di amminoacidi e non altri? La risposta potrebbe essere perché ad un certo punto, nel suo gioco di variazioni, l’evoluzione ha prodotto il pikaia gracilens nel medio cambriano, creando una possibilità, un vincolo, un ponte evolutivo per la comparsa dei vertebrati. E’ andata così, ed una volta che è successo tutto questo è irreversibile. Questa storia evolutiva è soltanto una di quelle possibili. Nessuna “equazione fondamentale” del brodo primordiale (ammesso che ci fosse), poteva prevederla. L’evoluzione è perfettamente compatibile con la fisica, ma non riducibile alle sue leggi. Assieme alla frase di Galilei sulla potenza descrittiva dei modelli matematici, dovremmo dunque aggiungere una ulteriore riflessione sull’importanza dei vincoli, dei cammini possibili e delle storie, e dire con Marcello Cini che la natura non è un libro, e se lo fosse somiglierebbe più ad un libro di storia che ad un insieme di equazioni! I caratteri e la grammatica di questa storia appartengono sicuramente alla chimico-fisica della macchinette molecolari e degli automi cellulari ma la semantica che emerge richiede il linguaggio dei biologi. Ed è dello stesso tipo la critica che possiamo fare alla ragione artificiale dell’IA: ignorando la storia dei vincoli legati ad un rapporto complesso tra sistema ed ambiente, pretende di ridurre al tempo delle macchine ed alla complessificazione degli algoritmi l’attività della mente, proprio come le tentazioni meccanicistiche delle neuroscienze tendono a dimenticare che il cervello non fotografa il mondo ma lo ricostruisce continuamente, e che l’interazione con il mondo non ci rende più complicati ma più complessi. Mentre la macchina (o il singolo meccanismo neurale) funzionano sempre nello stesso modo, nella mente emergono nuovi codici che ci rendono capaci, come recita un bel titolo di D. Hofstadter, capaci di “concetti fluidi ed analogie creative”. Ma questo avviene perché non siamo una ragione artificiale alle prese con input, ma siamo radicati nel mondo e parte integrante di un flusso che è assieme biologico e cognitivo. Nella sua teoria ecologica della visione, J. Gibson scrive “i nostri occhi sono nella testa, la testa in un corpo ed il corpo in un ambiente”. E non è un caso dunque se nessuna macchina riesce a superare il test di Turing ( tranne che nei film di SF). In termini strettamente matematici, è possibile dire che un’intelligenza artificiale ( intesa almeno nel senso di un’intelligenza che ha al suo cuore raziocinante una macchina di Turing) può calcolare un numero altissimo di probabilità considerando tutti gli stati possibili, mentre la cognizione umana, per dirla con de Finetti, “scommette” razionalmente su una possibilità che , in quel momento, il suo embodiement con il mondo e la sua storia gli suggeriscono come la migliore, o la più immediata. Nelle famose “trappole” visive, Coniglio o Anatra, Giovane o Vecchia, o nell’Angeli o Demoni di Escher in Escher, la macchina vede le due possibilità, e non le sa distinguere, nel suo mondo di pixel non c’è una priorità. Noi vedremo sempre prima o l’una o l’altra. E mentre ogni macchina calcolerà per una data costellazione di stati le stesse probabilità, ogni uomo farà scommesse diverse, perché per nessuno di loro ci saranno “lì fuori”, oggettivamente, le stesse probabilità. Come scrive Pessoa, “non vediamo ciò che vediamo, ma vediamo ciò che siamo”. E quella che Peter Cariani chiama appropriazione semantica dell’informazione. E questo ci porta al tema della individualità radicale e della coscienza.

“Ora lo sai”

Come per i processi biologici, anche per spiegare la coscienza è stato invocato un “miracolo”,o un anti.-miracolo, che negli ultimi anni ha preso diverse forme: da una parte si nega l’esistenza stessa della coscienza, dall’altra si nega piuttosto che possano esistere teorie in grado di spiegarla. Ed anche i fisici hanno dato il loro contributo al bazaar della coscienza, ipotizzando teorie quantistiche che poco hanno a che fare con i dati concreti delle neuroscienze (a meno che non si voglia lasciare il rasoio d’Occam dentro il cassetto), ma soddisfano piuttosto l’esigenza, come ha osservato ironicamente Stephen Hawking, di voler spiegare un mistero con un altro mistero. Nel frattempo il termine “coscienza” si è ampliato fino ad assumere proporzioni imbarazzanti e decisamente confuse. Destino inevitabile dei processi, per loro natura difficilmente zippabili in una definizione. Come abbiamo visto è già accaduto ai concetti di tempo, di vita, evoluzione, intelligenza. Eppure non possiamo negare che la coscienza esiste ed ha un impatto formidabile nelle nostre vicende cognitive. Ci riferiamo in particolare ai “qualia”, ben definiti nei lavori di G. Edelmann e di J. Humphreys, quella bussola cognitiva di stati individuali che dipendendo dal “qui” ed “ora” della nostra interazione con il mondo. Ci limiteremo qui a dire, o meglio: indicare, per evitare il rischio di definizioni pericolose o ingannatrici, che i qualia sono il motivo per cui vi svegliate la mattina ed avete voglia di sentire la pastorale di Beethoven piuttosto che I Rolling Stones. E non una Pastorale qualunque ma una particolare incisione di Furtwangler. Da dove vengono questi stati? Recentemente Leonard Mlodinow ha suggerito che l’emergere dei qualia, e del comportamento che ne deriva, è l’effetto di una causalità di cui non siamo “coscienti”, introducendo così una salutare distinzione tra consapevolezza, pluralità e “peso” emotivo degli stati cognitivi. Questo è del tutto accettabile. Proprio come l’evoluzione non può far emergere forme incompatibili con le sue premesse e vincoli o troppo distanti da queste, così la nostra mente non può valutare o anche soltanto sentire possibilità che in qualche modo non facciano già parte della nostra storia con e nel mondo. Per i sostenitori del libero arbitrio credo sia accettabile ammettere che il nostro sforzo, individuale e collettivo, di ampliare le storie possibili si scontra continuamente con la sezione d’urto che misura “quanto mondo” riusciamo a contenere nelle nostre rappresentazioni. Come scrive efficacemente G. Edelmann, “dove in origine c’era la capacità di distinguere l’acqua dal vino, oggi c’è quella più sofisticata di gustare la differenza tra un Cabernet ed un Pinot”. Ancora una volta, collettivamente ed individualmente, è la complessificazione la chiave della diversità. NIcholas Humprehys nel suo saggio “la privatizzazione delle sensazioni” propone una convincente analisi sul significato evolutivo dello sviluppo della coscienza, come ottimizzazione del rapporto del flusso informativo di un sistema con l’ambiente. Ed è questo flusso, in cui ad ogni istante diversamente siamo immersi, che rende possibile il miracolo delle risposte diverse al mondo. I nostri sensi – scusate l’apparente gioco di parole- non sono sensori. Il nostro rapporto con il mondo non è mai neutro, proprio come i dati della scienza anche le nostre osservazioni empiriche sono sempre “theory laden”, cariche di teoria, aspettativa, anticipazione. Ed è questo che ci rende profondamente diversi da una macchina di Turing. La storia dei vincoli e codici che regolano il nostro rapporto con il mondo rende possibile continuamente un diverso “ora lo sai”, un “peso” dell’istante che non è mai soltanto astratto e razionale ma concreto, incarnato, emotivo. Ed è questo il (falso) problema delle teorie della coscienza.
Come abbiamo visto, una teoria è la descrizione di una classe di eventi strutturati in modo simile. Una qualunque teoria della coscienza può dirci qual è il suo significato evolutivo, può indagare i processi neurali o persino neuro-quantistici che la rendono possibile( ad esempio la bella teoria del Quantum Brain di Giuseppe Vitiello) , ma quel “qui” ed “ora” soggettivo resta il frutto più prezioso della coscienza. E su quello nessuna teoria può dire nulla di scientificamente significativo, non perché sia fuori dalla portata della scienza, ma perché non riguarda una classe ma un evento unico, l’incontro singolare ed irripetibile, irreversibile, tra una mente ed un mondo attraverso un gioco privato di storie, memorie e vincoli. Nessuna teoria può darsi dell’incontro tra una Madeleine e Proust. Il linguaggio d’elezione per parlare di quel momento “lì” non è quello della scienza, è quello dell’arte. Come scrive Giorgio de Chirico, un’opera d’arte è l’incontro di più solitudini, da quella plastica, della recezione delle forme, a quella onirica, metafisica, per la quale è esclusa a priori ogni possibilità logica d’accesso. Ed è peculiare preoccupazione dell’arte della buona scienza non confondere una classe di spiegazioni generali con il qui e l’ora della singolarità.

