mercoledì 28 giugno 2017

Immortalare un pensiero diventa finalmente possibile! Basta "taggare" i neuroni in attività.

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Immortalare un pensiero diventa finalmente possibile: questo grazie ad una nuova tecnica di laboratorio che consente di 'taggare' i neuroni in attività, fornendo delle istantanee ultra-precise scattate in pochi minuti, invece che nell'arco di ore o giorni come con le tecniche tradizionali. Questo risultato, che imprimerà una forte accelerazione alla ricerca nel campo delle neuroscienze, è pubblicato su Nature Biotechnology dai ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (Mit) in collaborazione con la Stanford University.

Il nuovo sistema di 'etichettatura' dei neuroni, chiamato 'Flare', si basa su un interruttore genetico che si 'accende' quando la cellula nervosa si attiva generando un flusso di ioni calcio al suo interno: il tutto funziona se il neurone viene contemporaneamente illuminato da un raggio di luce blu. In questo caso l'interruttore genetico si accende e va ad attivare un altro gene che produce una proteina fluorescente, oppure altre molecole in grado di evidenziare il neurone. "Un pensiero o una funzione cognitiva in genere durano 30 secondi o un minuto: questo è il range che vorremmo catturare", spiega la ricercatrice Kay Tye del Mit.

In questo studio, i ricercatori hanno dimostrato che la tecnica riesce ad accendere una proteina rossa fluorescente per evidenziare i neuroni della corteccia motoria che si attivano nei topi che corrono sul tapis roulant. Lo stesso approccio potrebbe essere usato per etichettare le cellule nervose con nuove proteine chiamate Dreadds, che permettono il controllo dei neuroni tramite farmaci, oppure usando proteine sensibili alla luce, in modo da rendere i neuroni 'telecomandabili' con un raggio luminoso attraverso la tecnica dell'optogenetica.

La tecnica 'Flare' potrebbe diventare utile anche per studiare e curare malattie: nel caso dell'Alzheimer, ad esempio, potrebbe permettere di individuare i neuroni malati in modo da non intaccare quelli sani.

mercoledì 14 giugno 2017

Il cervello è super-complesso, ha fino a 11 dimensioni! La sua organizzazione scoperta con l'aiuto della matematica .

Fonte: ANSA Scienze
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Il cervello è molto più complesso del previsto, al punto che ogni volta che impara qualcosa di nuovo le sue cellule si riorganizzano e si collegano le une alle altre a partire da strutture semplicissime a due dimensioni come i piani, o a tre dimensioni come i cubi, fino a strutture molto più complicate, a cinque, sei e perfino 11 dimensioni. Pubblicata sulla rivista Frontiers in Computational Neuroscience, la scoperta si deve al progetto Blue Brain, nato nel 2005 per iniziativa del Politecnico di Losanna e della Ibm e con l'obiettivo simulare il funzionamento del cervello.

Le strutture nelle quali il cervello di organizza "sono come castelli di sabbia multidimensionali, che continuamente si materializzano per disintegrarsi subito dopo", ha osservato il coordinatore della ricerca, Henry Markram, direttore del progetto Blue Brain e ricercatore del Politecnico di Losanna.

I ricercatori sono riusciti a individuare questo lato finora nascosto e un po' fantascientifico dell'organizzazione del cervello applicando in modo nuovo la matematica allo studio delle neuroscienze. In particolare l'organizzazione dei neuroni è stata studiata utilizzando la topologia algebrica, ossia la branca della matematica che applica l'algebra per studiare le proprietà e la struttura delle forme nello spazio.

E' la prima volta che uno strumento del genere viene utilizzato dalle neuroscienze e applicarlo allo studio dei circuiti cerebrali ha permesso di scoprire che questi possono essere articolati secondo figure geometriche in più dimensioni.

I computer imparano a programmarsi da soli! Si apre un nuovo campo di ricerca.

