giovedì 29 novembre 2012

Ignazio Licata: "Il mondo è reale? Riflessioni sulle frontiere della fisica" - Video intervista.

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James Hartle e Stephen Hawking hanno ottenuto un'espressione per la "funzione d'onda dell'Universo" usando la tecnica dell'integrazione sui cammini. La funzione d'onda dell'Universo, considerata come funzione di tre variabili spaziali e di una temporale, è essenzialmente un elenco di tutte le possibili storie, classiche e non classiche, attraverso le quali l'Universo può essere pervenuto al suo stato attuale. Questo a sua volta consiste di tutte le particelle e di tutte le loro combinazioni logicamente possibili che possono esistere nello stadio attuale dell'Universo. Se si accetta l'interpretazione a molti mondi (MWI) della meccanica quantistica, come fanno Hartle e Hawking, tutte queste possibilità sono realmente esistenti. In altre parole, l'Universo, definito come tutto ciò che esiste, coincide con l'insieme di tutte le possibilità logicamente coerenti. Cos'altro potrebbe esservi? Vi sono inoltre forti indicazioni che la struttura matematica della meccanica quantistica richieda che tutte le possibilità distinguibili sul piano dell'osservazione esistano realmente. Più precisamente si può dimostrare che la funzione d'onda dell'Universo ha solo zeri isolati, se si ammette che sia un autostato dell'energia, come hanno fatto Hartle e Hawking, e se l'hamiltoniana dell'Universo è un operatore autoaggiunto. Ciò significa che, nel dominio di tutte le possibilità, la funzione d'onda è diversa da zero quasi ovunque. Ma è impossibile distinguere, operativamente, tra una funzione d'onda che non si annulla mai e una diversa da zero quasi ovunque. Se si dimostrasse che la struttura matematica della meccanica quantistica è logicamente necessaria, si avrebbe una prova che un unico Universo è logicamente possibile: quello in cui viviamo.

mercoledì 14 novembre 2012

Il 'cronografo' piu' preciso del mondo, in funzione al Cern di Ginevra nel 2018.

Fonte: ANSA.it
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Il 'cronografo' piu' preciso al mondo potrebbe presto arrivare dal Cern di Ginevra. Un nuovo rivelatore, la cui installazione e' prevista per il 2018, sara' in grado di misurare gli impulsi di luce piu' brevi mai generati, che, secondo una simulazione del politecnico di Vienna, possono essere ottenuti grazie alle collisioni tra i nuclei di piombo usati nell'esperimento Alice.

Attualmente i lampi di luce piu' brevi hanno una durata di qualche trilionesimo di secondo. Questo record pero' potrebbe presto essere infranto. ''I nuclei degli atomi negli acceleratori di particelle come Lhc al Cern possono generare impulsi ancora piu' brevi, fino a un milione di volte'', spiega il ricercatore Andreas Ipp. E' il caso degli impulsi luminosi che vengono emessi quando nell'esperimento Alice i nuclei di piombo vengono fatti scontrare quasi alla velocita' della luce. I residui dei nuclei con le nuove particelle generate nell'impatto danno vita al cosiddetto plasma di quark e gluoni, uno stato della materia caratterizzato da temperature cosi' elevate che perfino i protoni e i neutroni si fondono. Questo plasma dura pochissimi istanti, appena qualche milionesimo di trilionesimo di secondo.

Nessuna tecnologia attuale e' in grado di 'cronometrare' dei lampi cosi' rapidi. Secondo le simulazioni al computer del politecnico di Vienna, pero', la misurazione potra' essere fatta da un nuovo rivelatore destinato a diventare il cronografo piu' preciso del mondo.

Nanostelle accese in laboratorio, per simulare le reazioni che avvengono negli astri.

Fonte: ANSA.it
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Bruciano a centinaia di milioni di gradi per simulare le reazioni che avvengono nel Sole e nelle stelle piu' grandi: sono le nanostelle, veri e proprio astri in miniatura, generati presso il laboratorio Circe della Seconda universita' di Napoli. L'obiettivo e' ''scoprire come funzionano il cuore del Sole e il nucleo degli astri piu' grandi, destinati a morire come supernovae'', spiega Lucio Gialanella, della seconda universita' di Napoli e dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn). Gialanella e' responsabile dell'esperimento Erna (Europeon Recoil separator for Nuclear Astrophysics), installato presso l'acceleratore Tandem del Circe a Caserta.
Costato quasi 3 milioni, finanziati per il 50% dall'Infn e per il 50% dall'ente tedesco che finanzia la ricerca (Dfg), l'esperimento Erna e' il cuore dei test perche' e' al suo interno che avvengono le reazioni nucleari. Installato inizialmente in Germania, presso l'universita' della Ruhr, l'apparato e' stato trasferito nel 2010 presso il Circe. ''E' l'unico apparato di questo tipo in Europa e grazie ad esso - sottolinea Gialanella - il nostro laboratorio e' stato incluso nella lista delle strutture della Europe Science Foundation''.


Negli esperimenti, prosegue Gialanella ''si produce una fusione nucleare, ma la differenza, con le stelle e' la scala molto piu' piccola: nel nostro caso avviene una reazione all'ora, mentre nel Sole avvengono miliardi di miliardi di reazioni al secondo''. Per simulare, ad esempio, che cosa avviene nel Sole si dirige un fascio di berillio 7 verso un bersaglio costituito da idrogeno e si produce boro 8. ''E' una reazione molto importante - rileva - perche' si producono anche neutrini come quelli generati nel cuore del Sole e che raggiungono la Terra''. Se si conosce il numero totale di queste particelle emesse dal Sole, prosegue il ricercatore, ''i neutrini possono essere utilizzati come 'sonde' per comprendere come funziona il nucleo della nostra stella. Questo dato da' infatti informazioni sulla temperatura del nucleo solare''.

Grazie agli esperimenti in corso al Circ, aggiunge Gialanella, ''stiamo determinando i dettagli del numero di neutrini che partono dal Sole in direzione della Terra: che sono circa il doppio di quelli rivelati sul nostro pianeta. Nel viaggio dal Sole alla Terra, infatti, molte di queste particelle si trasformano'', cambiano cioe' identita', trasformandosi da un tipo di neutrino in un altro per il fenomeno chiamato ''oscillazione del neutrino''.
Per studiare le reazioni che avvengono nelle stelle piu' grandi del Sole, a partire da 5 masse solari, si conducono esperimenti con carbonio ed elio. In questo caso ''si studia una reazione importantissima, che determina tutta la quantita' di carbonio e ossigeno presente nell'universo''. Inoltre, il rapporto di ossigeno e carbonio nelle stelle che hanno una massa superiore a 8 masse solari ''ci dice - conclude l'esperto - in che modo morira' una stella: come avverra' l'esplosione e se si trasformera' in una stella di neutroni oppure in un buco nero''.

martedì 13 novembre 2012

L’acciaio inox, in futuro, potrebbe memorizzare dati.

Fonte: Sci-X
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Mettere raggi X,sul ghiaccio, in una scatola, e poi rilasciarli quando si vuole: sembra fantascienza. Nuovi calcoli mostrano, tuttavia, che quanti singoli di raggi X possono essere catturati, con l’aiuto di un campo magnetico, e successivamente recuperati senza perdita di qualità. Inoltre, è possibile manipolare questi quanti memorizzati e, particolarmente,se ne può manipolare la fase in modocontrollato. Il ruolo della ‘scatola’ è assunto dai nuclei degli atomi di ferro. Essi assorbono l'energia dei raggi X quantistici e la memorizzano come stato eccitato. È fondamentale far concentrare i raggi X, tali che siano estremamente sottili e ‘appuntiti’, di principio, della dimensione di un atomo.
Si apre così la possibilità, un giorno, di memorizzare l’informazione codificata in un raggio X coerente, in una matrice di atomi di ferro in una piastrina di acciaio inox. Questa sarebbe l’unità di memoria più densa in assoluto,di sempre.
Nello scenario immaginabile: una piastrina di acciaio inossidabile è immersa in un campo magnetico, che scinde livelli di energia dei nuclei del ferro 57. Perpendicolare alla direzione del campo magnetico, viene irradiata luce coerente polarizzata di raggi X, la cui intensità è impostato in modo che il campione assorba solo fotone per ogni impulso, ossia viene eccitato solo un nucleo. La disattivazione del campo magnetico subito dopo l’impulso di raggi X blocca la situazione: l’eccitazione, comprese tutte le proprietà del fotone, come polarizzazione e fase, vengono come ‘congelati’ e , dunque,l’informazione viene memorizzata. La riattivazione del campo magnetico, in un momento successivo, libera nuovamente il fotone con le sue caratteristiche originarie e l’informazione può essere letta. Con questo metodo dovrebbero essere possibili tempi di memorizzazione di circa 100 nanosecondi.
Testo originario integrale:

lunedì 12 novembre 2012

Un motore che funziona con una molecola sola.