Percorsi di lettura:
 
H. Bergson, “Durata e simultaneità”, Raffaello-Cortina, Milano, 2004
J. Barrow , F. Tipler, “Il Principio antropico”, Adelphi , Milano, 2002
J. Barrow, “Teorie del tutto. La ricerca della spiegazione ultima”, Adelphi, Milano, 1992
J. Barrow, “Il libro degli Universi. Guida completa agli universi possibili”, Adelphi, Milano, 2012
I. Licata, “Osservando la sfinge. La realtà virtuale della fisica quantistica”, Di Renzo Editore, Roma, 2009
D. Deutsch, “La trama della realtà”, Einaudi, Torino, 1997
I. Licata, “Complessità in fisica. Che cos’è il cambiamento?”, Nuova Civiltà delle Macchine, 4, 2012
H. Jones, “Dio è un matematico? Sul senso del metabolismo”, Il Melangolo, Genova, 1995
H. Maturana, F. Varela, “Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente”, Marsilio, Venezia, 2001
I. Licata, “La logica aperta della mente”, Codice edizioni, Torino, 2008
M. Cini, “Un paradiso perduto. Dall’universo delle leggi naturali al mondo dei processi evolutivi”, Feltrinelli, Milano, 1999
D. Hofstadter, “Concetti fluidi e analogie creative. Modelli per calcolatore dei meccanismi fondamentali del pensiero”, Adelphi, Milano, 1996
A. Clark, “Dare corpo alla mente”, McGraw-Hill, Milano, 1999
L. Mlodinow, “Subliminal: How Your Unconscious Mind Rules Your Behavior”, Pantheon, 2012
G. Edelman, G. Tononi, “Un universo di coscienza. Come la materia diventa immaginazione”, Einaudi, Torino, 2000
N. Humphreys, “Rosso. Uno studio sulla coscienza”, Codice edizioni, Torino, 2007
G. Vitiello, “My Double Unveiled .The dissipative quantum model of brain”, John Benjamins Publ., 2001
G. Vitiello, “Dissipazione e coscienza”, Atque, 16, 1998
G. De Chirico, I. Far, “Sull’arte metafisica”, Commedia dell’arte moderna, Nuove edizioni italiane, Roma, 1945

giovedì 29 novembre 2012

Ignazio Licata: "Il mondo è reale? Riflessioni sulle frontiere della fisica" - Video intervista.

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James Hartle e Stephen Hawking hanno ottenuto un'espressione per la "funzione d'onda dell'Universo" usando la tecnica dell'integrazione sui cammini. La funzione d'onda dell'Universo, considerata come funzione di tre variabili spaziali e di una temporale, è essenzialmente un elenco di tutte le possibili storie, classiche e non classiche, attraverso le quali l'Universo può essere pervenuto al suo stato attuale. Questo a sua volta consiste di tutte le particelle e di tutte le loro combinazioni logicamente possibili che possono esistere nello stadio attuale dell'Universo. Se si accetta l'interpretazione a molti mondi (MWI) della meccanica quantistica, come fanno Hartle e Hawking, tutte queste possibilità sono realmente esistenti. In altre parole, l'Universo, definito come tutto ciò che esiste, coincide con l'insieme di tutte le possibilità logicamente coerenti. Cos'altro potrebbe esservi? Vi sono inoltre forti indicazioni che la struttura matematica della meccanica quantistica richieda che tutte le possibilità distinguibili sul piano dell'osservazione esistano realmente. Più precisamente si può dimostrare che la funzione d'onda dell'Universo ha solo zeri isolati, se si ammette che sia un autostato dell'energia, come hanno fatto Hartle e Hawking, e se l'hamiltoniana dell'Universo è un operatore autoaggiunto. Ciò significa che, nel dominio di tutte le possibilità, la funzione d'onda è diversa da zero quasi ovunque. Ma è impossibile distinguere, operativamente, tra una funzione d'onda che non si annulla mai e una diversa da zero quasi ovunque. Se si dimostrasse che la struttura matematica della meccanica quantistica è logicamente necessaria, si avrebbe una prova che un unico Universo è logicamente possibile: quello in cui viviamo.

mercoledì 14 novembre 2012

Il 'cronografo' piu' preciso del mondo, in funzione al Cern di Ginevra nel 2018.

Fonte: ANSA.it
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Il 'cronografo' piu' preciso al mondo potrebbe presto arrivare dal Cern di Ginevra. Un nuovo rivelatore, la cui installazione e' prevista per il 2018, sara' in grado di misurare gli impulsi di luce piu' brevi mai generati, che, secondo una simulazione del politecnico di Vienna, possono essere ottenuti grazie alle collisioni tra i nuclei di piombo usati nell'esperimento Alice.

Attualmente i lampi di luce piu' brevi hanno una durata di qualche trilionesimo di secondo. Questo record pero' potrebbe presto essere infranto. ''I nuclei degli atomi negli acceleratori di particelle come Lhc al Cern possono generare impulsi ancora piu' brevi, fino a un milione di volte'', spiega il ricercatore Andreas Ipp. E' il caso degli impulsi luminosi che vengono emessi quando nell'esperimento Alice i nuclei di piombo vengono fatti scontrare quasi alla velocita' della luce. I residui dei nuclei con le nuove particelle generate nell'impatto danno vita al cosiddetto plasma di quark e gluoni, uno stato della materia caratterizzato da temperature cosi' elevate che perfino i protoni e i neutroni si fondono. Questo plasma dura pochissimi istanti, appena qualche milionesimo di trilionesimo di secondo.

Nessuna tecnologia attuale e' in grado di 'cronometrare' dei lampi cosi' rapidi. Secondo le simulazioni al computer del politecnico di Vienna, pero', la misurazione potra' essere fatta da un nuovo rivelatore destinato a diventare il cronografo piu' preciso del mondo.

Nanostelle accese in laboratorio, per simulare le reazioni che avvengono negli astri.

Fonte: ANSA.it
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Bruciano a centinaia di milioni di gradi per simulare le reazioni che avvengono nel Sole e nelle stelle piu' grandi: sono le nanostelle, veri e proprio astri in miniatura, generati presso il laboratorio Circe della Seconda universita' di Napoli. L'obiettivo e' ''scoprire come funzionano il cuore del Sole e il nucleo degli astri piu' grandi, destinati a morire come supernovae'', spiega Lucio Gialanella, della seconda universita' di Napoli e dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn). Gialanella e' responsabile dell'esperimento Erna (Europeon Recoil separator for Nuclear Astrophysics), installato presso l'acceleratore Tandem del Circe a Caserta.
Costato quasi 3 milioni, finanziati per il 50% dall'Infn e per il 50% dall'ente tedesco che finanzia la ricerca (Dfg), l'esperimento Erna e' il cuore dei test perche' e' al suo interno che avvengono le reazioni nucleari. Installato inizialmente in Germania, presso l'universita' della Ruhr, l'apparato e' stato trasferito nel 2010 presso il Circe. ''E' l'unico apparato di questo tipo in Europa e grazie ad esso - sottolinea Gialanella - il nostro laboratorio e' stato incluso nella lista delle strutture della Europe Science Foundation''.


