Fonte: Galileo
Grande due volte il Texas, invisibile ai satelliti. È l’enorme ammasso di rifiuti che si trova nel Pacifico, tra Giappone e Hawaii. Tre spedizioni cercano di capire quale sarà il suo futuro.
di Roberta Pizzolante:
Resti di bottiglie, bicchieri, buste, suole di scarpe, spazzolini da denti, siringhe. A bordo del catamarano Arguita, il capitano Charles Moore, oceanografo americano fondatore dell’Algalita Marine Research Foundation, dopo più di 10 anni, è tornato a navigare nel bel mezzo di questa spazzatura, nell’Oceano Pacifico tra Giappone e Hawaii. Là, dove nel 1997, quasi per caso, il ricercatore scoprì il fenomeno denominato poi “Pacific Trash Vortex” (Vortice di spazzatura del Pacifico) o anche “Great Pacific Garbage Patch”: un enorme ammasso di rifiuti, per l’80 per cento plastica, che si estende galleggiando per chilometri e chilometri a formare una specie di isola, grande due volte il Texas. Le cifre di questo mare di plastica fanno paura: 100 milioni di tonnellate di rifiuti per un diametro di oltre 2500 chilometri e una profondità di almeno 30 metri . Un ‘blob’ creato dall’essere umano che, dicono i ricercatori, continua ad aumentare minacciando l’ecosistema marino e gli stessi umani. Sconosciuto per anni, il vortice si è formato probabilmente a partire dagli anni Cinquanta sotto l’azione del North Pacific Subtropical Gyre, una lenta corrente oceanica a spirale prodotta da un sistema di alta pressione: la plastica proveniente dalle coste americane e asiatiche o gettata in mare da navi e pescherecci resta intrappolata nel vortice e converge qui concentrandosi in due macro-aree, una a sud ovest del Giappone e l’altra a nord ovest delle Hawaii. “La spedizione del capitano Moore si concentra nello stesso punto in cui scoprì il fenomeno, per analizzare i cambiamenti nella consistenza e nell’estensione. Per ora si può dire che l’accumulo di rifiuti è cresciuto”, spiega Marieta Frencis, direttore esecutivo della Algalita Marine Research Foundation (http://www.algalita.org/). “Durante le ultime due spedizioni abbiamo raccolto numerosi campioni di pesci che avevano ingerito le particelle di plastica scambiandole per zooplankton. L’obiettivo è capire che effetto abbiano questi inquinanti sugli organismi marini e sull’intera catena alimentare”.Per far luce sui molti lati oscuri del fenomeno e cercare delle soluzioni, altre due spedizioni congiunte sono partite ad agosto scorso alla volta del North Pacific Gyre, trovandosi di fronte più plastica di quanta se ne aspettassero. La prima è la Seaplex (Scripps environmental accumulation of plastic expedition, http://sio.ucsd.edu/Expeditions/Seaplex/), condotta dai ricercatori dello Scripps Institution of Oceanography dell’Università della California di San Diego a bordo del battello New Horizon, che si sono recati a 1000 miglia dalla costa della California per analizzare la distribuzione e la concentrazione dei pezzi di plastica e l’impatto sulla vita marina. La seconda è quella dei ricercatori del progetto Kaisei (www.projectkaisei.org), a bordo della nave omonima, impegnati nella valutazione di metodi per la raccolta della plastica e per la bonifica dell’area. L’unico modo per studiare l’isola di plastica e il suo comportamento, infatti, è andare sul posto. La plastica, infatti, non biodegrada ma fotodegrada: l’azione dei raggi ultravioletti favorisce il suo sminuzzamento in detriti minuscoli, delle dimensioni dei polimeri che la compongono, che vengono rimescolati continuamente per effetto delle correnti. Formando così una poltiglia invisibile ai satelliti. Una caratteristica che fa supporre che questo possa essere solo uno dei vortici di rifiuti presenti nei mari. “Ogni grande oceano ha zone di convergenza, non c'è ragione per credere che questo fenomeno non sia presente anche altrove”, spiega Chelsea Rochman, membro della missione Seaplex. “E infatti progetti di esplorazione simili al nostro sono in programma sia nell'Atlantico che nel Sud Pacifico”.
