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Due tra gli autori dell’esperimento: Andrew Truscott (a sinistra)
con Roman Khakimov, (crediti: Stuart Hay, ANU) |
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I fisici della
Australian National University hanno eseguito un test sull’
esperimento della scelta ritardata ideato da John A. Wheeler
nel 1978 per vedere se, come e quando l’osservatore è in grado di influenzare il comportamento dell’oggetto quantistico che sta osservando.
I risultati dell’esperimento hanno confermato, ancora una volta, le predizioni della teoria:
la natura di ogni osservabile è intrinsecamente legata all’osservatore o, meglio, alle modalità di osservazione.
Come è noto,
se vogliamo vedere un elettrone dobbiamo sparargli addosso un fascio di luce. Nessuna misura senza disturbo (
no measurement without disturbance). Sotto questo titolo abbiamo imparato a conoscere
il principio di indeterminazione di Heisenberg che esprime una caratteristica essenziale del dominio quantistico: non è possibile conoscere con la stessa precisione la posizione e il momento (o quantità di moto) di una particella. E, più in generale, non è possibile stabilire se
qualcosa esiste prima di intervenire su quel
qualcosa con i nostri strumenti di misura.
“Il processo di misura è tutto”, dice giustamente Andrew Truscott, uno degli autori della ricerca
pubblicata su Nature Physics. “A livello quantistico, la realtà non esiste finché non la si misura”. In questo nuovo test gli scienziati si sono concentrati
sulla doppia natura delle entità quantistiche – sono onde e particelle
insieme – almeno fino al momento in cui non le si misura. Da quel momento in poi, infatti, a causa del collasso della funzione d’onda solo uno dei due stati diventa “reale” e può essere “visto” da un osservatore (proprio come il gatto di Schrödinger che è vivo e morto finché non si apre la scatola e ci si guarda dentro).
Vediamo in pratica l’esperimento. Il
team di Truscott ha intrappolato una serie di
atomi di elio in un particolare stato quantistico –
il condensato di Bose-Einstein – e poi li ha estratti finché non ne è rimasto solo uno. In un secondo momento ha inserito l’atomo in un
interferometro, un apparato sperimentale in grado di combinare percorsi diversi della luce per studiare le proprietà delle onde elettromagnetiche. Cosa è stato dimostrato? Semplice:
l’atomo si comporta come una particella o come un’onda a seconda della configurazione iniziale dello strumento.
(1)
Per comprendere la portata teorica del risultato è necessario un breve excursus sull’esperimento a scelta ritardata di Wheeler. Immaginiamo un fotone che passa attraverso due fori come un’onda e fa interferenza con se stesso. Per distruggere la figura di interferenza è sufficiente osservarlo
subito dopo che è passato da un foro: dato che non è più un’onda ma una particella, non può passare anche dall’altro foro e la figura di interferenza scompare. Siamo noi che decidiamo quando osservare il fotone: possiamo farlo prima (e lo vediamo come onda) oppure dopo (e lo vediamo come particella
senza interferenza).
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Schema generale dell’esperimento con “oggetti” diversi (crediti: wikipedia).
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Se riveliamo il fotone subito dopo che ha attraversato il primo foro, “subito dopo” significa comunque che è trascorso un lasso di tempo dal suo transito. Ma per quanto piccolo sia il tempo trascorso, il fotone ha
già oltrepassato il foro (ricordiamoci che fino a questo momento il fotone è un’onda perché non l’abbiamo ancora rivelato). Nel frattempo l’onda ha già imboccato
anche l’altro foro e lo ha oltrepassato. E allora come fa il fotone ad essere rivelato “tutto intero” vicino al primo foro? Che fine fa il fronte d’onda che aveva appena oltrepassato il secondo foro? Come se la “mutazione” (passatemi il termine non corretto) da onda a particella duplicasse il fotone o lasciasse dietro di sé una sua parte.
Per chiarire questo aspetto, Wheeler propose di lasciar passare il fotone attraverso la maschera come un’onda passando da entrambi i fori. A questo punto,
dopo che il fronte d’onda ha superato la maschera, dobbiamo intervenire inserendo un rivelatore a giusta distanza dal primo foro (cioè quanto basta per essere sicuri che nel frattempo tutto il fronte d’onda sia già sicuramente transitato dalla maschera).
