Fonte: Galileo
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Nel Lazio il primo progetto di counselling alle coppie sieropositive che vogliono procreare. L’iniziativa di Anlaids Lazio e Inmi L. Spallanzani.
Sempre più coppie sieropositive manifestano la voglia di avere un bambino. Ma non sono sufficientemente informate sulla propria malattia e sulla possibilità di mettere al mondo figli sani. Per favorire una scelta informata e consapevole Anlaids Lazio e Istituto Nazionale Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani lanciano un servizio di counselling per le coppie sieropositive discordanti e non, cioè in cui uno o entrambi i partner risultino affetti dal virus. Il “Progetto genitorialità”, presentato ieri in conferenza stampa, è il primo nel suo genere in Italia e potrebbe essere replicato anche in altre regioni.
“Il problema principale delle donne sieropositive non è la terapia che stanno seguendo o la loro sopravvivenza”, spiega Ferdinando Aiuti, Presidente della Commissione per le Politiche sanitarie del Comune di Roma.“Ciò che le preoccupa maggiormente è sapere se potranno avere un figlio sano. Oppure, nel caso sia l’uomo a essere sieropositivo, se possono intraprendere una gravidanza senza infettarsi”. Il progetto, realizzato con il contributo del Ministero delle Pari Opportunità e del Comune di Roma, aiuterà a rispondere a queste domande e a programmare il percorso per diventare futuri genitori. In 36 mesi almeno 50 coppie sieropositive in cura presso i centri clinici della Regione Lazio saranno assistite nelle fasi di pre-concepimento, gravidanza e post partum da diverse figure professionali (psicologi, volontari infettivologi, ginecologi e pediatri). Non solo. Dopo la nascita il bambino verrà assistito dal centro pediatrico fino all’adolescenza.
Un’iniziativa, insomma, nata per garantire il diritto delle persone sieropositive a diventare genitori e quello del bambino a nascere sano. L’infezione da Hiv oggi coinvolge un numero sempre crescente di donne in età fertile, il cui desiderio di genitorialità è legittimato dai progressi scientifici. I dati sulla sorveglianza nazionale sul trattamento antiretrovitrale in gravidanza, coordinati dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss) dal 2001, mostrano un buon rapporto rischio beneficio del trattamento antiretrovirale in gravidanza. Grazie alle terapie nelle donne in età fertile il pericolo si è abbassato a tal punto che nel 2007 in Italia si è registrato un solo caso di trasmissione verticale del virus. In assenza di terapia la frequenza varia, tra il 7 e il 40 per cento. Nel caso di coppie discordanti in cui è l’uomo ad essere Hiv positivo è stato dimostrato che trattando lo sperma è possibile rimuovere la componente cellulare più infettata dal virus, per cui un programma di inseminazione intrauterina ridurrebbe di molto il rischio di trasmissione verticale dell’Hiv.
Ma sebbene esistano queste possibilità, le coppie sono ancora poco informate e manca una seria programmazione della gravidanza. Nel 50 per cento dei casi le donne con Hiv, infatti, non l’hanno pianificata e il 23 per cento ha scoperto l’infezione solo durante lo screening prenatale. Invece, tra quelle che sanno di essere sieropositive, circa la metà è già in trattamento al momento del concepimento ma il 20 per cento utilizza una terapia controindicata o a rischio tossicità per il nascituro.
Da qui l’esigenza di una più diffusa applicazione del counselling preconcezionale e del test Hiv tra le donne in età fertile, di una completa copertura per lo screening in gravidanza e di un’adeguata assistenza alle coppie. “L’utilizzo di terapia antiretrovirale nei nove mesi di gestazione, del parto cesareo e dell’allattamento artificiale hanno contribuito alla riduzione della trasmissione materno fetale del virus”, spiega Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Inmi L. Spallanzani. “L’identificazione di problemi e timori riguardanti il percorso per diventare genitori e l’informazione sulle strategie per ridurre la trasmissione materno-fetale del virus sono di primaria importanza sia per una donna gravida sieropositiva sia per le coppie discordanti. Fornire loro un counselling preconcezionale di supporto aiuta ulteriormente la coppia a fare una scelta informata e consapevole”.