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Computer che si programmano da soli: sembra fantascienza, ma potrebbe diventare realtà nel giro di pochi anni, grazie al concetto di apprendimento automatico e agli enormi database di software già esistenti. Lo affermano ricercatori del Politecnico di Zurigo, tra i primi a riuscire ad insegnare a una macchina a scrivere il proprio programma. Lo studio, pubblicato sulla rivista dell'ateneo, sta facendo da apripista per un nuovo campo di ricerca in rapida espansione, il cui obiettivo è automatizzare il più possibile il processo di programmazione.

Il modo in cui i computer programmatori apprendono è simile al modo in cui lavora, ad esempio, il programma di traduzione di Google. I database pubblici danno accesso a milioni di software per computer che contengono miliardi di stringhe di programmazione. Questa incredibile quantità di dati non può essere sfruttata da un essere umano, ma da un computer sì: le macchine, infatti, possono riconoscere schemi e capire quali codici vengono usati in un determinato contesto, imparando anche il loro significato e le regole alla base. "Secondo noi, la programmazione non deve reinventare la ruota ogni volta, ma imparare dagli esempi già esistenti", spiega il gruppo di ricerca guidato da Martin Vechev.

In futuro, i programmi potranno lavorare "a fianco" degli sviluppatori, come fanno le funzioni di completamento delle frasi che si usano per scrivere messaggi sugli smartphone. Per esempio, lo sviluppatore scrive il primo centinaio di linee di codice, che il computer confronta con i codici già presenti nel database. Poi, in base ai risultati, il computer dà suggerimenti su come continuare il programma, lasciando al l'essere umano la possibilità di accettarli o meno. Questo sistema permette alla macchina di continuare il suo processo di apprendimento, imparando a capire quali sono gli obiettivi del programmatore e migliorando i suoi suggerimenti.

domenica 11 giugno 2017

Anche i feti sanno riconoscere i volti: Proiettati con la luce nel grembo materno, attirano la loro attenzione!

Fonte: ANSA Scienze
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Anche i feti hanno la capacità di riconoscere i volti e ne sono così attratti da girare perfino la testa per non perderli di vista: a documentarlo, per la prima volta, sono le incredibili immagini ottenute con l'ecografia 4D in Gran Bretagna dai ricercatori dell'Università di Lancaster, che per studiare le capacità percettive dei nascituri hanno proiettato figure di luce nel grembo materno come in un cinema.

L'esperimento, pubblicato su Current Biology, è il primo a dimostrare la possibilità di studiare la percezione visiva e le capacità cognitive dei bambini ancora prima della nascita. I ricercatori lo hanno condotto su 39 feti alla 34esima settimana di gestazione, proiettando nel loro campo visivo dei fasci di luce raffiguranti volti umani al dritto e al rovescio. Le reazioni, filmate attraverso ultrasuoni in 4D ad altissima definizione, hanno lasciato tutti a bocca aperta.

"C'era la possibilità che i feti potessero trovare interessanti tutte le forme proiettate, a causa della novità dello stimolo", spiega il coordinatore dello studio, Vincent Reid. "Se fosse stato così, non avremmo dovuto vedere differenze nella reazione agli stimoli proiettati al dritto o al rovescio". In realtà, i feti si sono voltati molto più spesso quando venivano proiettate le facce al dritto, mostrando così una reazione "molto simile a quella dei neonati", sottolinea Reid.

La scoperta dimostra che l'attrazione che proviamo per i volti è qualcosa di innato, che non si apprende dopo la nascita con l'esperienza. Inoltre indica che la luce può penetrare nel grembo materno e i feti possono avere percezioni visive, anche se i ricercatori sconsigliano vivamente le future madri di fare esperimenti casalinghi puntando luci sul pancione. Gli studi scientifici invece continueranno, con l'obiettivo di verificare se i feti presentino anche la capacità di discriminare numeri e quantità come i neonati.

giovedì 8 giugno 2017

Creato il primo buco nero "elettromagnetico" delle dimensioni di una molecola!