Fonte: LeScienze.it
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Messo a punto un metodo per estrarre energia da un sistema "rumoroso", traducendo il moto casuale di una molecola di idrogeno nel movimento regolare di un braccio oscillatorio. Il risultato è stato ottenuto sfruttando il cosiddetto fenomeno della risonanza stocastica.
Una singola molecola di idrogeno può alimentare il movimento di un oggetto molto più grande. A dimostrarlo è un gruppo di ricercatori della Freie Universität di Berlino, che descrivono come hanno fatto a sfruttare questo scopo una serie di effetti stocastici in un articolo pubblicato su “Science” a prima firma Christian Lotze.

Normalmente, in un sistema fisico l'energia meccanica scorre da dove ce n'è di più a dove ce ne è meno, dissipandosi sotto forma di movimento termico casuale delle molecole e degli atomi del sistema. Molti sistemi naturali, in particolare quelli biologici, si sono però evoluti in modo da invertire questa tendenza, consentendo il flusso di energia dal “piccolo” al “grande”. Lotze e colleghi hanno cercato di ricreare questa capacità in sistemi artificiali molto piccoli, alla ricerca di un modo efficiente per alimentare e far funzionare nanostrutture.

I ricercatori, in particolare, hanno dimostrato come il moto di una singola molecola di idrogeno può alimentare quello di un braccio oscillante relativamente ben più grande.

Nel loro esperimento, una singola molecola di idrogeno (H2) è stata intrappolata fra due elettrodi metallici: una superficie di rame e la punta di un microscopio a effetto tunnel mantenuto a bassissima temperatura, circa cinque kelvin. Quando tra punta e rame è stata applicata una tensione elettrica, la corrente ha indotto l'idrogeno a passare in modo casuale tra due diverse posizioni. Per estrarre energia da questo moto casuale e trasferirla all'oscillatore, è necessario che le forze che agiscono sul braccio oscillante quando si avvicina e quando si allontana dalla superficie non si annullino e siano differenti, ossia che vi sia un fenomeno di isteresi.

Il “trucco” usato dai ricercatori per ottenere questo fenomeno di isteresi è stato osservare che, sebbene la corrente elettrica faccia passare casualmente l'idrogeno tra i due stati, la tensione di polarizzazione può essere sintonizzata su un valore specifico, in modo che le fluttuazioni di posizione dell'idrogeno diventino altamente correlate con il movimento della punta del microscopio, così da indurre il fenomeno noto come risonanza stocastica.
"In linea di principio, si potrebbero anche immaginare meccanismi di eccitazione da altre fonti, come la luce", ha detto Felix von Oppen, il cui modello teorico è stato importante per l'interpretazione dei risultati sperimentali. La conversione di energia tramite risonanza stocastica è in effetti uno dei processi che fa funzionare alcune macchine molecolari nella cellula. "Un aspetto interessante dei nostri risultati è che suggeriscono che lo stesso meccanismo possa essere utilizzato in motori molecolari artificiali."

Idrogeno dall’energia solare? Possibile, grazie alla ruggine.

Fonte: Gaianews.it
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Gli scienziati della EPFL, École Polytechnique Fédérale de Lausanne, stanno studiando un modo per stoccare l’energia rinnovabile in un modo ecologico ed economico a partire da idrogeno, luce del sole, acqua e ruggine.
Uno dei problemi gestionali più importanti delle energie rinnovabili è che non è possibile conservarle e stoccarle. Un nuovo metodo proposto dai ricercatori svizzeri propone di convertire l’energia in idrogeno che è più facilmente stoccabile e non produce carbonio. L’operazione avviene con acqua e ossido di ferro, ossia la comune ruggine. L’articolo, pubblicato su Nature Photonics, spiega che il dispositivo è ancora in fase sperimentale, ma che i ricercatori si sono impegnati ad utilizzare metodi e materiali poco costosi, proprio per trovare una soluzione economicamente sostenibile. Infatti erano già state portate avanti ricerche per la creazione di idrogeno, ad esempio dall’acqua, da altri colleghi svizzeri. Anche se il prototipo era funzionante i costi erano davvero eccessivi, mettendo di fatto un limite all’utilizzo finale del prototipo e alla sua riproducibilità.
Così gli scienziati si sono posti un limite fin dall’inizio: utilizzare solo materiali e tecniche a prezzi accessibili. Non è stato un compito facile, ma ci sono riusciti. “Il materiale più costoso nel nostro dispositivo è la lastra di vetro”, spiega Sivula. L’efficienza è ancora bassa – tra l’1,4% e il 3,6%, a seconda del prototipo utilizzato. Ma la tecnologia ha un grande potenziale secondo i ricercatori.
“Con il nostro prototipo meno costoso a base di ossido di ferro, speriamo di essere in grado di raggiungere efficienze del 10% in pochi anni, per meno di $ 80 per metro quadrato. A quel prezzo, saremo competitivi con i metodi tradizionali di produzione di idrogeno .”
Il vero protagonista del prototipo è l’ossido di ferro. “E ‘un materiale stabile e abbondante e non c’è modo che arruginisca ulteriormente, ma è uno dei peggiori semiconduttori disponibili,” ammette Sivula.
Ecco perché l’ossido di ferro utilizzato dal team è un po’ più sviluppato di quello che ci si trova su un vecchio chiodo. Naturalmente però, le procedure che modificano l’ossido di ferro sono comunque semplici da applicare. “Avevamo bisogno di sviluppare metodi di preparazione semplici, come quelli in cui si può solo immergere o dipingere il materiale.”
La seconda parte del dispositivo è composto da un colorante e biossido di titanio – gli ingredienti base di un colorante-sensibilizzante la cella solare. Questo secondo strato permette che gli elettroni si trasferiscano dall’ ossido di ferro con energia sufficiente per estrarre idrogeno dall’acqua.
I risultati presentati rappresentano un importante passo avanti in termini di prestazioni nello studio dell’ossido di ferro. Sivula prevede che la tecnologia possa essere in grado di raggiungere un rendimento del 16%, pur mantenendo un basso costo, che è, dopo tutto, l’attrattiva di questo approccio, che permette di immagazzinare l’energia solare a buon mercato. Il sistema sviluppato al Politecnico di Losanna potrebbe aumentare notevolmente il potenziale dell’ energia solare, candidandola a fonte rinnovabile importante per il futuro.

La pelle artificiale che percepisce il tatto e si autoripara.

Fonte: ANSA.it
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E' stata realizzata la prima 'pelle artificiale' che è sensibile al tatto e può 'auto-guarire' quando subisce un taglio o uno strappo: è un materiale plastico descritto sulla rivista Nature Nanotechnology da un gruppo di ricerca coordinato da Zhenan Bao, dell'università americana di Stanford. Il materiale potrà essere alla base di protesi e dispositivi elettronici di nuova generazione, come gli schermi che si auto-riparano.
Negli ultimi dieci anni ci sono stati importanti progressi nella realizzazione della pelle artificiale, osserva Bao, ma anche i più efficaci materiali capaci di auto-ripararsi hanno avuto gravi inconvenienti. Alcuni devono essere esposti a temperature elevate, che li rende poco pratici per un uso quotidiano. Altri possono guarire a temperatura ambiente, ma solo una volta, perché riparare un taglio modifica la loro struttura meccanica o chimica.
Il segreto del materiale che combina le due caratteristiche fondamentali della pelle umana, ossia la sensibilità al tatto e la capacità di auto-ripararsi, é nelle lunghe catene di molecole unite da legami di idrogeno, le cui attrazioni, tra la regione di carica positiva di un atomo e la regione di carica negativa del successivo, sono relativamente deboli.
"Questi legami dinamici consentono al materiale di auto-guarire a temperatura ambiente", rileva uno degli autori, Wang Chao. Le molecole si rompono facilmente, quando vengono danneggiate ma poi, quando si riconnettono, i legami si riorganizzano e ripristinano la struttura del materiale. Nei test i ricercatori hanno tagliato una striscia di materiale e poi hanno avvicinato e premuto fra loro i pezzi tagliati per qualche secondo: il materiale si è auto-riparato quasi al 100% in circa 30 minuti. Inoltre, lo stesso campione può essere tagliato più volte nello stesso punto.