Negli esperimenti, prosegue Gialanella ''si produce una fusione nucleare, ma la differenza, con le stelle e' la scala molto piu' piccola: nel nostro caso avviene una reazione all'ora, mentre nel Sole avvengono miliardi di miliardi di reazioni al secondo''. Per simulare, ad esempio, che cosa avviene nel Sole si dirige un fascio di berillio 7 verso un bersaglio costituito da idrogeno e si produce boro 8. ''E' una reazione molto importante - rileva - perche' si producono anche neutrini come quelli generati nel cuore del Sole e che raggiungono la Terra''. Se si conosce il numero totale di queste particelle emesse dal Sole, prosegue il ricercatore, ''i neutrini possono essere utilizzati come 'sonde' per comprendere come funziona il nucleo della nostra stella. Questo dato da' infatti informazioni sulla temperatura del nucleo solare''.

Grazie agli esperimenti in corso al Circ, aggiunge Gialanella, ''stiamo determinando i dettagli del numero di neutrini che partono dal Sole in direzione della Terra: che sono circa il doppio di quelli rivelati sul nostro pianeta. Nel viaggio dal Sole alla Terra, infatti, molte di queste particelle si trasformano'', cambiano cioe' identita', trasformandosi da un tipo di neutrino in un altro per il fenomeno chiamato ''oscillazione del neutrino''.
Per studiare le reazioni che avvengono nelle stelle piu' grandi del Sole, a partire da 5 masse solari, si conducono esperimenti con carbonio ed elio. In questo caso ''si studia una reazione importantissima, che determina tutta la quantita' di carbonio e ossigeno presente nell'universo''. Inoltre, il rapporto di ossigeno e carbonio nelle stelle che hanno una massa superiore a 8 masse solari ''ci dice - conclude l'esperto - in che modo morira' una stella: come avverra' l'esplosione e se si trasformera' in una stella di neutroni oppure in un buco nero''.

martedì 13 novembre 2012

L’acciaio inox, in futuro, potrebbe memorizzare dati.

Fonte: Sci-X
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Mettere raggi X,sul ghiaccio, in una scatola, e poi rilasciarli quando si vuole: sembra fantascienza. Nuovi calcoli mostrano, tuttavia, che quanti singoli di raggi X possono essere catturati, con l’aiuto di un campo magnetico, e successivamente recuperati senza perdita di qualità. Inoltre, è possibile manipolare questi quanti memorizzati e, particolarmente,se ne può manipolare la fase in modocontrollato. Il ruolo della ‘scatola’ è assunto dai nuclei degli atomi di ferro. Essi assorbono l'energia dei raggi X quantistici e la memorizzano come stato eccitato. È fondamentale far concentrare i raggi X, tali che siano estremamente sottili e ‘appuntiti’, di principio, della dimensione di un atomo.
Si apre così la possibilità, un giorno, di memorizzare l’informazione codificata in un raggio X coerente, in una matrice di atomi di ferro in una piastrina di acciaio inox. Questa sarebbe l’unità di memoria più densa in assoluto,di sempre.
Nello scenario immaginabile: una piastrina di acciaio inossidabile è immersa in un campo magnetico, che scinde livelli di energia dei nuclei del ferro 57. Perpendicolare alla direzione del campo magnetico, viene irradiata luce coerente polarizzata di raggi X, la cui intensità è impostato in modo che il campione assorba solo fotone per ogni impulso, ossia viene eccitato solo un nucleo. La disattivazione del campo magnetico subito dopo l’impulso di raggi X blocca la situazione: l’eccitazione, comprese tutte le proprietà del fotone, come polarizzazione e fase, vengono come ‘congelati’ e , dunque,l’informazione viene memorizzata. La riattivazione del campo magnetico, in un momento successivo, libera nuovamente il fotone con le sue caratteristiche originarie e l’informazione può essere letta. Con questo metodo dovrebbero essere possibili tempi di memorizzazione di circa 100 nanosecondi.
Testo originario integrale:

lunedì 12 novembre 2012

Un motore che funziona con una molecola sola.

Fonte: LeScienze.it
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Messo a punto un metodo per estrarre energia da un sistema "rumoroso", traducendo il moto casuale di una molecola di idrogeno nel movimento regolare di un braccio oscillatorio. Il risultato è stato ottenuto sfruttando il cosiddetto fenomeno della risonanza stocastica.
Una singola molecola di idrogeno può alimentare il movimento di un oggetto molto più grande. A dimostrarlo è un gruppo di ricercatori della Freie Universität di Berlino, che descrivono come hanno fatto a sfruttare questo scopo una serie di effetti stocastici in un articolo pubblicato su “Science” a prima firma Christian Lotze.

Normalmente, in un sistema fisico l'energia meccanica scorre da dove ce n'è di più a dove ce ne è meno, dissipandosi sotto forma di movimento termico casuale delle molecole e degli atomi del sistema. Molti sistemi naturali, in particolare quelli biologici, si sono però evoluti in modo da invertire questa tendenza, consentendo il flusso di energia dal “piccolo” al “grande”. Lotze e colleghi hanno cercato di ricreare questa capacità in sistemi artificiali molto piccoli, alla ricerca di un modo efficiente per alimentare e far funzionare nanostrutture.

I ricercatori, in particolare, hanno dimostrato come il moto di una singola molecola di idrogeno può alimentare quello di un braccio oscillante relativamente ben più grande.

Nel loro esperimento, una singola molecola di idrogeno (H2) è stata intrappolata fra due elettrodi metallici: una superficie di rame e la punta di un microscopio a effetto tunnel mantenuto a bassissima temperatura, circa cinque kelvin. Quando tra punta e rame è stata applicata una tensione elettrica, la corrente ha indotto l'idrogeno a passare in modo casuale tra due diverse posizioni. Per estrarre energia da questo moto casuale e trasferirla all'oscillatore, è necessario che le forze che agiscono sul braccio oscillante quando si avvicina e quando si allontana dalla superficie non si annullino e siano differenti, ossia che vi sia un fenomeno di isteresi.

Il “trucco” usato dai ricercatori per ottenere questo fenomeno di isteresi è stato osservare che, sebbene la corrente elettrica faccia passare casualmente l'idrogeno tra i due stati, la tensione di polarizzazione può essere sintonizzata su un valore specifico, in modo che le fluttuazioni di posizione dell'idrogeno diventino altamente correlate con il movimento della punta del microscopio, così da indurre il fenomeno noto come risonanza stocastica.
"In linea di principio, si potrebbero anche immaginare meccanismi di eccitazione da altre fonti, come la luce", ha detto Felix von Oppen, il cui modello teorico è stato importante per l'interpretazione dei risultati sperimentali. La conversione di energia tramite risonanza stocastica è in effetti uno dei processi che fa funzionare alcune macchine molecolari nella cellula. "Un aspetto interessante dei nostri risultati è che suggeriscono che lo stesso meccanismo possa essere utilizzato in motori molecolari artificiali."

Idrogeno dall’energia solare? Possibile, grazie alla ruggine.