Rappresentazione artistica dell’intenso flash a raggi X che colpisce gli elettroni dell’atomo di iodio (a destra) in modo da attirare a sé gli elettroni del gruppo metilico (a sinistra), come una versione elettromagnetica di un buco nero. Crediti: Desy/Science Communication Lab.
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Fonte: Media INAF
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Uno studio appena uscito sulla rivista Nature dimostra che è possibile generare un buco nero “elettromagnetico” di piccolissima taglia: le dimensioni di una molecola. Estraendo 54 dei 62 elettroni di una molecola di iodometano, infatti, i ricercatori sono riusciti a creare un oggetto in grado di attirare altri elettroni con una forza superiore a quella gravitazionale di un buco nero stellare.

I buchi neri, si sa, possono avere dimensioni anche molto diverse: da qualche volta a miliardi di volte la massa del nostro Sole. Un team di scienziati è riuscito a trasformare un intenso impulso di raggi X in un minuscolo “buco nero molecolare”. A differenza di quelli che si trovano nello spazio, questo buco nero non attira a sé la materia attraverso la propria gravità, ma attira gli elettroni con la sua carica elettrica, e provoca l’esplosione della molecola in una piccola frazione di secondo. Lo studio, pubblicato sull’ultimo numero della rivista Nature, fornisce importanti informazioni per l’analisi delle molecole attraverso l’uso di laser a raggi X.
I ricercatori, guidati da Artem Rudenko della Kansas State University, hanno utilizzato il laser chiamato Linac coherent light source (Lcls) che si trova presso lo Slac national accelerator lboratory, negli Stati Uniti, per bombardare molecole di iodometano (CH3I) con luce ai raggi X. Gli impulsi generati hanno raggiunto intensità pari a 100 biliardi, ovvero milioni di miliardi, di kilowatt per centimetro quadrato. Il laser ha sbalzato via 54 dei 62 elettroni della molecola, creandone una nuova con una carica positiva 54 volte quella di un elettrone. «Per quanto ne sappiamo, si tratta del livello di ionizzazione più alto mai ottenuto con questa tecnica», dice Robin Santra del Center for free-electron laser science (Cfel), coautore dello studio.
Una ionizzazione così estrema non avviene tutta in una volta. «Il gruppo metilico CH3 è in un certo senso cieco ai raggi X», spiega Santra. «Inizialmente l’impulso a raggi X spoglia l’atomo di iodio di 5 o 6 dei suoi elettroni. La carica positiva che ne consegue significa che l’atomo di iodio è in condizione di attirare a sé gli elettroni del gruppo metilico, come una specie di buco nero atomico». La forza esercitata sugli elettroni è molto maggiore di quella che si verifica attorno a un buco nero di una decina di masse solari. «Il campo gravitazionale dovuto a un buco nero stellare non sarebbe in grado di esercitare una forza altrettanto grande su un elettrone», aggiunge Santra.

Schema del set-up sperimentale. Il fascio di raggi X interseca un fascio molecolare all’interno di uno spettrometro, che misura tutte e tre le componenti del moto dell’impulso ionico. TOF sta per Time of flight, ovvero tempo di “volo”, o spostamento, dello ione. Crediti: Rudenko et al. 2017.