Ma torniamo al “Pacific Trash Vortex”. Quelli portati a casa dalle due spedizioni sono risultati preliminari, ma una cosa è certa: l’immondizia aumenta e rischia di contaminare l’intera catena alimentare. In 100 campioni raccolti su un’area di oltre 2000 chilometri d’oceano gli scienziati hanno trovato plastica in ogni campione, minuscoli pezzi della stessa taglia dello zooplanckton. “Si forma una sorta di zuppa tossica che i pesci e i molluschi scambiano facilmente per cibo. I frammenti e detriti agiscono come spugne che assorbono gli inquinanti organici persistenti come Ddt e diossine”, spiega George Orbelian, membro del Progetto Kaisei. “Una volta che questi piccoli pezzi sono ingeriti dagli animali marini, le tossine si accumulano negli organismi. Qualsiasi cosa proveniente dall’oceano che finisce nei nostri piatti è a rischio tossine”. Non solo. Secondo il team c’è il rischio che si producano specie invasive. I pesci infatti si raccolgono intorno ai pezzi di plastica e per effetto delle correnti vengono trasportati nel vortice, finendo dove normalmente non dovrebbero esserci, con effetti negativi sulle specie native dell’area.Proprio per la loro piccola taglia, i pezzetti di plastica pongono numerosi problemi per la bonifica dell’area. “Penso che non sia realistico ripulire senza fare più danni di quelli già in atto. È impossibile pensare di raccogliere questi minuscoli pezzi senza far finire nelle reti anche gli animali marini che abitano quel tratto d’oceano”, spiega ancora Rochman. “La soluzione più efficace a questo punto è risolvere il problema a monte, con la prevenzione. Non siamo capaci di pulire quello che già si trova lì, ma possiamo impedire che altri detriti vadano a finire nel vortice”. Ma i membri del progetto Kaisei non ci stanno, e intendono valutare la fattibilità delle opere di bonifica e puntare sul riciclo dei rifiuti, anche per ricavarne biocarburante.
Per questo hanno avviato una collaborazione con il Bureau of International Recycling (Bir), sponsor della spedizione avvenuta ad agosto. “Siamo in attesa dei risultati dei campionamenti effettuati dal team per capire con quali materiali abbiamo a che fare”, spiega Elisabeth Christ del Bir. “Il riciclo delle plastiche salva l’80 per cento dell’energia. La plastica nell’oceano è di diverso tipo, il riciclo dipende dall’uso di efficaci tecnologie di identificazione e separazione molecolare. In teoria, il biocarburante può essere ottenuto, ma ancora non abbiamo un progetto in merito. Bisogna però mettere in evidenza l’importanza che i prodotti vengano concepiti sin dall’inizio per il riciclo”.
Resti di bottiglie, bicchieri, buste, suole di scarpe, spazzolini da denti, siringhe. A bordo del catamarano Arguita, il capitano Charles Moore, oceanografo americano fondatore dell’Algalita Marine Research Foundation, dopo più di 10 anni, è tornato a navigare nel bel mezzo di questa spazzatura, nell’Oceano Pacifico tra Giappone e Hawaii. Là, dove nel 1997, quasi per caso, il ricercatore scoprì il fenomeno denominato poi “Pacific Trash Vortex” (Vortice di spazzatura del Pacifico) o anche “Great Pacific Garbage Patch”: un enorme ammasso di rifiuti, per l’80 per cento plastica, che si estende galleggiando per chilometri e chilometri a formare una specie di isola, grande due volte il Texas. Le cifre di questo mare di plastica fanno paura: 100 milioni di tonnellate di rifiuti per un diametro di oltre 2500 chilometri e una profondità di almeno 30 metri . Un ‘blob’ creato dall’essere umano che, dicono i ricercatori, continua ad aumentare minacciando l’ecosistema marino e gli stessi umani. Sconosciuto per anni, il vortice si è formato probabilmente a partire dagli anni Cinquanta sotto l’azione del North Pacific Subtropical Gyre, una lenta corrente oceanica a spirale prodotta da un sistema di alta pressione: la plastica proveniente dalle coste americane e asiatiche o gettata in mare da navi e pescherecci resta intrappolata nel vortice e converge qui concentrandosi in due macro-aree, una a sud ovest del Giappone e l’altra a nord ovest delle Hawaii. “La spedizione del capitano Moore si concentra nello stesso punto in cui scoprì il fenomeno, per analizzare i cambiamenti nella consistenza e nell’estensione. Per ora si può dire che l’accumulo di rifiuti è cresciuto”, spiega Marieta Frencis, direttore esecutivo della Algalita Marine Research Foundation (http://www.algalita.org/). “Durante le ultime due spedizioni abbiamo raccolto numerosi campioni di pesci che avevano ingerito