Fonte: Gaianews.it
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Gli scienziati della EPFL, École Polytechnique Fédérale de Lausanne, stanno studiando un modo per stoccare l’energia rinnovabile in un modo ecologico ed economico a partire da idrogeno, luce del sole, acqua e ruggine.
Uno dei problemi gestionali più importanti delle energie rinnovabili è che non è possibile conservarle e stoccarle. Un nuovo metodo proposto dai ricercatori svizzeri propone di convertire l’energia in idrogeno che è più facilmente stoccabile e non produce carbonio. L’operazione avviene con acqua e ossido di ferro, ossia la comune ruggine. L’articolo, pubblicato su Nature Photonics, spiega che il dispositivo è ancora in fase sperimentale, ma che i ricercatori si sono impegnati ad utilizzare metodi e materiali poco costosi, proprio per trovare una soluzione economicamente sostenibile. Infatti erano già state portate avanti ricerche per la creazione di idrogeno, ad esempio dall’acqua, da altri colleghi svizzeri. Anche se il prototipo era funzionante i costi erano davvero eccessivi, mettendo di fatto un limite all’utilizzo finale del prototipo e alla sua riproducibilità.
Così gli scienziati si sono posti un limite fin dall’inizio: utilizzare solo materiali e tecniche a prezzi accessibili. Non è stato un compito facile, ma ci sono riusciti. “Il materiale più costoso nel nostro dispositivo è la lastra di vetro”, spiega Sivula. L’efficienza è ancora bassa – tra l’1,4% e il 3,6%, a seconda del prototipo utilizzato. Ma la tecnologia ha un grande potenziale secondo i ricercatori.
“Con il nostro prototipo meno costoso a base di ossido di ferro, speriamo di essere in grado di raggiungere efficienze del 10% in pochi anni, per meno di $ 80 per metro quadrato. A quel prezzo, saremo competitivi con i metodi tradizionali di produzione di idrogeno .”
Il vero protagonista del prototipo è l’ossido di ferro. “E ‘un materiale stabile e abbondante e non c’è modo che arruginisca ulteriormente, ma è uno dei peggiori semiconduttori disponibili,” ammette Sivula.
Ecco perché l’ossido di ferro utilizzato dal team è un po’ più sviluppato di quello che ci si trova su un vecchio chiodo. Naturalmente però, le procedure che modificano l’ossido di ferro sono comunque semplici da applicare. “Avevamo bisogno di sviluppare metodi di preparazione semplici, come quelli in cui si può solo immergere o dipingere il materiale.”
La seconda parte del dispositivo è composto da un colorante e biossido di titanio – gli ingredienti base di un colorante-sensibilizzante la cella solare. Questo secondo strato permette che gli elettroni si trasferiscano dall’ ossido di ferro con energia sufficiente per estrarre idrogeno dall’acqua.
I risultati presentati rappresentano un importante passo avanti in termini di prestazioni nello studio dell’ossido di ferro. Sivula prevede che la tecnologia possa essere in grado di raggiungere un rendimento del 16%, pur mantenendo un basso costo, che è, dopo tutto, l’attrattiva di questo approccio, che permette di immagazzinare l’energia solare a buon mercato. Il sistema sviluppato al Politecnico di Losanna potrebbe aumentare notevolmente il potenziale dell’ energia solare, candidandola a fonte rinnovabile importante per il futuro.

La pelle artificiale che percepisce il tatto e si autoripara.

Fonte: ANSA.it
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E' stata realizzata la prima 'pelle artificiale' che è sensibile al tatto e può 'auto-guarire' quando subisce un taglio o uno strappo: è un materiale plastico descritto sulla rivista Nature Nanotechnology da un gruppo di ricerca coordinato da Zhenan Bao, dell'università americana di Stanford. Il materiale potrà essere alla base di protesi e dispositivi elettronici di nuova generazione, come gli schermi che si auto-riparano.
Negli ultimi dieci anni ci sono stati importanti progressi nella realizzazione della pelle artificiale, osserva Bao, ma anche i più efficaci materiali capaci di auto-ripararsi hanno avuto gravi inconvenienti. Alcuni devono essere esposti a temperature elevate, che li rende poco pratici per un uso quotidiano. Altri possono guarire a temperatura ambiente, ma solo una volta, perché riparare un taglio modifica la loro struttura meccanica o chimica.
Il segreto del materiale che combina le due caratteristiche fondamentali della pelle umana, ossia la sensibilità al tatto e la capacità di auto-ripararsi, é nelle lunghe catene di molecole unite da legami di idrogeno, le cui attrazioni, tra la regione di carica positiva di un atomo e la regione di carica negativa del successivo, sono relativamente deboli.
"Questi legami dinamici consentono al materiale di auto-guarire a temperatura ambiente", rileva uno degli autori, Wang Chao. Le molecole si rompono facilmente, quando vengono danneggiate ma poi, quando si riconnettono, i legami si riorganizzano e ripristinano la struttura del materiale. Nei test i ricercatori hanno tagliato una striscia di materiale e poi hanno avvicinato e premuto fra loro i pezzi tagliati per qualche secondo: il materiale si è auto-riparato quasi al 100% in circa 30 minuti. Inoltre, lo stesso campione può essere tagliato più volte nello stesso punto.

Oltre ad essere flessibile, il materiale è anche capace di condurre elettricità e ciò è stato possibile aggiungendo particelle di nichel. La superficie su scala nanometrica di queste particelle é ruvida in modo che ciascun bordo sporgente concentra un campo elettrico rendendo più facile alla corrente di fluire da una particella all'altra. Il materiale è abbastanza sensibile per rilevare la pressione di una stretta di mano, in oltre è molto flessibile, in grado di registrare il grado di curvatura in una articolazione e ciò, secondo gli esperti, lo rende ideale per l'utilizzo nelle protesi. Il prossimo passo è rendere il materiale elastico e trasparente, in modo che possa essere adatto per realizzare dispositivi elettronici o schermi capaci di auto-ripararsi se danneggiati.

venerdì 9 novembre 2012

Cambiare canale con un semplice gesto della mano.

Fonte: Cordis
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Un team di inventori provenienti da tutta Europa ha eliminato i telecomandi tradizionali e ha sviluppato un sensore delle dimensioni di un orologio da polso in grado di seguire il movimento tridimensionale della mano e che permette all'utente di controllare a distanza qualsiasi dispositivo. I ricercatori ritengono che il loro dispositivo potrebbe rimpiazzare il telecomando e i controller dei videogiochi, e potrebbe persino controllare il telefonino con un semplice gesto della mano. Il loro controller "Digits" è stato presentato al 25° simposio della Association for Computing Machinery su software e tecnologia dell'interfaccia utente (ACM UIST).

La loro invenzione rappresenta un importante progresso poiché permette, per la prima volta, interazioni tridimensionali senza che l'utente sia vincolato ad alcun dispositivo esterno. Secondo i suoi sviluppatori, Digits riesce a mappare il movimento e l'orientamento delle dita dando così all'utente il controllo remoto sempre e ovunque, permettendo persino di rispondere al telefono mentre esso si trova ancora in tasca e si sta camminando per la strada.

Digits è stato sviluppato da David Kim, uno dottorando finanziato da Microsoft Research (MSR), studente del Culture Lab dell'Università di Newcastle; Otmar Hilliges, Shahram Izadi, Alex Butler e Jiawen Chen di MSR Cambridge; Iason Oikonomidis della Fondazione greca per la ricerca e la tecnologia; e il professor Patrick Olivier del Culture Lab dell'Università di Newcastle.

"Il sensore Digits non dipende da nessuna infrastruttura esterna ed è quindi totalmente mobile," spiega David Kim. "Questo significa che gli utenti non sono confinati in uno spazio fisso. Essi possono interagire mentre si spostano da una stanza all'altra o persino mentre corrono per la strada. Quello che Digits riesce a fare è portare finalmente l'interazione 3-D fuori dal salotto di casa."

Per realizzare il loro ambizioso obbiettivo, Digits doveva essere leggero, consumare poca energia e doveva riuscire a essere piccolo e confortevole come un orologio. Allo stesso tempo essi volevano anche che Digits riuscisse a fare molte cose, come possedere una migliore rilevazione del movimento e "comprensione" della mano umana, dall'orientamento del polso all'angolo di ciascuna articolazione delle dita, in modo che l'interazione non fosse limitata a dei punti 3D nello spazio. Digits doveva capire ciò che la mano sta tentando di esprimere, persino quando è dentro a una tasca.