Oltre ad essere flessibile, il materiale è anche capace di condurre elettricità e ciò è stato possibile aggiungendo particelle di nichel. La superficie su scala nanometrica di queste particelle é ruvida in modo che ciascun bordo sporgente concentra un campo elettrico rendendo più facile alla corrente di fluire da una particella all'altra. Il materiale è abbastanza sensibile per rilevare la pressione di una stretta di mano, in oltre è molto flessibile, in grado di registrare il grado di curvatura in una articolazione e ciò, secondo gli esperti, lo rende ideale per l'utilizzo nelle protesi. Il prossimo passo è rendere il materiale elastico e trasparente, in modo che possa essere adatto per realizzare dispositivi elettronici o schermi capaci di auto-ripararsi se danneggiati.

venerdì 9 novembre 2012

Cambiare canale con un semplice gesto della mano.

Fonte: Cordis
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Un team di inventori provenienti da tutta Europa ha eliminato i telecomandi tradizionali e ha sviluppato un sensore delle dimensioni di un orologio da polso in grado di seguire il movimento tridimensionale della mano e che permette all'utente di controllare a distanza qualsiasi dispositivo. I ricercatori ritengono che il loro dispositivo potrebbe rimpiazzare il telecomando e i controller dei videogiochi, e potrebbe persino controllare il telefonino con un semplice gesto della mano. Il loro controller "Digits" è stato presentato al 25° simposio della Association for Computing Machinery su software e tecnologia dell'interfaccia utente (ACM UIST).

La loro invenzione rappresenta un importante progresso poiché permette, per la prima volta, interazioni tridimensionali senza che l'utente sia vincolato ad alcun dispositivo esterno. Secondo i suoi sviluppatori, Digits riesce a mappare il movimento e l'orientamento delle dita dando così all'utente il controllo remoto sempre e ovunque, permettendo persino di rispondere al telefono mentre esso si trova ancora in tasca e si sta camminando per la strada.

Digits è stato sviluppato da David Kim, uno dottorando finanziato da Microsoft Research (MSR), studente del Culture Lab dell'Università di Newcastle; Otmar Hilliges, Shahram Izadi, Alex Butler e Jiawen Chen di MSR Cambridge; Iason Oikonomidis della Fondazione greca per la ricerca e la tecnologia; e il professor Patrick Olivier del Culture Lab dell'Università di Newcastle.

"Il sensore Digits non dipende da nessuna infrastruttura esterna ed è quindi totalmente mobile," spiega David Kim. "Questo significa che gli utenti non sono confinati in uno spazio fisso. Essi possono interagire mentre si spostano da una stanza all'altra o persino mentre corrono per la strada. Quello che Digits riesce a fare è portare finalmente l'interazione 3-D fuori dal salotto di casa."

Per realizzare il loro ambizioso obbiettivo, Digits doveva essere leggero, consumare poca energia e doveva riuscire a essere piccolo e confortevole come un orologio. Allo stesso tempo essi volevano anche che Digits riuscisse a fare molte cose, come possedere una migliore rilevazione del movimento e "comprensione" della mano umana, dall'orientamento del polso all'angolo di ciascuna articolazione delle dita, in modo che l'interazione non fosse limitata a dei punti 3D nello spazio. Digits doveva capire ciò che la mano sta tentando di esprimere, persino quando è dentro a una tasca.

David Kim ha aggiunto: "Noi avevamo bisogno di un sistema che permettesse delle naturali interazioni 3-D a mani nude, ma con flessibilità e precisione paragonabili a quelle dei guanti dati. Noi volevamo che gli utenti fossero in grado di interagire istintivamente con i loro dispositivi elettronici usando semplici gesti, senza nemmeno doverli toccare. Riuscite a immaginare quanto più comodo sarebbe se fossimo in grado di rispondere al telefonino mentre ancora si trova in tasca o sepolto in fondo alla borsa?"

Il loro prototipo, che hanno presentato alla prestigiosa conferenza ACM UIST 2012, include una telecamera a infrarossi (IR), un laser generatore di linea IR, un illuminatore diffuso IR e una IMU (Inertial Measurement Unit).

Shahram Izadi spiega le varie difficoltà che hanno dovuto superare, come ad esempio l'estrapolazione di movimenti naturali di una mano da uno sparse sampling dei punti chiave rilevati dalla telecamera.

"Prima dovevamo comprendere le parti del nostro corpo, per poter poi elaborare il loro funzionamento in modo matematico," spiega Shahram Izadi. "Abbiamo passato ore a fissare le nostre dita, abbiamo letto dozzine di studi scientifici sulle proprietà biomeccaniche della mano umana e abbiamo tentato di mettere in correlazione questi cinque punti con il movimento complesso della mano. In effetti, abbiamo riscritto completamente ogni modello cinematico circa tre o quattro volte prima di trovare quello giusto."

Il team concorda sul fatto che il momento più eccitante del progetto è stato quello in cui i membri del team hanno visto che i modelli funzionavano. "All'inizio la mano virtuale spesso si rompeva e non funzionava; una cosa sempre molto frustrante da guardare," spiega David Kim. "Poi, un giorno, abbiamo semplificato radicalmente il modello matematico, che improvvisamente si è comportato come una mano umana. Si è trattato di una sensazione assolutamente surreale e coinvolgente, come nel film Avatar. Quel momento ci ha dato una grossa spinta!"

Digits è solo la punta dell'iceberg, i ricercatori stanno anche facendo degli esperimenti per sviluppare ulteriormente la loro invenzione. "Riuscendo a comprendere in che modo una parte del corpo funziona e sapendo quali sensori usare per cogliere un'istantanea - dice Shahram Izadi - Digits offre uno sguardo convincente sulle possibilità di rendere accessibili la piena espressività e destrezza di una delle nostre parti del corpo per l'interazione mobile uomo-computer."
Per maggiori informazioni, visitare:

Università di Newcastle
http://www.ncl.ac.uk/

25° simposio della Association for Computing Machinery su software e tecnologia dell'interfaccia utente http://www.acm.org/uist/uist2012/
Categoria: Varie
Fonte: Università di Newcastle
Documenti di Riferimento: Sulla base di informazioni diffuse dall'Università di Newcastle
Codici di Classificazione per Materia: Applicazioni della tecnologia dell'informazione e della comunica
RCN: 35216

giovedì 8 novembre 2012

Scattare foto con lo sguardo e vedere testo e disegni direttamente nell’occhiale.

Fonte: Sci-X
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Ricercatori del Fraunhofer Institut per l’Organica, materiali e componenti elettronici COMEDD di Dresda lavorano da diversi anni alla progettazione di HMD interattivi (Head Mounted Displays),simili a occhiali con dati, che si basano sulla tecnologia OLED. Questi aggiungono, accanto al mondo reale, una realtà estesa con ulteriori informazioni visibili.
Gli occhiali sviluppati ora con i colleghi del Fraunhofer Institut di Optronica, Tecnologia di Sistema valorizzazione dell’immagine IOSB di Karlsruhe e la società Trivisio permettono una visualizzazione controllata tramite il movimento degli occhi. Un tecnico, ad esempio, può osservare un particolare di una macchina con gli occhiali e nello stesso tempo sfogliare con gli occhi un manuale sovrapposto all’immagine reale.
"Nei nostri nuovi occhiali usiamo un nuovo chip CMOS con fotocamera integrata e un microdisplay OLED, per il quale abbiamo il brevetto", spiega il responsabile del progetto Dr. Rigo Herold. I ricercatori, per la prima volta,hanno integrato degli OLED con fotorivelatori sul chip CMOS. “E’ equipaggiato con unità di trasmissione e di ricezione e la disposizione delle informazioni avviene in una struttura a matrice. Si forma così un micro display bidirezionale. Ciò significa che siamo in grado sia di prendere, sia di riprodurre immagini ", spiega Herold. Il chip ha una dimensione di 11x13 mm e contiene quattro pixel di luce e un fotodiodo nel mezzo. Questo registra il movimenti degli occhi di chi indossa gli occhiali. I pixel compongono l’immagine che la persona riceve rispecchiati sulmicrodisplay. Quest'ultimo è costituito da una matrice a scacchi di pixel luminosi di OLED e da fotorivelatori inglobati tra essi, che operano quasi come una fotocamera.Il display ha una superficie luminosa di 10,24 x 7,68 millimetri. L’osservatore guarda, attraverso gli occhiali, verso l'orizzonte e vede proiettato davanti a sé un disegno, uno schema o una carta topografica, come se avesse la dimensione di 1 metro.
Testo originario integrale:

Nuovo concetto e metodo per rilevamento e visualizzazione delle impronte digitali.