Il processo avviene così rapidamente che gli elettroni risucchiati, vengono catapultati via di nuovo dall’impulso a raggi X. Il risultato è una reazione a catena durante la quale vengono eliminati fino a 54 dei 62 elettroni a disposizione. Tutto questo avviene entro un trilionesimo di secondo.
«Questo genera una carica positiva estremamente elevata, che si sviluppa nello spazio di un decimo di miliardo di metri. Il risultato finale è che la molecola si disintegra», spiega Daniel Rolles del progetto Desy presso il Cfel, coautore dell’articolo.
Questo tipo di esperimenti, condotti presso il Lcls statunitense o l’X-ray free-electron laser (Xfel) europeo, producono raggi X ad alta intensità, che possono essere utilizzati anche per determinare la struttura spaziale delle molecole complesse, arrivando al dettaglio del singolo atomo. Informazioni così precise possono rivelarsi di grande interesse, ad esempio nella biologia per comprendere il funzionamento di biomolecole.
«Lo iodometano è una molecola relativamente semplice per comprendere i processi che si verificano quando i composti organici sono danneggiati dalle radiazioni», dice Artem Rudenko. «Se sono presenti più di un singolo gruppo metilico, possono essere risucchiati anche più elettroni».
Il team che ha effettuato la scoperta è riuscito anche a descrivere in termini teorici queste dinamiche estremamente veloci. Questo è stato possibile grazie a un nuovo software, sviluppato per l’occasione. «Non è soltanto la prima volta che riusciamo ad eseguire con successo l’esperimento, ma è anche la prima volta che possiamo fornire una descrizione numerica del processo», sottolinea Sang-Kil Son del Cfel, coautore dello studio e responsabile del team che ha sviluppato il software di analisi. «I dati raccolti sono molto rilevanti per gli studi che fanno uso di laser a elettroni liberi, perché mostrano in dettaglio ciò che accade quando vengono prodotti danni da radiazioni».

Per saperne di più:
  • Leggi su Nature l’articolo “Femtosecond response of polyatomic molecules to ultra-intense hard X-rays” di A. Rudenko, L. Inhester, K. Hanasaki, X. Li, S. J. Robatjazi, B. Erk, R. Boll, K. Toyota, Y. Hao, O. Vendrell, C. Bomme, E. Savelyev, B. Rudek, L. Foucar, S. H. Southworth, C. S. Lehmann, B. Kraessig, T. Marchenko, M. Simon, K. Ueda, K. R. Ferguson, M. Bucher, T. Gorkhover, S. Carron, R. Alonso-Mori, J. E. Koglin, J. Correa, G. J. Williams, S. Boutet, L. Young, C. Bostedt, S.-K. Son, R. Santra e D. Rolles

sabato 3 giugno 2017

I robot diventano curiosi: Provano 'soddisfazione' quando imparano qualcosa di nuovo.

Fonte: ANSA Scienze
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I robot diventano curiosi e provano 'soddisfazione' quando imparano qualcosa di nuovo: si stanno moltiplicando gli esperimenti per programmare macchine capaci di esplorare l'ambiente in cui si trovanoe di imparare da cio' che vedono. Il più recente, descritto sulla rivista Artificial Intelligence e sul sito della rivista Science, è stato messo a punto da Todd Hester, dell'azienda Google DeepMind di Londra, e Peter Stone, dell'universita' del Texas.

Negli ultimi anni sono stati messi a punto molti algoritmi per tentare di rendere i robot curiosi, ma nessuno e' riuscito mai ad avvicinarsi alla curiosita' umana. I ricercatori hanno quindi tentato di migliorare questi programmi: ''stavo cercando metodi per rendere i computer piu' intelligenti e capaci di esplorare il mondo che li circonda come farebbe un essere umano'', ha detto Hester.

L'intenzione era di renderli capaci ''non di esplorare tutto e a caso, ma di fare qualcosa di un po' piu' intelligente''. Cosi', insieme al collega Stone, Hester ha sviluppato l'algoritmo Texplore-Venir, che si basa su una tecnica chiamata apprendimento per rinforzo. Questa tecnica viene usata da Google DeepMind per consentire ai programmi di padroneggiare i giochi da tavolo, come quella che ha permesso al suo computer di battere il campione mondiale di ''go''.