Concluso il progetto sarà realizzato un vademecum informativo come strumento di divulgazione sull’adozione e l’accesso a percorsi assistenziali per coppie desiderose di avere un figlio in cui uno o entrambi i partner siano sieropositivi. (r.p.)
“Il problema principale delle donne sieropositive non è la terapia che stanno seguendo o la loro sopravvivenza”, spiega Ferdinando Aiuti, Presidente della Commissione per le Politiche sanitarie del Comune di Roma.“Ciò che le preoccupa maggiormente è sapere se potranno avere un figlio sano. Oppure, nel caso sia l’uomo a essere sieropositivo, se possono intraprendere una gravidanza senza infettarsi”. Il progetto, realizzato con il contributo del Ministero delle Pari Opportunità e del Comune di Roma, aiuterà a rispondere a queste domande e a programmare il percorso per diventare futuri genitori. In 36 mesi almeno 50 coppie sieropositive in cura presso i centri clinici della Regione Lazio saranno assistite nelle fasi di pre-concepimento, gravidanza e post partum da diverse figure professionali (psicologi, volontari infettivologi, ginecologi e pediatri). Non solo. Dopo la nascita il bambino verrà assistito dal centro pediatrico fino all’adolescenza.
Un’iniziativa, insomma, nata per garantire il diritto delle persone sieropositive a diventare genitori e quello del bambino a nascere sano. L’infezione da Hiv oggi coinvolge un numero sempre crescente di donne in età fertile, il cui desiderio di genitorialità è legittimato dai progressi scientifici. I dati sulla sorveglianza nazionale sul trattamento antiretrovitrale in gravidanza, coordinati dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss) dal 2001, mostrano un buon rapporto rischio beneficio del trattamento antiretrovirale in gravidanza. Grazie alle terapie nelle donne in età fertile il pericolo si è abbassato a tal punto che nel 2007 in Italia si è registrato un solo caso di trasmissione verticale del virus. In assenza di terapia la frequenza varia, tra il 7 e il 40 per cento. Nel caso di coppie discordanti in cui è l’uomo ad essere Hiv positivo è stato dimostrato che trattando lo sperma è possibile rimuovere la componente cellulare più infettata dal virus, per cui un programma di inseminazione intrauterina ridurrebbe di molto il rischio di trasmissione verticale dell’Hiv.
Ma sebbene esistano queste possibilità, le coppie sono ancora poco informate e manca una seria programmazione della gravidanza. Nel 50 per cento dei casi le donne con Hiv, infatti, non l’hanno pianificata e il 23 per cento ha scoperto l’infezione solo durante lo screening prenatale. Invece, tra quelle che sanno di essere sieropositive, circa la metà è già in trattamento al momento del concepimento ma il 20 per cento utilizza una terapia controindicata o a rischio tossicità per il nascituro.
Da qui l’esigenza di una più diffusa applicazione del counselling preconcezionale e del test Hiv tra le donne in età fertile, di una completa copertura per lo screening in gravidanza e di un’adeguata assistenza alle coppie. “L’utilizzo di terapia antiretrovirale nei nove mesi di gestazione, del parto cesareo e dell’allattamento artificiale hanno contribuito alla riduzione della trasmissione materno fetale del virus”, spiega Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Inmi L. Spallanzani. “L’identificazione di problemi e timori riguardanti il percorso per diventare genitori e l’informazione sulle strategie per ridurre la trasmissione materno-fetale del virus sono di primaria importanza sia per una donna gravida sieropositiva sia per le coppie discordanti. Fornire loro un counselling preconcezionale di supporto aiuta ulteriormente la coppia a fare una scelta informata e consapevole”.
Concluso il progetto sarà realizzato un vademecum informativo come strumento di divulgazione sull’adozione e l’accesso a percorsi assistenziali per coppie desiderose di avere un figlio in cui uno o entrambi i partner siano sieropositivi. (r.p.)
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