Fonte: Sci-X
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Gli scienziati della Hebrew University di Gerusalemme hanno sviluppato un nuovo approccio per rendere più facilmente leggibili le impronte digitali sulla carta, un supporto che spesso rende difficile il rilevamento delle impronte. Il nuovo metodo, creato da un team guidato dal Prof. Yossi Almog e dal Prof. Daniel Mandler dell'Istituto di Chimica presso l'Università Ebraica, utilizza un innovativo processo chimico per produrre un negativo dell’immagine dell'impronta digitale, piuttosto che l'immagine positiva prodotta coi metodi correnti. Il processo sviluppato è pressoché indipendente dalla composizione del sudore residuo lasciato dal dito sulla carta.
La nuova procedura sviluppata presso l'Università Ebraica evita questi problemi. Esso fa un’inversione del metodo consolidato, nel quale nanoparticelle d’oro sono prima depositate sulle impronte invisibili, seguiti da argento elementare, in modo simile allo sviluppo di una fotografia in bianco e nero.
Nella tecnica convenzionale, le particelle d'oro si attaccano alle componenti aminoacide del sudore presente nelle impronte digitali e poi l’argento viene depositato sull’oro. Il risultato è che, molto spesso, si ottengono impressioni, poco contrastate, delle impronte digitali. Nel nuovo metodo, le nanoparticelle d’oro aderiscono direttamente alla superficie della carta, ma non al sudore. Questa tecnica utilizza il sebo dalle impronte digitali come mezzo per evitare questa interferenza. Il trattamento con uno sviluppatore contenente argento fa diventare nere le aree su cui c’è oro: in tal modo si ha una immagine negativa, chiara dell’impronta digitale.
"Dato che il nostro metodo si basa unicamente sulle componenti grasse nelle impronte digitali, gli aspetti del sudore non svolgono alcun ruolo nel processo di imaging", ha detto il Prof. Almog. Questa tecnica promette anche di risolvere un altro problema, ha detto. "Se la carta si bagna è bagnata, è finora stato difficile rilevare le impronte digitali perché gli aminoacidi nel sudore, che sono il substrato primario per reazioni di amplificazione chimica, vengono sciolti e lavati via dall'acqua, mentre le componenti grassi sono appena intaccate" In tal modo, la possibilità di evitare gli aspetti del sudore fornisce un ulteriore avanzamento per le indagini di laboratorio della polizia, ha osservato lo scienziato.
Testo originario integrale:

Filtro biologico che abbatte residui medicinali nelle acque.

Fonte: Sci-X
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Quindici studenti del Centro di Biotecnologie dell’Università di Bielefeld hanno sviluppato un filtro biologico che rimuove gli estrogeni dall’acqua potabile. Vi sono riusciti mediante la produzione di enzimi che abbattono gli ormoni. Si tratta di enzimi di funghi che crescono sugli alberi, i quali filtrano i residui di medicinali dalle acque di scarico e dall’acqua potabile.
I metodi convenzionali di filtraggio delle acque reflue negli impianti di trattamento delle acque reflue non sono in grado di rimuovere completamente i residui di farmaci, come ad esempio gli estrogeni. Questi residui poi vanno a finire nei fiumi e nei laghi e si accumulano nell’acqua potabile. Per i pesci e le altre forme di vita acquatica, gli estrogeni possono portare a disturbi riproduttivi e di sviluppo e persino alla formazione di caratteristiche femminili nei maschi. Le potenziali conseguenze a lungo termine per gli esseri umani, il numero degli spermatozoi in declino, la sterilità, vari tipi di cancro e osteoporosi, sono ancora in gran parte sconosciute.
Il team degli studenti di Bielefeld ha sviluppato un filtro biologico in cui gli enzimi specifici (i cosiddetti laccasi) abbattono questi residui di medicinali. Una fonte nota di laccasi particolarmente efficienti è il ‘turkey tail’ (coda di tacchino), un tipo di fungo che cresce sugli alberi. Utilizzando metodi di biologia sintetica, gli studenti sono riusciti a sintetizzare questo enzima e ad impiegarlo per filtrare materiale. 'Non volevamo inventare qualcosa di completamente folle con il nostro progetto, solo perché è tecnicamente possibile. Volevamo fare qualcosa che possa realmente essere utilizzato in un prossimo futuro, ossia essere un reale vantaggio ', spiega Robert Braun, uno studente di biotecnologia molecolare. Il biofiltro realizzato è appunto un progetto del genere.
Articolo originario integrale:

Un nuovo nanomateriale che resiste ...alle pallottole!

Fonte: Sci-X
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Un nuovo studio condotto da ricercatori del MIT e della Rice University ha dimostrato che anche materiali molto leggeri,più leggeri del Kevlar, possono essere in grado di svolgere la funzione di protezione contro urti ad alta velocità da parte di corpi vari, come sassi, sabbia, pezzi di ferro e proiettili.
La chiave è usare materiali compositi, costituiti da due o più materiali, le cui rigidità e flessibilità sono strutturati in modo molto specifico, ad esempio, in strati alternati di solo pochi nanometri di spessore. Il team di ricerca ha prodotta anche proiettili in miniatura e ha misurato gli effetti che hanno prodotto sul materiale che doveva assorbire l'impatto.
I risultati della ricerca sono riportati nella rivista Nature Communications, in un articolo intitolato ("High strain rate deformation of layered nanocomposites").
Il team ha sviluppato un polimero auto-assemblante, dotato di struttura a strati: strati gommosi, che forniscono la resilienza, alternati a strati vetrosi, che forniscono la resistenza. Hanno poi sviluppato un metodo per sparare perle di vetro contro il materiale, ad alta velocità, utilizzando un impulso laser per far evaporare rapidamente uno strato di materiale appena sotto la sua superficie. Sebbene le perline fossero minuscole, del diametro di millesimi di millimetro, erano comunque centinaia di volte più grandi degli strati del polimero contro cui hanno impattato:ossia abbastanza grandi per simulare l’impatto di grossi oggetti, come le pallottole, ma sufficientemente perché gli effetti degli impatti potessero essere studiati in dettaglio, mediante un microscopio elettronico. (segue…)
Testo originario integrale:
Immagine courtesy of Thomas Lab, Rice University

Ottenuto Diesel dallo zucchero, grazie ad un processo di fermentazione.

Fonte: ANSA.it
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Un lungo processo di fermentazione utilizzato in passato per trasformare l'amido in esplosivi può essere utilizzato per convertire lo zucchero in biodiesel. Il risultato, pubblicato sulla rivista Nature, si deve al gruppo di ricerca coordinato dall'americano Dean Toste, dell'università della California a Berkeley.

Secondo gli autori il prodotto ottenuto potrebbe essere commercializzato entro 5-10 anni, soprattutto come biodiesel da usare come carburante nei trasporti.

I ricercatori sono partiti da una tecnica inventata quasi cento anni fa, nel 1914, dal chimico Chaim Weizmann. Nel suo processo, Weizmann utilizzava il batterio Clostridium acetobutylicum per far fermentare gli zuccheri dell'amido in acetone, butanolo ed etanolo. Il processo di fermentazione, chiamato Abe per le tre sostanze chimiche prodotte, ha permesso alla Gran Bretagna di produrre l'acetone necessario per produrre la cordite, utilizzata a quel tempo per sostituire la polvere da sparo.

Per ottenere il Diesel i ricercatori hanno sviluppato un metodo che estrae l'acetone e il butanolo dalla miscela di fermentazione ottenuta con la tecnica di Weizmann e poi, con un catalizzatore, hanno convertito queste sostanze in una miscela di idrocarburi a catena lunga che assomiglia alla combinazione di idrocarburi nel gasolio.
Il problema dei percorsi naturali per produrre etanolo e altri alcol è che i composti ottenuti hanno meno atomi di carbonio rispetto a quelli necessari per la benzina o il diesel. Adesso il probema è stato risolto integrando percorsi biologici e chimici, i ricercatori superano questo problema e mostrano di riuscire a convertire efficacemente i prodotti di fermentazione ottenuti in grandi molecole che contengono molti atomi di carbonio.

I test hanno dimostrato che la miscela ottenuta brucia come lo fanno normalmente i prodotti ottenuti dal petrolio. Il processo è abbastanza versatile e, secondo gli esperti, può utilizzare una vasta gamma di materie prime rinnovabili, dallo zucchero del mais (glucosio), allo zucchero di canna (saccarosio) fino all'amido, e può lavorare anche con materie prime non destinate all'uso alimentare come alberi e i rifiuti vegetali.

Minuscoli sommergibili per viaggiare nel corpo umano.

Fonte: ANSA.it
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Microscopici chirurghi robot sono capaci di viaggiare nel corpo umano per curarlo dall'interno. Dotati di piccole zampe, come gli insetti, o di eliche, come i sommergibili, si muovono nello stomaco e nell'intestino per diagnosticare e trattare i tumori, oppure nei vasi sanguigni, per distruggere i blocchi che ostruiscono il flusso del sangue. Sembrano usciti dal romanzo fantascientifico 'Viaggio allucinante' di Isaac Asimov, ma li hanno ideati i ricercatori della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, che li presentano a Milano, nella fiera Robotica 2012.