Nell'apprendimento per rinforzo il programma che cerca di raggiungere un obiettivo, ad esempio uscire da un labirinto, riceve una ricompensa ogni volta che una nuova mossa lo avvicina alla soluzione. In questo modo riesce a imparare con piu' efficacia e a migliorare progressivamente le sue prestazioni.Texplore-Venir invece fa qualcosa in piu': aggiunge anche un obiettivo interno, per il quale il programma si auto-ricompensa quando impara qualcosa di nuovo.

I ricercatori hanno provato il loro metodo sia su un bot, ossia un programma per computer, sia sul piccolo robot umanoide Nao, alto 50 centimetri e utilizzato in molti laboratori di tutto il mondo. Il risultato è stato positivo: i robot sono diventati curiosi. Secondo i ricercatori è un passo importante per rendere sempre più flessibili i futuri robot destinati a lavorare vicino all'uomo nelle case o nelle fabbriche.

venerdì 2 giugno 2017

Gli atomi obbediscono alla gravità, come nell' esperimento di Galileo.

Fonte: ANSA Scienze
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Uno dei più celebri esperimenti di Galileo Galilei, quello della caduta dei gravi, è stato riprodotto lasciando cadere nel vuoto degli atomi e dimostra che le leggi della gravitazione previste dalla teoria della relatività di Einstein valgono anche nel mondo dell'infinitamente piccolo. Il risultato, pubblicato sulla rivista Nature Communications e coordinato dall'Italia, nello stesso tempo dà anche torto ad Einstein e al suo scetticismo nei confronti della fisica quantistica.

"La teoria di Einstein era stata sviluppata per oggetti classici, come pianeti, stelle e onde gravitazionali, ma finora nessuno aveva mai verificato se le stesse leggi della gravità valessero anche nei sistemi quantistici", ha osservato il coordinatore della ricerca, Guglielmo Tino, dell'università di Firenze. L'esperimento, chiamato "Magia Advanced", è stato condotto in collaborazione con l'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn).
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Condotto in collaborazione l'Agenzia Spaziale Europea (ESA) e le università di Bologna, Vienna e quella australiana di Queensland, l'esperimento lascia già intravedere una ricaduta concreta, con lo sviluppo di sensori basati su tecnologie quantistiche per studiare i possibili precursori dei terremoti, il movimento del magma nei vulcani e per cercare i giacimenti minerari. I prototipi sono già stati messi a punto da una spin off dell'università di Pisa.
Nell'esperimento, che segna un'evoluzione di quello condotto nel 2014, sono stati fatti cadere nel vuoto atomi dalla proprietà singolari perché hanno nello stesso tempo due masse diverse e si trovano in due stati di energia diversi: una condizione comune nel mondo della fisica quantistica e che è analoga a quella del paradosso del gatto di Schroedinger che può essere vivo e morto nello stesso tempo. La novità è che atomi così stravaganti obbediscono alle leggi della gravità pensate per il mondo dei grandi oggetti.
"Non era mai stato fatto nulla di simile finora", ha detto Tino. "E' un risultato interessante - ha aggiunto - perché dal punto di vista teorico la relatività generale riesce a spiegare la gravità, mentre la meccanica quantistica spiega i sistemi microscopici: non ci sono teorie che funzionino per entrambi i sistemi e, in assenza di una teoria unificante, abbiamo fatto una verifica sperimentale".

Il punto di partenza è stato il principio di equivalenza di Einstein alla base della teoria della relatività generale e fondamentale per la comprensione della gravità e dello spazio-tempo. "Questo principio - ha spiegato Tino - implica l'equivalenza tra la massa inerziale e la massa gravitazionale e quindi che tutti i corpi cadono allo stesso modo".

Per metterlo alla prova anche nel mondo dell'infinitamente piccolo i ricercatori hanno fatto cadere nel vuoto atomi di rubidio raffreddati a temperature vicine allo zero assoluto. Hanno così riprodotto su una scala piccolissima una situazione analoga a quella dell'esperimento della caduta dei gravi di Galileo. "L'esperimento ha verificato che atomi in stati quantistici diversi cadono allo stesso modo".