le particelle di plastica scambiandole per zooplankton. L’obiettivo è capire che effetto abbiano questi inquinanti sugli organismi marini e sull’intera catena alimentare”.Per far luce sui molti lati oscuri del fenomeno e cercare delle soluzioni, altre due spedizioni congiunte sono partite ad agosto scorso alla volta del North Pacific Gyre, trovandosi di fronte più plastica di quanta se ne aspettassero. La prima è la Seaplex (Scripps environmental accumulation of plastic expedition, http://sio.ucsd.edu/Expeditions/Seaplex/), condotta dai ricercatori dello Scripps Institution of Oceanography dell’Università della California di San Diego a bordo del battello New Horizon, che si sono recati a 1000 miglia dalla costa della California per analizzare la distribuzione e la concentrazione dei pezzi di plastica e l’impatto sulla vita marina. La seconda è quella dei ricercatori del progetto Kaisei (www.projectkaisei.org), a bordo della nave omonima, impegnati nella valutazione di metodi per la raccolta della plastica e per la bonifica dell’area. L’unico modo per studiare l’isola di plastica e il suo comportamento, infatti, è andare sul posto. La plastica, infatti, non biodegrada ma fotodegrada: l’azione dei raggi ultravioletti favorisce il suo sminuzzamento in detriti minuscoli, delle dimensioni dei polimeri che la compongono, che vengono rimescolati continuamente per effetto delle correnti. Formando così una poltiglia invisibile ai satelliti. Una caratteristica che fa supporre che questo possa essere solo uno dei vortici di rifiuti presenti nei mari. “Ogni grande oceano ha zone di convergenza, non c'è ragione per credere che questo fenomeno non sia presente anche altrove”, spiega Chelsea Rochman, membro della missione Seaplex. “E infatti progetti di esplorazione simili al nostro sono in programma sia nell'Atlantico che nel Sud Pacifico”.
Ma torniamo al “Pacific Trash Vortex”. Quelli portati a casa dalle due spedizioni sono risultati preliminari, ma una cosa è certa: l’immondizia aumenta e rischia di contaminare l’intera catena alimentare. In 100 campioni raccolti su un’area di oltre 2000 chilometri d’oceano gli scienziati hanno trovato plastica in ogni campione, minuscoli pezzi della stessa taglia dello zooplanckton. “Si forma una sorta di zuppa tossica che i pesci e i molluschi scambiano facilmente per cibo. I frammenti e detriti agiscono come spugne che assorbono gli inquinanti organici persistenti come Ddt e diossine”, spiega George Orbelian, membro del Progetto Kaisei. “Una volta che questi piccoli pezzi sono ingeriti dagli animali marini, le tossine si accumulano negli organismi. Qualsiasi cosa proveniente dall’oceano che finisce nei nostri piatti è a rischio tossine”. Non solo. Secondo il team c’è il rischio che si producano specie invasive. I pesci infatti si raccolgono intorno ai pezzi di plastica e per effetto delle correnti vengono trasportati nel vortice, finendo dove normalmente non dovrebbero esserci, con effetti negativi sulle specie native dell’area.Proprio per la loro piccola taglia, i pezzetti di plastica pongono numerosi problemi per la bonifica dell’area. “Penso che non sia realistico ripulire senza fare più danni di quelli già in atto. È impossibile pensare di raccogliere questi minuscoli pezzi senza far finire nelle reti anche gli animali marini che abitano quel tratto d’oceano”, spiega ancora Rochman. “La soluzione più efficace a questo punto è risolvere il problema a monte, con la prevenzione. Non siamo capaci di pulire quello che già si trova lì, ma possiamo impedire che altri detriti vadano a finire nel vortice”. Ma i membri del progetto Kaisei non ci stanno, e intendono valutare la fattibilità delle opere di bonifica e puntare sul riciclo dei rifiuti, anche per ricavarne biocarburante.
Per questo hanno avviato una collaborazione con il Bureau of International Recycling (Bir), sponsor della spedizione avvenuta ad agosto. “Siamo in attesa dei risultati dei campionamenti effettuati dal team per capire con quali materiali abbiamo a che fare”, spiega Elisabeth Christ del Bir. “Il riciclo delle plastiche salva l’80 per cento dell’energia. La plastica nell’oceano è di diverso tipo, il riciclo dipende dall’uso di efficaci tecnologie di identificazione e separazione molecolare. In teoria, il biocarburante può essere ottenuto, ma ancora non abbiamo un progetto in merito. Bisogna però mettere in evidenza l’importanza che i prodotti vengano concepiti sin dall’inizio per il riciclo”.
Nessun commento:
Posta un commento