''Il romanzo di Asimov è stato per noi una grande fonte di ispirazione, così come la natura e il mondo degli insetti'', spiega Gastone Ciuti, ricercatore del gruppo di Chirurgia robotica coordinato da Arianna Menciassi. Nei loro laboratori, presso l'Istituto di Biorobotica, ha preso vita una folta schiera di micro-chirurghi robot dotati delle forme più disparate a seconda del distretto del corpo in cui vengono usati.

I più curiosi sono gli insetti-robot con 8 o 12 zampe, che servono per diagnosticare e trattare le malattie del colon. ''Sono capsule grandi meno di un centimetro che vengono introdotte nell'apparato digerente e che, una volta raggiunto l'intestino, dispiegano le zampe e cominciano a muoversi alimentati da batterie ai polimeri di litio'', spiega Ciuti.

Per lo stomaco, invece, sono stati messi a punto dei mini-sommergibili dotati di eliche che navigano tra i succhi gastrici per inviare all'esterno tutte le immagini e le informazioni utili.

Sono decisamente fantascientifiche anche le sonde che viaggiano nei vasi sanguigni per raggiungere e distruggere le ostruzioni che bloccano il flusso del sangue. ''Queste capsule vengono guidate da un campo magnetico esterno e nei loro spostamenti sono sempre tenute sotto controllo ecografico'', spiega Ciuti. ''Una volta raggiunta l'ostruzione - aggiunge - attraverso la loro coda vengono iniettate delle microbolle d'aria che esplodono come mine''. L'ostruzione viene così frantumata e i detriti vengono legati da particelle magnetiche che vengono recuperate sfruttando il campo magnetico esterno.

La prima malattia su un chip: La tecnica promette di rivoluzionare la medicina.

Fonte: ANSA.it
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Per la prima volta una malattia umana, l'edema polmonare, è stata riprodotta su un chip. La tecnica, descritta sulla rivista Science Translational Medicine, si annuncia come il primo passo verso una rivoluzione nella medicina. Riprodurre una malattia su un chip significa infatti poterne studiare nel settaglio i meccanismi, migliorando in questo sia la diagnosi sia la ricerca di farmaci più mirati ed efficaci.

Il risultato si deve al gruppo di ricerca americano del Wyss Institute dell'università di Harvard. Le sperimentazioni tradizionali di farmaci, su colture cellulari e sugli animali, osserva Donald Ingber, direttore e fondatore dell'Istituto Wyss e fra gli autori dello studio "sono molto costose e spesso non riescono a prevedere gli effetti di questi agenti quando raggiungono gli esseri umani".

I ricercatori hanno prima costruito un polmone su chip e poi lo hanno fatto ammalare di edema polmonare per studiare gli effetti di un farmaco chemioterapico e per identificare potenziali nuove terapie per prevenire questa malattia mortale in cui i polmoni si riempiono di liquido e coaguli di sangue.

Il polmone su chip è stato realizzato con un polimero flessibile, delle dimensioni di una piccola scheda di memoria, che contiene canali cavi. Due di questi canali sono separati da una membrana porosa, sottile e flessibile, che da un lato è rivestita con cellule polmonari umane e dall'altra da cellule umane dei vasi del sangue. Un vuoto, fra i canali laterali deforma questa interfaccia tessuto-tessuto per ricreare il modo in cui i tessuti polmonari umani si espandono e si ritirano durante la respirazione.

Ottenuto il polmone su chip i ricercatori hanno studiato l'azione di un farmaco chemioterapico, l'interleuchina-2, che ha il grande effetto collaterale di causare l'edema polmonare. Quando il farmaco è stato iniettato nell'organo su chip, il fluido è fuoriuscito attraverso la membrana nei due strati di tessuto, riducendo il volume di aria nel canale respiratorio e compromettendo il trasporto di ossigeno, come accade nei polmoni dei pazienti quando viene somministrato il farmaco in modo prolungato. Inoltre, come accade ai pazienti trattati con questo farmaco, le proteine del sangue, hanno portato alla formazione di coaguli.

mercoledì 7 novembre 2012

Vita su Marte: “terraformare” il Pianeta Rosso.

