sabato 24 ottobre 2020

Il cuore dell'evoluzione? Condivisione e altruismo.

 

Fonte: L'Espresso
(Un articolo di Giovanni Sabato)
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Polemiche e discussioni fin dai tempi di Darwin. Altruismo e condivisione: sono il cuore dell’evoluzione di Homo sapiens? Decisamente sì: senza la cooperazione, la capacità di fare qualcosa a beneficio degli altri, le società animali non esisterebbero. E la nostra non è un’eccezione: dai gesti individuali sporadici alle società fondate proprio sulla cooperazione, l’altruismo è onnipresente in natura.
Eppure, la vulgata vorrebbe proprio il contrario: nella lotta evolutiva gli egoisti dovrebbero sopraffare gli altruisti, che, dilapidando le proprie risorse, finiscono con l’estinguersi. Ci siamo allora messi anche noi a caccia di una risposta a questo dilemma che, dicevamo, spacca gli addetti ai lavori da Charles Darwin in poi. E siamo andati a chiedere risposte a un luminare doc: David Sloan Wilson, eminente evoluzionista della Università di Binghamton - vicino a New York - autore di decine di pubblicazioni e di libri specialistici, che oggi ha deciso di presentare le sue tesi al grande pubblico in “L’altruismo. La cultura, la genetica e il benessere degli altri” (appena pubblicato da Bollati Boringhieri). E che, di fronte a un dibattito che pare non avere fine, ci rassicura: «La risposta è molto più semplice di quanto non sembri». Ovvero? Serve un passo indietro.
Per oltre un secolo gli evoluzionisti hanno negato che l’altruismo esista: comportamenti all’apparenza altruisti sembravano in realtà avere motivazioni egoistiche. Se aiuto un familiare, sto solo aiutando la propagazione dei miei stessi geni, i veri motori dell’evoluzione nell’ottica del “Gene egoista” che ha reso famoso il biologo inglese Richard Dawkins alla fine degli anni Settanta del secolo scorso. Se aiuto un estraneo è perché mi aspetto un contraccambio. E così via.
Questi meccanismi però, obiettano da allora decine di studiosi, spiegano solo frammenti del variegato panorama dell’altruismo umano e animale. Perché, nei fatti, sia noi umani, sia i cugini primati che un numero infinito di altre specie che popolano il pianeta egoisti proprio non lo sono. Perché? Una risposta esauriente va cercata sempre in prospettiva evoluzionistica, è vero, ma per centrare il bersaglio bisogna allargare lo sguardo. Solo così si pongono le domande giuste, e si possono accantonare ipotesi e quesiti su cui si è affaccendata molta riflessione accademica e filosofica, che sono in realtà marginali.
A partire dalla domanda principe: cosa ci fa fare quello che facciamo? «Posso scegliere un gesto altruista perché lo trovo giusto, per guadagnarmi il paradiso, per la mia reputazione e per mille altre ragioni. Ma posso anche dire che tanti animali del deserto assumono il colore della sabbia, chi con un pigmento nel pelo, chi con un particolare tegumento e così via; e che, a prescindere da come accada, quel che conta è che li mimetizzi bene, aumentando le loro chance di riprodursi», spiega Wilson.
Così tutto l’interrogarsi sulle ragioni del comportamento umano e animale, il cercare di distinguere il vero altruismo dal falso, è fuorviante: il punto cruciale è capire come l’altruismo aiuta a lasciare più figli e più geni nella generazione successiva. Che è la vera cifra del successo evolutivo. Per il quale scivola in secondo piano anche il grado di sacrificio richiesto: perdere due minuti per rispondere a un passante, o la vita per spegnere un incendio, sono gesti diversi nella misura, ma non nella natura di fondo: entrambi comportano un costo a vantaggio di un’altra persona.

L’altruismo, insomma, non riguarda pensieri ed emozioni, ma azioni. E l’altruismo, nelle azioni che comporta, secondo Wilson, scaturisce dalla competizione fra i gruppi. Quindi, secondo lo studioso americano è sbagliato pensare all’evoluzione come a una competizione fra i geni o fra individui, ma bisogna estenderla a tutti i livelli: geni, cellule e gruppi in cui le varie parti lavorano insieme per una meta comune. E, spiega Wilson: quando diversi gruppi con distinte organizzazioni competono fra loro, quelli con più altruisti funzionano meglio e prosperano di più.
È per questo che l’altruismo ha una chance: se la competizione fra i gruppi diviene più importante di quella interna a ciascun gruppo, e si afferma come forza evolutiva dominante, gli altruisti aumentano, nonostante entro ogni gruppo siano favoriti gli egoisti. «All’interno di un gruppo l’egoismo batte l’altruismo. Ma i gruppi altruisti battono i gruppi egoisti. Tutto il resto è commento», sintetizza Wilson.

Per quanto convincente ed entusiasmante possa sembrare, tuttavia, l’idea di Wilson, va detto, è assai controversa. Molti biologi restano profondamente scettici su quanto siano i gruppi a guidare l’evoluzione più che gli individui. E gli scienziati litigano senza pietà non risparmiandosi accuse. D’altra parte, perché sorprendersi? In ballo c’è l’identità stessa della specie: il nostro cammino nel mondo è guidato dai geni egoisti o dallo slancio comunitario che ci ha resi quel che siamo?
Wilson, tira in ballo mille creature del mondo animale: virus, insetti acquatici... E poi traccia diagrammi e flussi. Per argomentare con chiarezza le sue posizioni. «È una di quelle idee, come la visione copernicana del cosmo, che suscitano enormi resistenze. Ma poi, in retrospettiva, appaiono talmente ovvie che ci si chiede come mai ci sia voluto tanto ad arrivarci», osserva.