David Kim ha aggiunto: "Noi avevamo bisogno di un sistema che permettesse delle naturali interazioni 3-D a mani nude, ma con flessibilità e precisione paragonabili a quelle dei guanti dati. Noi volevamo che gli utenti fossero in grado di interagire istintivamente con i loro dispositivi elettronici usando semplici gesti, senza nemmeno doverli toccare. Riuscite a immaginare quanto più comodo sarebbe se fossimo in grado di rispondere al telefonino mentre ancora si trova in tasca o sepolto in fondo alla borsa?"

Il loro prototipo, che hanno presentato alla prestigiosa conferenza ACM UIST 2012, include una telecamera a infrarossi (IR), un laser generatore di linea IR, un illuminatore diffuso IR e una IMU (Inertial Measurement Unit).

Shahram Izadi spiega le varie difficoltà che hanno dovuto superare, come ad esempio l'estrapolazione di movimenti naturali di una mano da uno sparse sampling dei punti chiave rilevati dalla telecamera.

"Prima dovevamo comprendere le parti del nostro corpo, per poter poi elaborare il loro funzionamento in modo matematico," spiega Shahram Izadi. "Abbiamo passato ore a fissare le nostre dita, abbiamo letto dozzine di studi scientifici sulle proprietà biomeccaniche della mano umana e abbiamo tentato di mettere in correlazione questi cinque punti con il movimento complesso della mano. In effetti, abbiamo riscritto completamente ogni modello cinematico circa tre o quattro volte prima di trovare quello giusto."

Il team concorda sul fatto che il momento più eccitante del progetto è stato quello in cui i membri del team hanno visto che i modelli funzionavano. "All'inizio la mano virtuale spesso si rompeva e non funzionava; una cosa sempre molto frustrante da guardare," spiega David Kim. "Poi, un giorno, abbiamo semplificato radicalmente il modello matematico, che improvvisamente si è comportato come una mano umana. Si è trattato di una sensazione assolutamente surreale e coinvolgente, come nel film Avatar. Quel momento ci ha dato una grossa spinta!"

Digits è solo la punta dell'iceberg, i ricercatori stanno anche facendo degli esperimenti per sviluppare ulteriormente la loro invenzione. "Riuscendo a comprendere in che modo una parte del corpo funziona e sapendo quali sensori usare per cogliere un'istantanea - dice Shahram Izadi - Digits offre uno sguardo convincente sulle possibilità di rendere accessibili la piena espressività e destrezza di una delle nostre parti del corpo per l'interazione mobile uomo-computer."
Per maggiori informazioni, visitare:

Università di Newcastle
http://www.ncl.ac.uk/

25° simposio della Association for Computing Machinery su software e tecnologia dell'interfaccia utente http://www.acm.org/uist/uist2012/
Categoria: Varie
Fonte: Università di Newcastle
Documenti di Riferimento: Sulla base di informazioni diffuse dall'Università di Newcastle
Codici di Classificazione per Materia: Applicazioni della tecnologia dell'informazione e della comunica
RCN: 35216

giovedì 8 novembre 2012

Scattare foto con lo sguardo e vedere testo e disegni direttamente nell’occhiale.

Fonte: Sci-X
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Ricercatori del Fraunhofer Institut per l’Organica, materiali e componenti elettronici COMEDD di Dresda lavorano da diversi anni alla progettazione di HMD interattivi (Head Mounted Displays),simili a occhiali con dati, che si basano sulla tecnologia OLED. Questi aggiungono, accanto al mondo reale, una realtà estesa con ulteriori informazioni visibili.
Gli occhiali sviluppati ora con i colleghi del Fraunhofer Institut di Optronica, Tecnologia di Sistema valorizzazione dell’immagine IOSB di Karlsruhe e la società Trivisio permettono una visualizzazione controllata tramite il movimento degli occhi. Un tecnico, ad esempio, può osservare un particolare di una macchina con gli occhiali e nello stesso tempo sfogliare con gli occhi un manuale sovrapposto all’immagine reale.
"Nei nostri nuovi occhiali usiamo un nuovo chip CMOS con fotocamera integrata e un microdisplay OLED, per il quale abbiamo il brevetto", spiega il responsabile del progetto Dr. Rigo Herold. I ricercatori, per la prima volta,hanno integrato degli OLED con fotorivelatori sul chip CMOS. “E’ equipaggiato con unità di trasmissione e di ricezione e la disposizione delle informazioni avviene in una struttura a matrice. Si forma così un micro display bidirezionale. Ciò significa che siamo in grado sia di prendere, sia di riprodurre immagini ", spiega Herold. Il chip ha una dimensione di 11x13 mm e contiene quattro pixel di luce e un fotodiodo nel mezzo. Questo registra il movimenti degli occhi di chi indossa gli occhiali. I pixel compongono l’immagine che la persona riceve rispecchiati sulmicrodisplay. Quest'ultimo è costituito da una matrice a scacchi di pixel luminosi di OLED e da fotorivelatori inglobati tra essi, che operano quasi come una fotocamera.Il display ha una superficie luminosa di 10,24 x 7,68 millimetri. L’osservatore guarda, attraverso gli occhiali, verso l'orizzonte e vede proiettato davanti a sé un disegno, uno schema o una carta topografica, come se avesse la dimensione di 1 metro.
Testo originario integrale:

Nuovo concetto e metodo per rilevamento e visualizzazione delle impronte digitali.

Fonte: Sci-X
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Gli scienziati della Hebrew University di Gerusalemme hanno sviluppato un nuovo approccio per rendere più facilmente leggibili le impronte digitali sulla carta, un supporto che spesso rende difficile il rilevamento delle impronte. Il nuovo metodo, creato da un team guidato dal Prof. Yossi Almog e dal Prof. Daniel Mandler dell'Istituto di Chimica presso l'Università Ebraica, utilizza un innovativo processo chimico per produrre un negativo dell’immagine dell'impronta digitale, piuttosto che l'immagine positiva prodotta coi metodi correnti. Il processo sviluppato è pressoché indipendente dalla composizione del sudore residuo lasciato dal dito sulla carta.
La nuova procedura sviluppata presso l'Università Ebraica evita questi problemi. Esso fa un’inversione del metodo consolidato, nel quale nanoparticelle d’oro sono prima depositate sulle impronte invisibili, seguiti da argento elementare, in modo simile allo sviluppo di una fotografia in bianco e nero.
Nella tecnica convenzionale, le particelle d'oro si attaccano alle componenti aminoacide del sudore presente nelle impronte digitali e poi l’argento viene depositato sull’oro. Il risultato è che, molto spesso, si ottengono impressioni, poco contrastate, delle impronte digitali. Nel nuovo metodo, le nanoparticelle d’oro aderiscono direttamente alla superficie della carta, ma non al sudore. Questa tecnica utilizza il sebo dalle impronte digitali come mezzo per evitare questa interferenza. Il trattamento con uno sviluppatore contenente argento fa diventare nere le aree su cui c’è oro: in tal modo si ha una immagine negativa, chiara dell’impronta digitale.
"Dato che il nostro metodo si basa unicamente sulle componenti grasse nelle impronte digitali, gli aspetti del sudore non svolgono alcun ruolo nel processo di imaging", ha detto il Prof. Almog. Questa tecnica promette anche di risolvere un altro problema, ha detto. "Se la carta si bagna è bagnata, è finora stato difficile rilevare le impronte digitali perché gli aminoacidi nel sudore, che sono il substrato primario per reazioni di amplificazione chimica, vengono sciolti e lavati via dall'acqua, mentre le componenti grassi sono appena intaccate" In tal modo, la possibilità di evitare gli aspetti del sudore fornisce un ulteriore avanzamento per le indagini di laboratorio della polizia, ha osservato lo scienziato.
Testo originario integrale:

Filtro biologico che abbatte residui medicinali nelle acque.