Traduzione di Lucilla Croce Ferri (Fonte: http://www.scienceinschool.org/print/695)
The surface of Mars – devoid of liquid water and life
La superficie di Marte – priva di acqua liquida e di vita.
Immagine cortesemente messa a disposizione dall NASA Ames Research Center (NASA-ARC)
Scienza o fantascienza? Margarita Marinova del Caltech, USA studia la possibilità di installare la vita su Marte.
I primi astronomi guardavano Marte ammirati e pensavano di vedere un pianeta attraversato da canali di irrigazione e coperto di vegetazione. Un centinaio di anni più tardi, nel 1964, la sonda spaziale Mariner 4 raggiunse Marte. La delusione degli scienziati deve essere stata amara, vedendo un mondo arido senza segni di vegetazione, acqua o vita. A questi scienziati l’idea di un pianeta Marte umido, coperto di piante, sembrò improvvisamente fantascienza.
Nei quarant’anni passati dal Mariner 4, abbiamo imparato molto su Marte grazie alle molte sonde mandate sul Pianeta Rosso. Sappiamo che la temperatura superficiale di Marte varia tra i -143 °C ai poli e i +27 °C all’equatore. Marte ha un’atmosfera molto sottile (circa 1% della pressione terrestre), non c’è acqua liquida e la radiazione UV combinata con la regolite altamente ossidante rende la superficie di Marte un luogo senza vita. Tuttavia, dalle immagini che mostrano una fitta rete di canali e fiumi e dalle osservazioni dei Mars Exploration Rovers che mostrano strati di sedimenti e alterazioni degli strati dovuti all’acqua, abbiamo imparato che nel primo mezzo miliardo di anni della sua storia, Marte era un posto caldo e umido con una atmosfera spessa. Quindi Marte potrebbe essere reso di nuovo abitabile?
Questa è la premessa del “terraformare” – cambiare un pianeta per renderlo abitabile da forme di vita simili a quelle terrestri. L’idea del terraformare fu suggerita per la prima volta negli anni 30 – solamente nel settore fantascientifico. Tuttavia, negli anni 60, gli scienziati iniziarono a pensare a questa idea in modo più serio. È veramente realizzabile? Può essere realizzata con le tecnologie attuali?
Per rispondere alla domanda se sia possibile terraformare Marte, dobbiamo prima di tutto vedere cosa è necessario alla vita e se Marte ha queste basi. Marte attualmente non dispone di acqua liquida sulla sua superficie a causa delle sue basse temperature e dell’atmosfera sottile (la pressione atmosferica è sotto il punto triplo dell’acqua, la pressione sotto la quale un materiale può esistere solo come solido o vapore, indipendentemente dalla temperatura). Oltre all’acqua liquida, la vita più basilare sulla Terra ha bisogno solo di un’atmosfera con cui scambiare i gas. Organismi più complessi hanno esigenze più stringenti e numerose – le piante hanno bisogno di un piccolo ammontare di ossigeno, gli animale hanno bisogno di una pressione atmosferica più alta – ma i microorganismi hanno esigenze minime.
Marte ha biossido di carbonio congelato (CO2 ice) nelle calotte polari e assorbito nel terreno, che verrebbe rilasciato se il pianeta venisse riscaldato. Questo ispessirebbe l’atmosfera e così riscalderebbe ulteriormente il pianeta. Il riscaldamento causerebbe anche lo scioglimento dell’acqua gelata rivelata alle calotte polari. Così Marte sembra avere i due ingredienti-chiave necessari a sostenere la vita. Non solo questo, ma, una volta che Marte sia stato riscaldato in qualche modo, ci sarebbe un ritorno positivo nel rilascio di biossido di carbonio dalle calotte polari e dalla regolite, l’ispessimento dell’atmosfera, un ulteriore riscaldamento del pianeta, il rilascio di acqua e, di conseguenza, le condizioni che permettono all’acqua liquida di persistere sulla superficie.
Mars’ North Polar Cap: made of frozen carbon dioxide and water
Il Polo Nord di Marte: fatto di biossido di carbonio congelato e acqua
Immagine cortesemente messa a disposizione dall NASA Jet Propulsion Laboratory
Come potremmo riscaldare Marte o forzare il biossido di carbonio congelato ad essere rilasciato nell’atmosfera? Sono state proposte molte idee, come mettere degli specchi in orbita attorno a Marte per riflettere della luce extra sulla superficie marziana, riscaldandola; cospargere della polvere scura sui poli per diminuire la loro albedo (cioè la luminosità riflessa) così che maggior energia solare possa essere assorbita; e rilasciare dei gas a super effetto serra nell’atmosfera per riscaldare il pianeta. Ci sono gruppi che stanno lavorando per rendere tecnicamente realizzabile le prime due idee. Ma noi abbiamo già implementato l’idea del gas a effetto serra sulla Terra, rendendo questa idea, almeno per ora, il più promettente metodo per terraformare.
I gas a super effetto serra sono molecole molte efficienti nell’assorbire l’energia rilasciata dalla superficie del pianeta, per poi rilasciare questa energia sia verso l’alto – energia che va persa per sempre – ma anche verso il basso, verso la superficie del pianeta, riscaldandolo ulteriormente. Funzionano nello stesso modo di una coperta. Ma noi non vogliamo una coperta qualsiasi! Per esempio, il biossido di carbonio sarebbe come un lenzuolo sottile, mentre un gas a super effetto serra, come il perfluoropropano (C3F8), sarebbe come una spessa coperta di lana. Così noi vorremmo usare gas a super effetto serra – con alti potenziali di riscaldamento e anche lunga vita atmosferica (da 1000 a 10000 anni) per ridurre la necessaria frequenza di rifornimento. Un aspetto-chiave finale per scegliere i gas da super effetto serra è che questi non devono distruggere l’attuale e futuro strato naturale di ozono di Marte (non come i composti da cloro, fluoroe carbonio, detti CFC).
Mars, the Red Planet
Marte, il Pianeta Rosso
Immagine cortesemente messa a disposizione dall NASA Glenn Research Center (NASA-GRC)
Dettagliati modelli atmosferici mostrano che uno dei migliori gas a super effetto serra da usare è il perfluoropropano, e la quantità totale necessaria è cira 26000 volte la quantità di gas simili (CFCs, perfluoro carbonio, idrofluoro carburo) rilasciati ogni anno dall’industria sulla Terra. Questo significa che non possiamo produrre i gas sulla Terra e trasportarli su Marte. Invece i gas dovranno essere fatti su Marte. Di conseguenza terraformare Marte comincerebbe probabilmente quando inizieremo a colonizzare Marte e ci sarà sia l’ncentivo che il potere industriale per creare le fabbriche necessarie per produrre i gas a super effetto serra.
I gas ad effetto serra stanno attualmente drasticamente – e in modo indesiderato – cambiando la Terra, così può sembrare irresponsabile o semplicemente sbagliato usarli su Marte. Tuttavia, cambiare il clima della Terra è indesiderabile perchè c’è già un sistema ecologico altamente evoluto che è strettamente legato al clima. Ma su Marte tale ecosistema non c’è: le ricerche chimiche e fotografiche hanno mostrato che la vita non è proliferata e non controlla il suo ambiente. Ci possono essere organismi in vita latente o organismi che vivono nel sottosuolo. Da buoni esploratori e scienziati e in accordo con il trattato di protezione planetaria, dovremmo accuratamente esplorare Marte alla ricerca di vita già esistente prima di contaminare le nostre analisi scientifiche con organismi terrestri o causare una competizione tra la vita terrestre e quella marziana. Per puro caso, ci si aspetta che i primi stadi del terraformare riportino Marte al suo stadio primordiale – quando la vita sarebbe iniziata – dando così una possibilità ad ogni organismo sopravvissuto, combattivo o in vita latente, di uscire dall’ibernazione e ricreare la biosfera.
Una discussione sul terraformare sarebbe incompleta senza la domanda “Lo dobbiamo fare?”. Solo perchè il terraformare è tecnicamente possibile e non distruggerebbe direttamente un ecosistema, non significa che vada fatto necessariamente. Marte è bello e interessante com’è e forse dovremmo lasciarlo in questo modo per permetterne lo studio alle generazioni future e per preservarne l’attuale bellezza. Io direi che la vita è la cosa più preziosa e bella che conosciamo e diffonderla per tutto il nostro Sistema Solare e oltre è la cosa più importante che protremmo fare! È la presenza della vita che rende la Terra unica ed è questa presenza di vita che permette la nostra esistenza.
An artist’s conception of a terraformed Mars
Una concezione artisitica del terraformare Marte
Immagine cortesemente messa a disposizione dall Michael Carroll / stock-space-images.com
Il terraformare Marte ci permetterebbe di colonizzare ed esplorare il pianeta più facilmente, permettendoci di indossare solo maschere per l’ossigeno ma non tute spaziali per una pressione atmosferica più alta.
Un centinaio di anni fa gli astronomi persavano di vedere acqua e vegetazione su Marte. A quel tempo sbagliavano, ma forse stavanon solo vedendo il futuro.
Recensione
Una caratteristica-chiave dello scrivere libri di fantascienza è che indipendentemente da quanto un’idea è fantasiosa, deve essere teoreticamente realizzabile, nello stesso modo in cui in un giorno futuro lo sviluppo della tecnologia trasforma la finzione futuristica in eventi di tutti i giorni. Margarita Marinova del Caltech descrive la realizzabilità della prospettiva scientifica -fantascientifica di terraformare Marte – rendendo le condizioni sul Pianeta Rosso più simili al nostro pianeta blu, nella speranza di sostenere la vita (umana).
Molti studenti hanno un interesse intrinseco nell’astronomia come nelle questioni ambientali e l’articolo tocca entrambi i settori in modo piacevole, incorporando aspetti dei tre filoni tradizioni della scienza insieme alla geologia. C’è anche la possibilità di trattare l’etica del terraformare in lezioni di educazione personale, sociale e sanitaria (PSHE). Alternativamente, degli artisti potrebbero creare illustrazioni di come potrebbe apparire l’ex-Pianeta Rosso una volta reso verdeggiante, e forse confrontarle con le illustrazioni prodotte nella metà del secolo scorso.
L’articolo può essere usato come esercizio di comprensione o come stimolo per una discussione in classe, dove si può escogitare una varietà di domande trasversali rispetto alle suddivisioni tradizionali della scienza. Le domande di comprensione potrebbero includere:
  • Trova dov’è citato nell’articolo un “ritorno positivo”. Spiega cosa significa nel contesto dell’articolo. Trova un altro esempio di “ritorno positivo” (non nell’articolo). L’esito di un ritorno positivo è sempre buono?
  • Quali sono i tre metodi per riscaldare il Pianeta Rosso citati nell’articolo? Quali sono i possibili vantaggi e svantaggi?
  • Come cambierebbero le scale temporali umane se vivessimo su Marte? Come sarebbero paragonabili il giorno e la notte? Avremmo ancora le stagioni? Quanto sarebbe lungo un anno? Com’è la forza di gravità di Marte paragonata a quella della Terra e che effetto avrebbe sullo sport marziano, per esempio?
Potreste anche entrare nel settore degli aspetti morali legati a questa trasformazione planetaria. La grande questione “Lo dobbiamo fare?” dovrebbe generare molta discussione e si potrebbe chiedere agli studenti di considerare se la loro risposta alla domanda potrebbe dipendere dalle circostanze. Per esempio, sarebbe moralmente inaccettabile terraformare Marte se la vita sul nostro pianeta fosse in un declino terminale e non ci fosse nessun luogo dove andare per la specie umana? Come citato sopra, questo potrebbe essere parte di un dibattito etico in lezioni di PSHE e un esempio su larga scala del dibattito standard sul “diritto alla vita” che tende ad essere usato quando i domini scientifici ed etici si incontrano.
Questo articolo è sia una buona introduzione all’argomento, sia un utile punto di partenza per ricerche future che stimolino gli interessi degli studenti. Potrebbero voler vedere parti del film “Una verità scomoda” , in cui Al Gore discute dei gas ad effetto serra e suggerisce come dopo tutto ci potrebbe essere un aspetto positivo nel problema del cambiamento climatico globale. O potrebbere analizzare ulteriormente Marte: come conosciamo quello che conosciamo su Marte, dato che nessun essere umano lo ha mai visitato? Quali sono i piani attuali per mandare delle persone su Marte? Quali sono le sfide di una tale missione e come sono paragonabili alla sfida degli anni 60 e 70 di mandare degli uomini sulla Luna? Alla fine si potrebbe chiedere agli studenti di trovare esempi di fantascienza storica che siano già diventati scienza.
Ian Francis, Regno Unito

lunedì 5 novembre 2012

Arduino Due offre prestazioni più elevate, tanto da poter controllare quadricotteri, laser e stampanti 3D.

Fonte: ANSA.it
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Arriva la nuova versione di Arduino, la scheda italiana che ha aperto il mondo della robotica domestica e motore della cosiddetta ''terza rivoluzione industriale''. Rispetto alle versioni precedenti, Arduino Due offre prestazioni più elevate, tanto da poter controllare quadricotteri, laser e stampanti 3D.
"Arduino Due è un passo molto importante per lo sviluppo dell'hardware open-source in Italia – ha spiegato uno degli ideatori della scheda, Massimo Banzi - perchè ci permette di spingere la prototipazione elettronica verso nuove frontiere: mi aspetto di vedere in giro macchine al taglio laser più economiche, stampanti 3D più veloci e strumenti musicali auto-costruiti più performanti con dentro la piccola grande Due”.