La selezione naturale che guida l’evoluzione dei gruppi è un fattore così dominante, che il gruppo, organizzato e coeso, si comporta come un singolo organismo. Guardiamo alla storia della vita: così sono nate le nostre cellule, gli organismi pluricellulari, le colonie di insetti sociali come api e formiche che formano più di metà della biomassa di insetti del pianeta. E così hanno preso forma le società umane, che hanno molti tratti del superorganismo.
Naturalmente le nostre comunità non sono alveari e la lotta evolutiva si gioca su altri terreni. Le sue regole, spiega Wilson, sono quelle delineate da Elinor Ostrom, la prima donna ad avere vinto un Premio Nobel per l’economia (nel 2009). Cosa c’entra un Nobel per l’economia con le leggi dell’evoluzione? «All’inizio della mia carriera in economia dominava l’idea che “avido è bello”», ha spiegato la studiosa. «Siamo tutti Homo economicus, si sosteneva, atomi che devono pensare solo al proprio tornaconto personale, e la mano invisibile del mercato farà sì che, come per magia, ciò porti al bene comune. Ma più studiavo e più mi accorgevo che era una tesi del tutto infondata, ammantata di un’aura di autorevolezza dalle equazioni matematiche».
Oggi Wilson riconosce che l’idea della “mano invisibile” è ragionevole: una società può funzionare bene senza che i suoi membri si preoccupino espressamente del benessere comune. Ma si preoccupa, da evoluzionista, di spiegare che questo accade solo in condizioni molto particolari, come quelle individuate da Elinor Ostrom, appunto. È stata lei a dimostrare che i gruppi sono capaci di gestire le risorse comuni senza depredarle, ma solo se rispettano precise condizioni: otto principi che creano un’organizzazione tale da rendere svantaggiosi i comportamenti egoistici individuali, che porterebbero al loro rapido depauperamento, garantendo che le azioni per il bene comune vincano la gara darwiniana. Come?
Partendo dalla salvaguardia della risorsa, vantaggiosa rispetto allo sfruttamento egoistico indiscriminato, che il gruppo deve saper valutare, come deve valutare perché la si vuole utilizzare. Serve poi saper calibrare i diversi contributi e le ragioni che portano i singoli ad occupare le posizioni d’alto rango, prevenendo disparità ingiustificate. Così come servono scelte collettive e un monitoraggio capace di prevenire lo sfruttamento eccessivo o abusivo. Servono meccanismi che regolino le sanzioni e risolvano rapidamente ed equamente i conflitti. Se il gruppo è parte di un sistema sociale più ampio, tra i gruppi principali deve esistere un adeguato coordinamento. E la comunità si comporterà così come un vero organismo.

Nei millenni solo pochissimi modelli sociali, fra i tanti sperimentati, hanno vinto la gara evolutiva perché garantiscono che l’egoismo dei livelli inferiori non distrugga il bene comune. «E l’egoismo individuale sfrenato è pericoloso. Si è imposto in questi decenni a spese della società, non a suo vantaggio, come un cancro prolifera a spese dell’organismo».
La visione delle comunità come organismi, invece, ha una lunga storia filosofica e religiosa. Come spiega Wilson: «Oggi ci suona strana, colpa del fatto che dalla metà Novecento ha prevalso un dogma individualista che vuole spiegare tutto in funzione dei comportamenti del singolo, culminato nell’era di Margaret Thatcher che asseriva: “La società non esiste. Esistono gli individui, uomini e donne, ed esistono le famiglie”. Una visione che oggi mostra tutti i suoi limiti, a partire dalla gestione dei beni comuni planetari. Per far funzionare le società dobbiamo cambiare paradigma e tornare a vederle come organismi, ma nella nuova ottica evolutiva».

E vedendola da questo punto di vista non sorprende che i meccanismi concreti attraverso i quali prendono forma gli otto principi di Elinor Ostrom siano molto diversi da cultura a cultura: come per i colori mimetici nel deserto, quel che conta è che funzionino. Fino all’estremo. «Se i meccanismi psicologici egoistici sono più efficaci nel promuovere azioni utili agli altri, ben venga l’egoismo», afferma Wilson.

Resta allora da chiedersi: quali sono i meccanismi che funzionano? Risposta: «Sono quelle condizioni che appartengono all’identità e alle culture di Homo sapiens. Sono, ad esempio, il senso della giustizia e la disponibilità a pagare un prezzo per punire chi imbroglia, oltre che a definire le strutture sociali per metterli in atto. Ma solo da pochi decenni alcuni economisti hanno iniziato a studiare come attore economico Homo sapiens anziché l’inesistente Homo economicus».

Perché, in fondo, quel che preme al biologo evoluzionista, è la salvezza della specie che egli vede legata a quella del pianeta. Tanto che gli pare decisamente che la sfida cruciale per l’umanità oggi sia quella di darsi strutture capaci di governare le sfide di livello planetario. Qui non si può più contare sulla selezione: non abbiamo tante umanità che competano ciascuna col suo modello di governance mondiale, per vedere qual è il più adatto a controllare l’egoismo sfrenato di Stati, aziende e altre entità di livello inferiore. «Ma ciò non vuol dire che la sfida non possa essere vinta. Solo che stavolta, con studi teorici e prove su piccola scala, andando per tentativi ed errori, i selezionatori dovremo essere noi».

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