Fonte: Sci-X
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Quindici studenti del Centro di Biotecnologie dell’Università di Bielefeld hanno sviluppato un filtro biologico che rimuove gli estrogeni dall’acqua potabile. Vi sono riusciti mediante la produzione di enzimi che abbattono gli ormoni. Si tratta di enzimi di funghi che crescono sugli alberi, i quali filtrano i residui di medicinali dalle acque di scarico e dall’acqua potabile.
I metodi convenzionali di filtraggio delle acque reflue negli impianti di trattamento delle acque reflue non sono in grado di rimuovere completamente i residui di farmaci, come ad esempio gli estrogeni. Questi residui poi vanno a finire nei fiumi e nei laghi e si accumulano nell’acqua potabile. Per i pesci e le altre forme di vita acquatica, gli estrogeni possono portare a disturbi riproduttivi e di sviluppo e persino alla formazione di caratteristiche femminili nei maschi. Le potenziali conseguenze a lungo termine per gli esseri umani, il numero degli spermatozoi in declino, la sterilità, vari tipi di cancro e osteoporosi, sono ancora in gran parte sconosciute.
Il team degli studenti di Bielefeld ha sviluppato un filtro biologico in cui gli enzimi specifici (i cosiddetti laccasi) abbattono questi residui di medicinali. Una fonte nota di laccasi particolarmente efficienti è il ‘turkey tail’ (coda di tacchino), un tipo di fungo che cresce sugli alberi. Utilizzando metodi di biologia sintetica, gli studenti sono riusciti a sintetizzare questo enzima e ad impiegarlo per filtrare materiale. 'Non volevamo inventare qualcosa di completamente folle con il nostro progetto, solo perché è tecnicamente possibile. Volevamo fare qualcosa che possa realmente essere utilizzato in un prossimo futuro, ossia essere un reale vantaggio ', spiega Robert Braun, uno studente di biotecnologia molecolare. Il biofiltro realizzato è appunto un progetto del genere.
Articolo originario integrale:

Un nuovo nanomateriale che resiste ...alle pallottole!

Fonte: Sci-X
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Un nuovo studio condotto da ricercatori del MIT e della Rice University ha dimostrato che anche materiali molto leggeri,più leggeri del Kevlar, possono essere in grado di svolgere la funzione di protezione contro urti ad alta velocità da parte di corpi vari, come sassi, sabbia, pezzi di ferro e proiettili.
La chiave è usare materiali compositi, costituiti da due o più materiali, le cui rigidità e flessibilità sono strutturati in modo molto specifico, ad esempio, in strati alternati di solo pochi nanometri di spessore. Il team di ricerca ha prodotta anche proiettili in miniatura e ha misurato gli effetti che hanno prodotto sul materiale che doveva assorbire l'impatto.
I risultati della ricerca sono riportati nella rivista Nature Communications, in un articolo intitolato ("High strain rate deformation of layered nanocomposites").
Il team ha sviluppato un polimero auto-assemblante, dotato di struttura a strati: strati gommosi, che forniscono la resilienza, alternati a strati vetrosi, che forniscono la resistenza. Hanno poi sviluppato un metodo per sparare perle di vetro contro il materiale, ad alta velocità, utilizzando un impulso laser per far evaporare rapidamente uno strato di materiale appena sotto la sua superficie. Sebbene le perline fossero minuscole, del diametro di millesimi di millimetro, erano comunque centinaia di volte più grandi degli strati del polimero contro cui hanno impattato:ossia abbastanza grandi per simulare l’impatto di grossi oggetti, come le pallottole, ma sufficientemente perché gli effetti degli impatti potessero essere studiati in dettaglio, mediante un microscopio elettronico. (segue…)
Testo originario integrale:
Immagine courtesy of Thomas Lab, Rice University

Ottenuto Diesel dallo zucchero, grazie ad un processo di fermentazione.

Fonte: ANSA.it
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Un lungo processo di fermentazione utilizzato in passato per trasformare l'amido in esplosivi può essere utilizzato per convertire lo zucchero in biodiesel. Il risultato, pubblicato sulla rivista Nature, si deve al gruppo di ricerca coordinato dall'americano Dean Toste, dell'università della California a Berkeley.

Secondo gli autori il prodotto ottenuto potrebbe essere commercializzato entro 5-10 anni, soprattutto come biodiesel da usare come carburante nei trasporti.

I ricercatori sono partiti da una tecnica inventata quasi cento anni fa, nel 1914, dal chimico Chaim Weizmann. Nel suo processo, Weizmann utilizzava il batterio Clostridium acetobutylicum per far fermentare gli zuccheri dell'amido in acetone, butanolo ed etanolo. Il processo di fermentazione, chiamato Abe per le tre sostanze chimiche prodotte, ha permesso alla Gran Bretagna di produrre l'acetone necessario per produrre la cordite, utilizzata a quel tempo per sostituire la polvere da sparo.

Per ottenere il Diesel i ricercatori hanno sviluppato un metodo che estrae l'acetone e il butanolo dalla miscela di fermentazione ottenuta con la tecnica di Weizmann e poi, con un catalizzatore, hanno convertito queste sostanze in una miscela di idrocarburi a catena lunga che assomiglia alla combinazione di idrocarburi nel gasolio.
Il problema dei percorsi naturali per produrre etanolo e altri alcol è che i composti ottenuti hanno meno atomi di carbonio rispetto a quelli necessari per la benzina o il diesel. Adesso il probema è stato risolto integrando percorsi biologici e chimici, i ricercatori superano questo problema e mostrano di riuscire a convertire efficacemente i prodotti di fermentazione ottenuti in grandi molecole che contengono molti atomi di carbonio.

I test hanno dimostrato che la miscela ottenuta brucia come lo fanno normalmente i prodotti ottenuti dal petrolio. Il processo è abbastanza versatile e, secondo gli esperti, può utilizzare una vasta gamma di materie prime rinnovabili, dallo zucchero del mais (glucosio), allo zucchero di canna (saccarosio) fino all'amido, e può lavorare anche con materie prime non destinate all'uso alimentare come alberi e i rifiuti vegetali.

Minuscoli sommergibili per viaggiare nel corpo umano.

Fonte: ANSA.it
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Microscopici chirurghi robot sono capaci di viaggiare nel corpo umano per curarlo dall'interno. Dotati di piccole zampe, come gli insetti, o di eliche, come i sommergibili, si muovono nello stomaco e nell'intestino per diagnosticare e trattare i tumori, oppure nei vasi sanguigni, per distruggere i blocchi che ostruiscono il flusso del sangue. Sembrano usciti dal romanzo fantascientifico 'Viaggio allucinante' di Isaac Asimov, ma li hanno ideati i ricercatori della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, che li presentano a Milano, nella fiera Robotica 2012.

''Il romanzo di Asimov è stato per noi una grande fonte di ispirazione, così come la natura e il mondo degli insetti'', spiega Gastone Ciuti, ricercatore del gruppo di Chirurgia robotica coordinato da Arianna Menciassi. Nei loro laboratori, presso l'Istituto di Biorobotica, ha preso vita una folta schiera di micro-chirurghi robot dotati delle forme più disparate a seconda del distretto del corpo in cui vengono usati.

I più curiosi sono gli insetti-robot con 8 o 12 zampe, che servono per diagnosticare e trattare le malattie del colon. ''Sono capsule grandi meno di un centimetro che vengono introdotte nell'apparato digerente e che, una volta raggiunto l'intestino, dispiegano le zampe e cominciano a muoversi alimentati da batterie ai polimeri di litio'', spiega Ciuti.

Per lo stomaco, invece, sono stati messi a punto dei mini-sommergibili dotati di eliche che navigano tra i succhi gastrici per inviare all'esterno tutte le immagini e le informazioni utili.

Sono decisamente fantascientifiche anche le sonde che viaggiano nei vasi sanguigni per raggiungere e distruggere le ostruzioni che bloccano il flusso del sangue. ''Queste capsule vengono guidate da un campo magnetico esterno e nei loro spostamenti sono sempre tenute sotto controllo ecografico'', spiega Ciuti. ''Una volta raggiunta l'ostruzione - aggiunge - attraverso la loro coda vengono iniettate delle microbolle d'aria che esplodono come mine''. L'ostruzione viene così frantumata e i detriti vengono legati da particelle magnetiche che vengono recuperate sfruttando il campo magnetico esterno.

La prima malattia su un chip: La tecnica promette di rivoluzionare la medicina.

Fonte: ANSA.it
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Per la prima volta una malattia umana, l'edema polmonare, è stata riprodotta su un chip. La tecnica, descritta sulla rivista Science Translational Medicine, si annuncia come il primo passo verso una rivoluzione nella medicina. Riprodurre una malattia su un chip significa infatti poterne studiare nel settaglio i meccanismi, migliorando in questo sia la diagnosi sia la ricerca di farmaci più mirati ed efficaci.

Il risultato si deve al gruppo di ricerca americano del Wyss Institute dell'università di Harvard. Le sperimentazioni tradizionali di farmaci, su colture cellulari e sugli animali, osserva Donald Ingber, direttore e fondatore dell'Istituto Wyss e fra gli autori dello studio "sono molto costose e spesso non riescono a prevedere gli effetti di questi agenti quando raggiungono gli esseri umani".

I ricercatori hanno prima costruito un polmone su chip e poi lo hanno fatto ammalare di edema polmonare per studiare gli effetti di un farmaco chemioterapico e per identificare potenziali nuove terapie per prevenire questa malattia mortale in cui i polmoni si riempiono di liquido e coaguli di sangue.

Il polmone su chip è stato realizzato con un polimero flessibile, delle dimensioni di una piccola scheda di memoria, che contiene canali cavi. Due di questi canali sono separati da una membrana porosa, sottile e flessibile, che da un lato è rivestita con cellule polmonari umane e dall'altra da cellule umane dei vasi del sangue. Un vuoto, fra i canali laterali deforma questa interfaccia tessuto-tessuto per ricreare il modo in cui i tessuti polmonari umani si espandono e si ritirano durante la respirazione.

Ottenuto il polmone su chip i ricercatori hanno studiato l'azione di un farmaco chemioterapico, l'interleuchina-2, che ha il grande effetto collaterale di causare l'edema polmonare. Quando il farmaco è stato iniettato nell'organo su chip, il fluido è fuoriuscito attraverso la membrana nei due strati di tessuto, riducendo il volume di aria nel canale respiratorio e compromettendo il trasporto di ossigeno, come accade nei polmoni dei pazienti quando viene somministrato il farmaco in modo prolungato. Inoltre, come accade ai pazienti trattati con questo farmaco, le proteine del sangue, hanno portato alla formazione di coaguli.

mercoledì 7 novembre 2012

Vita su Marte: “terraformare” il Pianeta Rosso.

Traduzione di Lucilla Croce Ferri (Fonte: http://www.scienceinschool.org/print/695)
The surface of Mars – devoid of liquid water and life
La superficie di Marte – priva di acqua liquida e di vita.
Immagine cortesemente messa a disposizione dall NASA Ames Research Center (NASA-ARC)
Scienza o fantascienza? Margarita Marinova del Caltech, USA studia la possibilità di installare la vita su Marte.
I primi astronomi guardavano Marte ammirati e pensavano di vedere un pianeta attraversato da canali di irrigazione e coperto di vegetazione. Un centinaio di anni più tardi, nel 1964, la sonda spaziale Mariner 4 raggiunse Marte. La delusione degli scienziati deve essere stata amara, vedendo un mondo arido senza segni di vegetazione, acqua o vita. A questi scienziati l’idea di un pianeta Marte umido, coperto di piante, sembrò improvvisamente fantascienza.
Nei quarant’anni passati dal Mariner 4, abbiamo imparato molto su Marte grazie alle molte sonde mandate sul Pianeta Rosso. Sappiamo che la temperatura superficiale di Marte varia tra i -143 °C ai poli e i +27 °C all’equatore. Marte ha un’atmosfera molto sottile (circa 1% della pressione terrestre), non c’è acqua liquida e la radiazione UV combinata con la regolite altamente ossidante rende la superficie di Marte un luogo senza vita. Tuttavia, dalle immagini che mostrano una fitta rete di canali e fiumi e dalle osservazioni dei Mars Exploration Rovers che mostrano strati di sedimenti e alterazioni degli strati dovuti all’acqua, abbiamo imparato che nel primo mezzo miliardo di anni della sua storia, Marte era un posto caldo e umido con una atmosfera spessa. Quindi Marte potrebbe essere reso di nuovo abitabile?
Questa è la premessa del “terraformare” – cambiare un pianeta per renderlo abitabile da forme di vita simili a quelle terrestri. L’idea del terraformare fu suggerita per la prima volta negli anni 30 – solamente nel settore fantascientifico. Tuttavia, negli anni 60, gli scienziati iniziarono a pensare a questa idea in modo più serio. È veramente realizzabile? Può essere realizzata con le tecnologie attuali?
Per rispondere alla domanda se sia possibile terraformare Marte, dobbiamo prima di tutto vedere cosa è necessario alla vita e se Marte ha queste basi. Marte attualmente non dispone di acqua liquida sulla sua superficie a causa delle sue basse temperature e dell’atmosfera sottile (la pressione atmosferica è sotto il punto triplo dell’acqua, la pressione sotto la quale un materiale può esistere solo come solido o vapore, indipendentemente dalla temperatura). Oltre all’acqua liquida, la vita più basilare sulla Terra ha bisogno solo di un’atmosfera con cui scambiare i gas. Organismi più complessi hanno esigenze più stringenti e numerose – le piante hanno bisogno di un piccolo ammontare di ossigeno, gli animale hanno bisogno di una pressione atmosferica più alta – ma i microorganismi hanno esigenze minime.
Marte ha biossido di carbonio congelato (CO2 ice) nelle calotte polari e assorbito nel terreno, che verrebbe rilasciato se il pianeta venisse riscaldato. Questo ispessirebbe l’atmosfera e così riscalderebbe ulteriormente il pianeta. Il riscaldamento causerebbe anche lo scioglimento dell’acqua gelata rivelata alle calotte polari. Così Marte sembra avere i due ingredienti-chiave necessari a sostenere la vita. Non solo questo, ma, una volta che Marte sia stato riscaldato in qualche modo, ci sarebbe un ritorno positivo nel rilascio di biossido di carbonio dalle calotte polari e dalla regolite, l’ispessimento dell’atmosfera, un ulteriore riscaldamento del pianeta, il rilascio di acqua e, di conseguenza, le condizioni che permettono all’acqua liquida di persistere sulla superficie.
Mars’ North Polar Cap: made of frozen carbon dioxide and water
Il Polo Nord di Marte: fatto di biossido di carbonio congelato e acqua
Immagine cortesemente messa a disposizione dall NASA Jet Propulsion Laboratory
Come potremmo riscaldare Marte o forzare il biossido di carbonio congelato ad essere rilasciato nell’atmosfera? Sono state proposte molte idee, come mettere degli specchi in orbita attorno a Marte per riflettere della luce extra sulla superficie marziana, riscaldandola; cospargere della polvere scura sui poli per diminuire la loro albedo (cioè la luminosità riflessa) così che maggior energia solare possa essere assorbita; e rilasciare dei gas a super effetto serra nell’atmosfera per riscaldare il pianeta. Ci sono gruppi che stanno lavorando per rendere tecnicamente realizzabile le prime due idee. Ma noi abbiamo già implementato l’idea del gas a effetto serra sulla Terra, rendendo questa idea, almeno per ora, il più promettente metodo per terraformare.
I gas a super effetto serra sono molecole molte efficienti nell’assorbire l’energia rilasciata dalla superficie del pianeta, per poi rilasciare questa energia sia verso l’alto – energia che va persa per sempre – ma anche verso il basso, verso la superficie del pianeta, riscaldandolo ulteriormente. Funzionano nello stesso modo di una coperta. Ma noi non vogliamo una coperta qualsiasi! Per esempio, il biossido di carbonio sarebbe come un lenzuolo sottile, mentre un gas a super effetto serra, come il perfluoropropano (C3F8), sarebbe come una spessa coperta di lana. Così noi vorremmo usare gas a super effetto serra – con alti potenziali di riscaldamento e anche lunga vita atmosferica (da 1000 a 10000 anni) per ridurre la necessaria frequenza di rifornimento. Un aspetto-chiave finale per scegliere i gas da super effetto serra è che questi non devono distruggere l’attuale e futuro strato naturale di ozono di Marte (non come i composti da cloro, fluoroe carbonio, detti CFC).
Mars, the Red Planet
Marte, il Pianeta Rosso
Immagine cortesemente messa a disposizione dall NASA Glenn Research Center (NASA-GRC)
Dettagliati modelli atmosferici mostrano che uno dei migliori gas a super effetto serra da usare è il perfluoropropano, e la quantità totale necessaria è cira 26000 volte la quantità di gas simili (CFCs, perfluoro carbonio, idrofluoro carburo) rilasciati ogni anno dall’industria sulla Terra. Questo significa che non possiamo produrre i gas sulla Terra e trasportarli su Marte. Invece i gas dovranno essere fatti su Marte. Di conseguenza terraformare Marte comincerebbe probabilmente quando inizieremo a colonizzare Marte e ci sarà sia l’ncentivo che il potere industriale per creare le fabbriche necessarie per produrre i gas a super effetto serra.
I gas ad effetto serra stanno attualmente drasticamente – e in modo indesiderato – cambiando la Terra, così può sembrare irresponsabile o semplicemente sbagliato usarli su Marte. Tuttavia, cambiare il clima della Terra è indesiderabile perchè c’è già un sistema ecologico altamente evoluto che è strettamente legato al clima. Ma su Marte tale ecosistema non c’è: le ricerche chimiche e fotografiche hanno mostrato che la vita non è proliferata e non controlla il suo ambiente. Ci possono essere organismi in vita latente o organismi che vivono nel sottosuolo. Da buoni esploratori e scienziati e in accordo con il trattato di protezione planetaria, dovremmo accuratamente esplorare Marte alla ricerca di vita già esistente prima di contaminare le nostre analisi scientifiche con organismi terrestri o causare una competizione tra la vita terrestre e quella marziana. Per puro caso, ci si aspetta che i primi stadi del terraformare riportino Marte al suo stadio primordiale – quando la vita sarebbe iniziata – dando così una possibilità ad ogni organismo sopravvissuto, combattivo o in vita latente, di uscire dall’ibernazione e ricreare la biosfera.
Una discussione sul terraformare sarebbe incompleta senza la domanda “Lo dobbiamo fare?”. Solo perchè il terraformare è tecnicamente possibile e non distruggerebbe direttamente un ecosistema, non significa che vada fatto necessariamente. Marte è bello e interessante com’è e forse dovremmo lasciarlo in questo modo per permetterne lo studio alle generazioni future e per preservarne l’attuale bellezza. Io direi che la vita è la cosa più preziosa e bella che conosciamo e diffonderla per tutto il nostro Sistema Solare e oltre è la cosa più importante che protremmo fare! È la presenza della vita che rende la Terra unica ed è questa presenza di vita che permette la nostra esistenza.
An artist’s conception of a terraformed Mars
Una concezione artisitica del terraformare Marte
Immagine cortesemente messa a disposizione dall Michael Carroll / stock-space-images.com
Il terraformare Marte ci permetterebbe di colonizzare ed esplorare il pianeta più facilmente, permettendoci di indossare solo maschere per l’ossigeno ma non tute spaziali per una pressione atmosferica più alta.
Un centinaio di anni fa gli astronomi persavano di vedere acqua e vegetazione su Marte. A quel tempo sbagliavano, ma forse stavanon solo vedendo il futuro.
Recensione
Una caratteristica-chiave dello scrivere libri di fantascienza è che indipendentemente da quanto un’idea è fantasiosa, deve essere teoreticamente realizzabile, nello stesso modo in cui in un giorno futuro lo sviluppo della tecnologia trasforma la finzione futuristica in eventi di tutti i giorni. Margarita Marinova del Caltech descrive la realizzabilità della prospettiva scientifica -fantascientifica di terraformare Marte – rendendo le condizioni sul Pianeta Rosso più simili al nostro pianeta blu, nella speranza di sostenere la vita (umana).
Molti studenti hanno un interesse intrinseco nell’astronomia come nelle questioni ambientali e l’articolo tocca entrambi i settori in modo piacevole, incorporando aspetti dei tre filoni tradizioni della scienza insieme alla geologia. C’è anche la possibilità di trattare l’etica del terraformare in lezioni di educazione personale, sociale e sanitaria (PSHE). Alternativamente, degli artisti potrebbero creare illustrazioni di come potrebbe apparire l’ex-Pianeta Rosso una volta reso verdeggiante, e forse confrontarle con le illustrazioni prodotte nella metà del secolo scorso.
L’articolo può essere usato come esercizio di comprensione o come stimolo per una discussione in classe, dove si può escogitare una varietà di domande trasversali rispetto alle suddivisioni tradizionali della scienza. Le domande di comprensione potrebbero includere:
  • Trova dov’è citato nell’articolo un “ritorno positivo”. Spiega cosa significa nel contesto dell’articolo. Trova un altro esempio di “ritorno positivo” (non nell’articolo). L’esito di un ritorno positivo è sempre buono?
  • Quali sono i tre metodi per riscaldare il Pianeta Rosso citati nell’articolo? Quali sono i possibili vantaggi e svantaggi?
  • Come cambierebbero le scale temporali umane se vivessimo su Marte? Come sarebbero paragonabili il giorno e la notte? Avremmo ancora le stagioni? Quanto sarebbe lungo un anno? Com’è la forza di gravità di Marte paragonata a quella della Terra e che effetto avrebbe sullo sport marziano, per esempio?
Potreste anche entrare nel settore degli aspetti morali legati a questa trasformazione planetaria. La grande questione “Lo dobbiamo fare?” dovrebbe generare molta discussione e si potrebbe chiedere agli studenti di considerare se la loro risposta alla domanda potrebbe dipendere dalle circostanze. Per esempio, sarebbe moralmente inaccettabile terraformare Marte se la vita sul nostro pianeta fosse in un declino terminale e non ci fosse nessun luogo dove andare per la specie umana? Come citato sopra, questo potrebbe essere parte di un dibattito etico in lezioni di PSHE e un esempio su larga scala del dibattito standard sul “diritto alla vita” che tende ad essere usato quando i domini scientifici ed etici si incontrano.
Questo articolo è sia una buona introduzione all’argomento, sia un utile punto di partenza per ricerche future che stimolino gli interessi degli studenti. Potrebbero voler vedere parti del film “Una verità scomoda” , in cui Al Gore discute dei gas ad effetto serra e suggerisce come dopo tutto ci potrebbe essere un aspetto positivo nel problema del cambiamento climatico globale. O potrebbere analizzare ulteriormente Marte: come conosciamo quello che conosciamo su Marte, dato che nessun essere umano lo ha mai visitato? Quali sono i piani attuali per mandare delle persone su Marte? Quali sono le sfide di una tale missione e come sono paragonabili alla sfida degli anni 60 e 70 di mandare degli uomini sulla Luna? Alla fine si potrebbe chiedere agli studenti di trovare esempi di fantascienza storica che siano già diventati scienza.
Ian Francis, Regno Unito