Nata nel 2005 all'interno di un istituto di interaction design di Ivrea (Torino), Arduino è stato uno dei primi oggetti fisici (hardware) rilasciato con licenza open source, cioè liberamente modificabile da altri utenti. La sua rapida diffusione ha dato luogo alla nascita di una vasta comunità di utilizzatori, professionisti e non, diffusa in tutto il mondo. Secondo alcuni analisti, la nascita di numerose applicazioni di uso pratico a basso costo, come nel caso delle stampanti 3D fatte 'in casa' o per il sequenziamento 'low cost' del Dna, sta rapidamente modificando le catene di produzione, tanto da immaginare l'arrivo di una terza rivoluzione industriale.

In questo cambiamento in atto, l'italianissima Arduino ha rappresentato un elemento fondamentale e, a poco più di sei anni dalla nascita della prima scheda, gli sviluppatori si sono dichiarati pronti al rilascio della nuova Arduino. Molto piùpotente e veloce delle precedenti, “ora - ha spiegato Banzi - è la comunità che deve spiegarci come può essere utilizzata".

Dal veleno di serpente, una speranza per la ricerca.


Fonte: Euronews
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Il veleno dei serpenti è molto utile sia per la produzione di antidoti che per la ricerca scientifica. Può generare un largo spettro di molecole importanti per il loro impatto su una grande varietà di obbiettivi farmacologici nella cura del sistema nervoso, dei muscoli, dei reni, del cuore e della circolazione sanguigna.
In un'azienda nel sud-est della Francia si usano le teconologie hi-tech per produrre veleno.

Particelle colloidali che si autoassemblano in molecole.

Fonte: LeScienze.it
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Una nuova tecnica permette di costruire strutture complesse che simulano il comportamento di atomi e molecole a partire da particelle colloidali con dimensioni di alcune centinaia di nanometri. Oltre ad aprire le porte alla sintesi di materiali con proprietà sconosciute, questa tecnica rende possibile l'impiego delle particelle come modello per lo studio del comportamento dinamico della materia a scale molto più piccole.
Nuovi tipi di particelle che si autoassemblano in strutture complesse secondo gli stessi schemi con cui gli atomi si uniscono per formare molecole, ma di dimensioni molto maggiori, circa un millesimo dello spessore di un capello umano, sono state ottenute a partire da sospensioni colloidali da un gruppo di ricercatori della New York University, della Harvard University e della Dow Chemical Company, che ne riferiscono in un articolo pubblicato su “Nature”.

I colloidi sono sospensioni omogenee di particelle alle microscale o alle nanoscale in un liquido. Sono di grande interesse scientifico, ma il loro potenziale per la creazione di nuovi materiali è rimasto ampiamente inutilizzato.

In passato infatti gli scienziati sono riusciti a costruire solo strutture rudimentali a partire dai colloidi. Questo perché le particelle colloidali hanno in generale una struttura sferica e aderiscono tra loro in modo uniforme lungo tutte le rispettive superfici, inoltre interagiscono in base a forze non specifiche. Per ovviare a questo inconveniente si è pensato di attaccare molecole di DNA a singolo filamento alle particelle, in modo che interagiscano solo con altre particelle portatrici di filamenti di DNA complementari. Tuttavia il trucco di dotare le particelle di simili “cerotti” (patch) adesivi non ha risolto il problema della direzionalità dei legami, che è necessaria per il controllo dell’auto-assemblaggio delle particelle, così da rendere possibile un aumento della complessità della struttura.

Particelle colloidali che si autoassemblano in molecole
La nuova tecnica consente la creazione di particelle micrometriche che simulano la struttura di molecole. (Cortesia Yufeng Wang e Yu Wang / Nature)
Dato che in chimica la direzionalità delle strutture è legata anche alla valenza degli atomi coinvolti, gli autori dell'articolo hanno pensato di imitare questa proprietà dotando le particelle di un numero maggiore di cerotti secondo diverse simmetrie. "Questo
ci dà una grande flessibilità nella progettazione di strutture tridimensionali", ha spiegato David Pine, uno degli autori dello studio.

Le particelle complesse ottenute con questa tecnica sono piuttosto grandi, da 500 a 900 nanometri di diametro, una caratteristica che permette di osservarle con la microscopia ottica, opportunità non praticabile con gli atomi, e di usarle come modello per il comportamento dinamico della materia a scale molto piccole. Inoltre, dato che la procedura può essere eseguita a partire da colloidi di dimensioni originariamente differenti, è possibile combinare particelle di dimensioni diverse in una molteplicità di configurazioni, lunghezze, spaziature e simmetrie che non si trovano in un sistema naturale. Tutto questo potrà consentire di assemblare materiali dotati di proprietà finora sconosciute.

Un nuovo approccio per conciliare meccanica quantistica e gravità.

Fonte: LeScienze.it
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In un articolo postato su ArXiV, il premio Nobel per la fisica Frank Wilczek propone un nuovo approccio teorico per comprendere il comportamento di una particella quantistica nel campo gravitazionale estremamente intenso di un buco nero. Il modello, sorprendetemente, utilizza un formalismo matematico da corso universitario.
Spesso gli ostacoli difficili da scavalcare possono essere aggirati, anche nella scienza. Pare un po' questo l'approccio adottato dal premio nobel per la fisica Frank Wilczek, del Massachusetts Institute of Technology (MIT), che ha proposto, con un articolo postato su ArXiV, una via per riconciliare meccanica quantistica e teoria della relatività utilizzando strumenti matematici da corso universitario.

Uno dei grandi propositi rimasti incompiuti in fisica è unire meccanica quantistica e teoria della relatività generale di Einstein in un unico quadro coerente. La prima include le leggi che dominano nel mondo subatomico e riguardano molecole, atomi e particelle subatomiche che interagiscono tra loro con la forza elettro-debole e quella forte. La seconda descrive invece come si comportano le masse estremamente grandi sotto l'effetto della gravitazione, quindi a scale dimensionali molto maggiori rispetto a quelle della meccanica quantistica. Quindi i due contesti rimangono separati, nella maggior parte dei casi, ma non in tutti. In vicinanza dei buchi neri, previsti dalla relatività generale, la forza gravitazionale raggiunge valori estremi, tali da rendere estremamente densa la materia.

Come è possibile fornire unna descrizione dei fenomeni microscopici in questa situazione? Una prima via è la gravità quantistica, formalmente molto complessa, e secondo Wilczek non necessaria per capire il comportamento di una particella quantistica nel campo gravitazionale di un buco nero.
Per aggirare le difficoltà, si è pensato di affrontare il problema dal punto di vista topologico, considerando cioè le caratteristiche generali della geometria dello spazio-tempo, che viene, come noto, deformato dall'enorme massa del buco nero. Il cambiamento di geometria che si verifica in vicinanza delle grandi masse è modellizzato in un sistema monodimensionale, in cui una singola particella quantistica si trova a muoversi lungo un cavo, che a un certo punto si biforca. Alla funzione d'onda quantistica della particella vengono poi imposte le condizioni al contorno ai due estremi del cavo.

Questo nuovo modello – ha sottolineato Wilczek, commentando l'articolo su «Nature» - ha in sostanza due grandi pregi: usare una matematica da corsi universitari e riprodurre in modo naturale il passaggio a una topologia diversa. Dove possa portare questo nuovo apparato teorico, ammette lo stesso Wilczek, è presto per dirlo.

Nanomattoni per i materiali del futuro, ottenuti da nano particelle assemblate con il Dna.

Fonte: ANSA.it
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Arrivano i ‘’nanomattoni’’ per i materiali del futuro: sono stati ottenuti trasformando nanoparticelle in veri e propri 'mattoncini' per costruzioni, tenuti uniti fa filamenti di Dna. Il risultato, al quale la rivista Nature dedica la copertina, si deve al gruppo dell’Università di New York coordinato da David Pine. Grazie a questa tecnica è possibile realizzare composti che non esistono in natura e con applicazioni in numerosi campi, dall'ottica alla biologia.

Utilizzando filamenti di Dna i ricercatori sono riusciti a far interagire tra loro nanoparticelle disperse in un liquido, orientandole e controllandone la direzione. In questo modo si è riusciti a controllare i meccanismi per legare piccole particelle come fossero atomi.