In pratica vogliamo effettuare la scelta di osservare il fotone come particella, però dopo che esso è transitato da entrambi i fori come un’onda (l’esperimento si chiama appunto “a scelta ritardata”).
Ebbene, inserendo il rivelatore
dopo che l’onda è transitata dalla maschera, esso “vede” il fotone come particella e perciò la figura di interferenza
non si crea. Ma allora che fine fa la parte dell’onda già transitata dal secondo foro?
Scompare nel nulla poiché il fotone viene rivelato interamente vicino al primo foro. Eppure, diciamo noi, l’onda era transitata sicuramente anche dal secondo foro: infatti, se
non si inserisce il rivelatore (lasciando inalterato tutto il resto), si forma la figura di interferenza (che può formarsi solo se l’onda transita da
entrambi i fori). Ora, per quanto possa sembrare strano, se poniamo il problema in questi termini non ne caveremo nulla. Il problema è mal posto.
Il motivo è semplice: stiamo cercando di fornire un’immagine oggettiva di ciò che accade, ma un’immagine oggettiva in questo contesto non è uno strumento epistemico utile. Mentre ha senso dire “la sedia nella mia camera esiste anche quando non la vedo”, non ha senso dire che “l’onda è già passata”, perché solo all’atto della misura possiamo dire che qualcosa è avvenuto: prima della misura il fotone rimane in uno stato indefinito di potenzialità, di non-realtà o non-oggettività. Solo quando inseriamo il rivelatore possiamo dire con certezza che il fotone era passato solo dal primo foro e
non dal secondo foro, e infatti non c’è interferenza. Quando invece non inseriamo il rivelatore, e riveliamo dei fotoni sul bersaglio (con figura di interferenza), allora possiamo dire che ciascun fotone ha fatto interferenza come se fosse un’onda transitata da entrambi i fori; ma questo lo possiamo dire solo dopo che il fotone viene rivelato sul bersaglio (in un punto raggiungibile solo da un’onda ma non da una particella), cioè dopo la misura. La cosa che a noi appare incredibile è che ciò che il fotone ha deciso di fare sulla maschera (passare da un foro solo o entrambi) dipende da una scelta
successiva al suo stesso transito. Infatti il rivelatore viene inserito
dopo che il fronte d’onda è transitato dalla maschera. Come dice Wheeler, la “scelta” di far passare il fotone da un solo foro o da entrambi è “ritardata”, cioè avviene
dopo che il fotone è passato.
(2) Come vedete anche la
causalità come la conosciamo viene qui messa un po’ in discussione. Per non dilungarci troppo, faccio solo una breve riflessione sulla
non-oggettività delle particelle (irrealtà è un po’ forte e non sono certa sia la qualifica corretta. Il fotone esiste: quello che non so indipendentemente dalla mia percezione è come si comporta, onda o particella. Ma esiste). Su questo punto concordo con la posizione di
Moritz Schlick secondo cui la teoria dei quanti limita le possibilità di previsione, nel senso che restringe l’ambito di applicazione del principio della causalità e impone l’uso del calcolo della probabilità. Ovviamente la considerazione probabilistica non significa una rinuncia a conoscere: essa è invece il metodo adeguato per descrivere tutto ciò che si può dire del mondo, visto che le leggi di natura non sono oggetto di una conoscenza assolutamente certa e aprioristicamente vera. Anche se è meno noto di Mach e Waismann, Schlick è stato un brillante esponente del Circolo di Vienna, autore tra l’altro di un saggio fondamentale sulla relatività,
Il significato filosofico del principio di relatività, pubblicato in Italia da Morcelliana.
Più in generale, su oggettività e realtà, è alla
fenomenologia che dobbiamo volgerci se vogliamo trarre qualche spunto filosofico da questi esperimenti.
Dobbiamo dunque accettare che la realtà non esiste finché non viene misurata. La celebre formula che riassume la filosofia di Berkeley, esse est percipi, sembra particolarmente calzante. L’affermazione è molto forte, me ne rendo conto. Se andassimo in giro a dire che gatti, sedie, automobili, computer non esistono finché qualcuno di noi non li vede o non li tocca nella migliore delle ipotesi saremmo sommersi da argomenti filosofici in grado di mostrare
almeno la plausibilità e dignità teorica di posizioni realiste. Nella peggiore saremmo considerati matti. E anche se scendiamo al livello del senso comune non sarebbe strano suscitare delle perplessità di fronte ad affermazioni come “
il computer sul quale sto scrivendo esiste se e solo se lo guardo o ne tocco i tasti“.
Come se la mia percezione costruisse il mondo. Che la sedia su cui adesso sono seduta esista, che sia un oggetto reale nella mia stanza anche quando esco per andare a fare la spesa è qualcosa in cui, personalmente, credo (
pace gli argomenti di cartesiana memoria).
Se scendiamo al livello del microcosmo le cose cambiano. Probabilmente anche le nostre teorie devono cambiare (non ho la presunzione di avere una teoria corretta, né credo esista una “filosofia del tutto” in grado di abbracciare ogni livello ed articolazione della realtà. Mi accontento di
ontologie regionali, coerenti ed esaustive nel loro campo di applicazione). Come ho accennato prima, sul piano filosofico i risultati ottenuti con questo esperimento richiamano alcune istanze della fenomenologia trascendentale husserliana. Alcune, mi raccomando! Vediamo quali. Per Husserl la fenomenologia è un approccio che in campo gnoseologico assegna rilevanza all’esperienza intuitiva. la quale guarda ai fenomeni come punti di partenza e prove per estrarre da esso le caratteristiche essenziali delle esperienze e l’essenza di ciò che sperimentiamo. I fenomeni ci si presentano in un riflesso fenomenologico, ovvero da sempre indissolubilmente associati al nostro punto di vista. Per questi motivi si chiama fenomenologia
trascendentale.
Alcuni anni dopo la pubblicazione della sua opera principale, le
Logische Untersuchungen (Ricerche logiche, 1900 – 1901), Husserl fece alcune scoperte essenziali che lo portarono alla distinzione tra l’atto mentale (
noesis) ed il fenomeno a cui tale atto è diretto (
noema).
Tradotto in termini quantistici, questo significa che la noesis dell’atto di misura resta scissa dal noema che, di volta in volta, misuriamo.
La conoscenza di essenze o idee pure sarebbe possibile solo eliminando tutte le assunzioni riguardo all’esistenza del mondo come esterno ed indipendente. Questa procedura è chiamata
epoché, ma viene spesso interpretata come una forma di
solipsismo metodologico e somiglia a certi esperimenti mentali di Hobbes e Cartesio. Mettere tra parentesi le credenze comuni sulla distinzione tra soggetto-oggetto e sull’esistenza del mondo esterno non è un atteggiamento negativo, non ha una valenza distruttiva in quanto è connesso all’assunzione di quello che Husserl chiama
atteggiamento fenomenologico. Il mondo non è altro che un insieme di fenomeni che si danno alla coscienza: dobbiamo guardare le cose nel loro costituirsi come fenomeni in relazione agli atti di rappresentazione con cui – o meglio mediante cui – li cogliamo.
A livello quantistico nulla è un dato ovvio, men che meno l’esistenza del mondo. Tornare alle cose stesse significa spogliarsi di credenze, ipotesi, pregiudizi e osservare le cose stesse. Per Husserl il nostro sguardo non deve soffermarsi sull’accidentalità degli enti ma sulle essenze. Questo non significa che
le accidentalità che la meccanica quantistica ci consegna non siano pregne di contenuti e vadano buttate via. Ma che per comprenderle a fondo è necessario seguire l’insegnamento di Husserl, mettere tra parentesi l’oggetto naturale nella sua singolarità e operare la
riduzione eidetica che conduce alle essenze quali si danno nell’intuizione della coscienza.
L’analisi fenomenologica dice ovviamente molto di più di quanto possa dire un pacchetto di dati scientifici particolari la cui validità epistemologica è costitutivamente confinata all’ambito da cui sono stati estrapolati. Per questo motivo le analogie finiscono qui. Husserl poi continua spiegando il metodo della riduzione fenomenologica, le caratteristiche dell’io e del mondo-della-vita che conducono anche ad una presa di posizione netta sullo statuto – e sullo status – in cui versavano le scienze. Ma questa è un’altra storia.
Articolo originale:
http://www.sciencedaily.com/releases/2015/05/150527103110.htm