La distribuzione delle cariche elettriche permette agli atomi di avere dei ben definiti siti dove legarsi agli altri atomi, mentre nelle nanoparticelle, costituite da più atomi, questo processo avviene in maniera disordinata. Per superare il problema, i ricercatori statunitensi sono riusciti a creare sulle nanoparticelle delle piccole sporgenze 'adesive' grazie all'inserimento di filamenti di Dna. Determinando la combinazione di basi del filamento è infatti possibile far aderire perfettamente due tratti complementari di Dna, facendoli combaciare come i mattoncini per costruzioni.

Lo studio permette così di realizzare e manipolare precise composizioni di particelle in forme che non esistono in natura. In questo modo potrebbe essere possibile realizzare materiali con proprietà ancora sconosciute e con applicazioni in moltissimi campi. I movimenti di queste nanoparticelle risultano inoltre ben visibili al microscopio e possono quindi fornire molte informazioni su quanto avviene normalmente nell'invisibile scala atomica, osserva Chad Mirkin, della Northwestern University, commentando la ricerca nello stesso numero di Nature. La nuova tecnica, aggiunge, è lo strumento che potrebbe permettere un giorno di costruire molecole complesse con la stessa facilità con cui si assembla un semplice oggetto.

venerdì 2 novembre 2012

Costruita la prima cella solare tutta in carbonio.

Fonte: Gaianews.it
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Il carbonio ha il potenziale per offrire alte prestazioni a basso costo e per questo, i ricercatori americani hanno creato la prima cella solare tutta carbonica come una promettente alternativa per i dispositivi fotovoltaici attuali.
Un team di scienziati dell’Università di Stanford ha costruito la prima cella solare realizzata completamente in carbonio, una promettente alternativa ai materiali costosi utilizzati nei dispositivi fotovoltaici attuali. I risultati sono pubblicati nell’edizione online del 31 ottobre della rivista ACS Nano.
“Il carbonio ha il potenziale per offrire alte prestazioni a basso costo”, ha dichiarato il primo autore Zhenan Bao, professore di ingegneria chimica a Stanford. “Sulla base della nostra migliore conoscenza, questa è la prima dimostrazione di una cella solare funzionante che ha tutti i componenti in carbonio.”
A differenza dei pannelli solari in silicio rigido che adornano molti tetti, il prototipo di pellicola sottile di Stanford è stato costruito dai materiali carbonici che possono essere rivestiti da una soluzione. “Forse in futuro si potrebbe guardare ai mercati alternativi in cui le celle solari flessibili di carbonio coprirebbero la superficie degli edifici, le finestre o i veicoli per generare elettricità”, ha continuato Bao.
“La tecnica di rivestimento ha anche il potenziale per ridurre i costi di produzione”, ha spiegato lo studente laureato di Stanford Michael Vosgueritchian, co-autore dello studio con il ricercatore Marc Ramuz. “Lo sviluppo delle celle solari in base di silicio richiede molti passaggi. Ma il nostro intero dispositivo potrebbe essere costruito utilizzando semplici metodi di rivestimento che non richiedono strumenti costosi e diverse macchine.”
La cella solare sperimentale del gruppo di Bao consiste di uno strato fotoattivo che assorbe la luce solare, inserito tra due elettrodi. In una tipica cella solare a pellicola sottile, gli elettrodi sono costruiti dai metalli conduttivi e dall’ossido misto di indio e stagno (ITO). “I materiali come l’indio sono rari e sempre più costosi a causa della domanda di celle solari, pannelli tattili e di altri dispositivi elettronici nel mercato,” ha affermanto Bao. “Il carbonio, invece, è a basso costo e molto abbondante sulla Terra.”
Per raggiungere i risultati dello studio, Bao e i suoi colleghi hanno sostituito l’argento e l’ITO utilizzando degli elettrodi convenzionali con grafene – i fogli di carbonio che sono un atomo sottile di nanotubi di carbonio che sono 10.000 volte più stretti di un capello umano. “I nanotubi di carbonio hanno una straordinaria conducibilità elettrica e la proprietà dell’assorbimento di luce”, ha dichiarato Bao.
Per lo strato attivo, gli scienziati hanno utilizzato il materiale creato dai nanotubi di carbonio e dai buckminsterfullereni” – gli atomi di carbonio che si dispongono ai vertici di un particolare poliedro semiregolare. Il team di ricerca ha recentemente registrato un brevetto per il dispositivo completo.
Uno svantaggio del prototipo tutto carbonico è che assorbe principalmente nella lunghezza d’onda del vicino infrarosso, contribuendo ad una efficienza di laboratorio di meno dell’1 percento – molto più bassa di quella delle celle solari disponibili in commercio.
Il team di Stanford sta esaminando una varietà di metodi per migliorare l’efficienza. “Dobbiamo capire come rendere ogni strato molto liscio impilando i nanomateriali al meglio,” ha affermato il ricercatore.
I ricercatori stanno anche sperimentando nanomateriali di carbonio in grado di assorbire una maggiore luce in un range più vasto di lunghezze d’onda compreso lo spettro visibile. “I materiali in carbonio sono molto robusti,” ha aggiunto Bao.
“Tali materiali rimangono stabili alle temperature dell’aria di quasi 1.100 gradi Fahrenheit. Siamo convinti che tutte le celle solari di carbonio potrebbero essere utilizzati negli ambienti estremi, ad esempio ad alta temperatura o ad alto stress fisico. Ma ovviamente noi vogliamo la massima efficienza possibile e stiamo lavorando su come migliorare il nostro dispositivo,” ha concluso Vosgueritchian.

giovedì 1 novembre 2012

Progettato nuovo impianto per produrre carburante dai rifiuti dei mercati di frutta e verdura.

Fonte: Sci-X
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I rifiuti dei mercati all'ingrosso possono essere utilizzati per l'energia: i ricercatori del Fraunhofer Institut, in collaborazione con partner industriali, hanno realizzato, all’interno del progetto congiunto EtaMax, un impianto dimostrativo, con cui verdura e frutta di scarto vengono fatte fermentare. Il biogas viene purificato e la quota di metano cresce. E’ vero e proprio carburante per le auto.
Dalla fermentazione di questi rifiuti organici si forma del biogas, una miscela costituita principalmente da metano e biossido di carbonio. L'impianto pilota è stato posizionato direttamente vicino al mercato all'ingrosso di frutta e verdura di Stoccarda, sul terreno della centrale termoelettrica EnBW.
Fino ad ora, il biogas è in gran parte trasformato per lo più mediante la produzione combinata di calore ed energia in un impianto di cogenerazione. Lì, oltre all’energia elettrica, si genera calore, ma questo, spesso, va in gran parte sprecato. "Il nostro approccio è quello di generare la massima quantità possibile di biogas dai rifiuti e poi di prepararlo per diventare combustibile per autotrazione”, spiega la dr.ssa. -Ing. Ursula Schließmann, direttore di Dipartimento del Fraunhofer IGB. I ricercatori si stanno concentrando sui rifiuti acquosi con poco contenuto legnoso. "Questi rifiuti possono essere fermentati in modo ottimale, in modo da conseguire un rendimento elevato", afferma ancora Schließmann.
Una sfida nel progetto: i rifiuti dei mercati all'ingrosso hanno ogni giorno un mix diverso: talvolta ci sono più vegetali, talvolta più frutta, non tutti i vegetali, né tutti i frutti sono uguali. Gli agrumi, per esempio, contengono molto acido, che influenza l'equilibrio acido o il pH. I microrganismi che trasformano i rifiuti organici in biogas hanno bisogno di condizioni ambientali costanti. Per mantenere costante l’equilibrio acido, i ricercatori del Fraunhofer hanno sviluppato un “Impianto Multi-subtrato”, flessibile, in cui i microrganismi decompongono fino al 90 per cento dei rifiuti e producono in solo pochi giorni il biogas desiderato. "Noi immagazziniamo gli scarti del mercato in contenitori diversi. Qui, automaticamente, vengono determinati alcuni parametri dei rifiuti, ad esempio il valore del pH. Un sistema di gestione appositamente sviluppato calcola quanti litri di rifiuti misti devono essere presi dai contenitori e quale quantità di micro-organismi deve essere aggiunta”, spiega Schließmann.
Nell’impianto EtaMax, il biossido di carbonio viene separato dal biogas e la concentrazione di metano aumenta ad una percentuale dell’80-95% in volume. Il biogas preparato viene compresso ad alta pressione e stoccato in un serbatoio. Questa parte del sistema è stata progettata dalla RBS Wawe.
Nell’impianto dimostrativo di Stoccarda potranno essere fatte fermentare circa 160 tonnellate di rifiuti di frutta e vegetali del mercato. A seconda dei tipi di rifiuti, è prevista una generazione di circa 20-25 metri cubi di biogas al giorno, che, dopo la purificazione, daranno una resa di circa 15 kg di metano al giorno.
Testo originario integrale: